Intervento del prof. Mauro Ronco al convegno “Non c’è diritto senza limiti. Una prospettiva medica e giuridica sulla fine della vita oggi”, tenutosi a Torino, presso la Piccola Casa della Divina Provvidenza, il 17 ottobre 2025.

La situazione italiana presenta una peculiarità rispetto a quella di altri paesi europei, consistente in ciò, che il diritto ha mantenuto vigenza al divieto dell’aiuto al suicidio e dell’eutanasia. La Corte costituzionale, intervenendo con tre distinte sentenze, precedute da un’ordinanza (ord. 16.11.2018, n. 207; sent. n. 242/2019; sent. n. 135/2024; sent. n. 66/2025) ha previsto una circoscritta area di non conformità costituzionale dell’art. 580 c.p. (che prevede l’istigazione o l’aiuto al suicidio), corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile, e  (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma (d) resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

La Corte, in tal modo, ha introdotto una peculiare causa di non punibilità di chi agevoli il suicidio altrui, senza affatto riconoscere al paziente la facoltà di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire (C. cost., ord. 16.11.2018, n. 207, punto 5 ss. e sent. n. 242/2019, punto 2.2. del Considerato in diritto). La sentenza si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza prevedere alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici (C. cost. n. 242/2019, punto 6 del Considerato in diritto).

2. La ratio decidendi della Corte non sta nel venir meno in alcuni casi del valore della vita, poiché – secondo la Corte – lo Stato ha il dovere di proteggere il diritto alla vita di ogni persona, soprattutto di quelle più fragili e vulnerabili, in quanto primo dei diritti fondamentali e fonte di tutti gli altri diritti, bensì nella riscontrata analogia della situazione definita dai quattro requisiti di cui supra con la situazione che si dà nell’ambito della relazione terapeutica tra paziente e medico nei casi in cui il malato rinunci o chieda l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale, consistenti, in particolare, nella ventilazione con macchinari, nell’idratazione e nell’alimentazione per via artificiale.

Nei casi previsti dalla Legge n. 219 del 2017, in ordine al consenso informato, «ogni persona capace di agire» ha il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ricomprendendosi nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, co. 5): diritto inquadrato nel contesto della «relazione di cura e di fiducia» tra paziente e medico.

Ora, nei casi in cui sussistono i quattro requisiti indicati dalla Corte il malato sarebbe già in condizione di richiedere l’interruzione del trattamento di sostegno vitale.

Pertanto tra le due situazioni vi sarebbe, una stretta analogia, sì che non consentire di richiedere l’aiuto a morire a chi già è in condizioni di richiedere l’interruzione del trattamento di sostegno vitale realizzerebbe una violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza.

3. La Corte ha previsto una serie di cautele sostanziali e procedurali affinché l’opzione di somministrare farmaci in grado di provocare la morte entro un breve lasso di tempo non comporti il rischio di una prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, di fornire al paziente cure palliative, diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sofferenza.

Per questo, il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire un pre-requisito della scelta dell’eventuale percorso alternativo del paziente. Dichiara la Consulta: se il coinvolgimento nel percorso di cure palliative non fosse obbligatorio: “si cadrebbe nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative” (ultima parte del Considerato in diritto al punto 2.4.).

4. Cautele procedimentali. La Corte costituzionale le trae dalla disciplina racchiusa negli artt. 1 e 2 della Legge n. 219/2017:

  • verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto al suicidio;
  • verifica affidata a strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale;
  • intervento di un organo collegiale terzo, individuato nei Comitati etici territorialmente competenti, già investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in relazione alle sperimentazioni cliniche di medicinali o all’uso di questi ultimi e dei dispositivi medici (art. 12, co. 10, lett. c), del D.L. n. 158/2012; art. 1 D. Ministro della Salute 8 febbraio 2013: “Criteri per la composizione e il funzionamento dei Comitati etici”).

5. Osservazioni. La Corte costituzionale ha cercato di mantenere il primato del dovere dello Stato di proteggere la vita equiparando la richiesta, in casi rigorosamente prefissati, dell’aiuto al suicidio alla richiesta del paziente, nell’ambito della relazione terapeutica, di essere lasciato morire con la rinuncia alle cure.

Senonché, da un punto di vista sia etico che giuridico, l’equivalenza è fallace.

Infatti, la rinuncia alle cure, anche nel caso in cui esse siano utili e potenzialmente efficaci, non corrisponde necessariamente al suicidio. Il costitutivo formale dell’atto volontario è la volontà dell’evento terminativo della condotta. Tale elemento fornisce la definizione morale e giuridica dell’atto. Il suicidio, allora, è soltanto l’atto di colui che, conoscendo con precisione tutti gli elementi che connotano la sua situazione esistenziale e riconducendo a sé stesso la causa della morte, dirige la propria intenzione verso la distruzione della vita, scegliendo i mezzi idonei per realizzarla.

Essenziale, dunque, affinché si possa parlare di suicidio, è che la persona riconduca la causa della morte alla sua omissione e non al progredire inarrestabile della malattia.

L’esperienza insegna che ciò non accade nella grandissima parte dei casi in cui il paziente rinuncia a determinati trattamenti.

Egli, infatti, in tali casi, riconduce alla malattia, e non a sé stesso, la causa della morte. V’è una profonda differenza tra la volontà e il desiderio. Si può desiderare di morire, per le angosce circa il futuro e i dolori attuali, per la perdita di ogni speranza e per il timore di affrontare situazioni oscure e incerte. Il desiderio è lo sfondo su cui sorge la volontà. La distinzione fondamentale è tra l’intenzione di darsi la morte perseguendola come fine, da un lato, e, dall’altro, l’accettazione della morte come effetto collaterale e inevitabile della malattia. Anche se l’effetto collaterale fosse accolto come un bene, ma non  è stato oggetto dell’intenzione, lì non c’è volontà di suicidio. Taluno può accogliere la morte come una benedizione perché mette termine a una condizione di sofferenza, di angoscia, di povertà o di solitudine, ovvero perché, in una dimensione di fede, apre le porte a una vita nuova e più piena.

Per i motivi esposti è fallace l’analogia tra la rinuncia alle cure, anche se ancora utili e potenzialmente efficaci, e la richiesta di essere aiutati a uccidersi.

6. La sentenza n. 135 del 2024 della Corte costituzionale. La Corte si è pronunciata nuovamente sull’art. 580 del codice penale come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019.

Il Tribunale di Firenze ha ipotizzato l’incostituzionalità della norma modificata con la prima sentenza per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 Cost., a motivo della subordinazione della non punibilità alla circostanza che l’aiuto al suicidio sia prestato a una persona “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”.

Secondo il giudice rimettente la sentenza della Corte n. 242 sarebbe irragionevole perché la non punibilità non è stata prevista per l’aiuto prestato a pazienti che non dipendono da trattamenti di sostegno vitale. Secondo il Tribunale, inoltre, sarebbe contrario al diritto di autodeterminazione limitare la non punibilità ai casi riconducibili alla c.d. autodeterminazione terapeutica; ciò che conterebbe sul piano del diritto costituzionale sarebbe un concetto di autodeterminazione più ampio, che coincide con il generalissimo diritto di libertà, di autonomia, dunque, di assoluta autodeterminazione dell’individuo sulla propria vita e sulla propria morte.

Sul punto principale della questione, che riguarda la nozione di “trattamento di sostegno vitale”, la Corte costituzionale ne ha precisato la definizione individuando tre requisiti essenziali di tale nozione: uno soggettivo, il trattamento deve riguardare interventi che richiedono competenze professionali; due di tipo oggettivo: il trattamento anzitutto è ancorato a un giudizio di efficacia causale: è tale il trattamento che funge da condizione necessaria per espletare le funzioni vitali; in secondo luogo a un requisito temporale: l’omissione o l’interruzione del trattamento dovrebbe determinare la morte del paziente in un breve lasso di tempo (requisito temporale).

La nozione, per quanto costituisca un’apertura rispetto all’elenco fornito nella sentenza n. 242/2019, conduce, tramite il requisito della necessarietà rispetto allo svolgimento di funzioni vitali (e non anche rispetto all’espletamento di bisogni o di cure vitali) a un giudizio di indispensabilità clinica (e non di mero supporto o aiuto) della cura somministrata  al paziente per lo svolgimento di tali funzioni biologiche e, al contempo, per la conservazione in vita della persona, la quale, diversamente, cesserebbe di vivere in breve tempo.

7. La sentenza n. 66 del 2025 della Consulta risponde a un’eccezione del Tribunale di Milano, che denunciava il contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 32, 2° co., 117, 1° co. Cost. della norma modificata nella parte in cui conserva la punibilità dell’aiuto al suicidio della persona che abbia fatto richiesta di accesso alla pratica, pur non essendo tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.

La risposta della Corte ha in quest’ultima pronuncia una valenza chiaramente anti-eutanasica, poiché focalizza la natura del giudizio di bilanciamento tra il dovere dello Stato di tutelare la vita e l’autodeterminazione del malato, pervenendo alla conclusione che tale bilanciamento deve garantire due livelli di protezione. Il primo livello deve prevenire il pericolo di abusi alle persone fragili e vulnerabili; il secondo si esprime su un piano più generale, perché consiste nel “contrastare derive sociali o culturali che inducono le persone malate a scelte suicide, quando invece potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso”.

8. Prospettive. Ci si domanda ora se sia necessaria o meno una legge del Parlamento che, dopo le sentenze della Corte, regolamenti in modo ulteriore la disciplina giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia.

Dal punto di vista giuridico-costituzionale una legge del Parlamento non è assolutamente necessaria, per due ragioni.

Per un verso, la Corte costituzionale ha espunto dal quadro del diritto vigente i profili che si sarebbero presentati in contrasto con la libertà terapeutica riconosciuta al paziente affetto da malattia incurabile, tale da provocare sofferenze intollerabili e mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, pur conservando la capacità di esprimere scelte libere e consapevoli. Per un altro verso, la Corte ha escluso la disponibilità assoluta della vita, non riconoscendo un “diritto” alla morte. La Costituzione, infatti, allo stesso modo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, riconosce e tutela il diritto alla vita e non il suo contrario.

Procedere, quindi, all’approvazione di una legge significa mettere in pericolo l’equilibrio dei valori che la Corte ha espresso con l’emanazione di una serie di pronunce via via più articolate e consapevoli della decisiva rilevanza della tutela della vita, soprattutto in una società in cui sono presenti oscure spinte verso la morte.

9. Inoltre, dal punto di vista tecnico giuridico, non è affatto necessaria una legge per dare attuazione alle sentenze in materia della Corte costituzionale. Il dispositivo delle sentenze è autoattuativo, nel senso che non necessita di alcuna integrazione normativa per essere applicato da qualsiasi giudice della Repubblica, che sia chiamato, secondo il riparto delle competenze dell’ordinamento, a giudicare un fatto riconducibile nel suo profilo esteriore alla fattispecie penale di cui all’art. 580 c.p.

A conferma del carattere autoattuativo delle sentenze della Corte occorre ricordare che la Consulta si è fatta carico di evitare che la declaratoria di illegittimità parziale determinasse dei “vuoti di disciplina”. Infatti, la non punibilità dei fatti oggetto di giudizio è stata sottoposta “al rispetto di specifiche cautele volte a garantire un controllo preventivo sull’effettiva esistenza delle condizioni che rendono lecita la condotta” (C. cost., sent. n. 242/2019, punto 5. del Considerato in diritto).

Le cautele procedimentali individuate dalla Corte, unitamente ai requisiti sostanziali di non punibilità, costituiscono un sistema completo, che rende le pronunce idonee allo scopo di limitare l’applicabilità dell’art. 580 del codice penale in termini conformi a ciò che la Corte ritiene il dettato costituzionale.

10. Piuttosto, ottemperando alle indicazioni della Corte, molto incisive soprattutto nella sentenza n. 66 del 2025, occorre rendere effettiva e implementare l’assistenza e l’accompagnamento alla morte, in particolare tramite l’estensione uguale in tutto il territorio nazionale delle cure palliative del dolore e della sofferenza, affinché – come si legge nell’ultima sentenza del 2025 – il cosiddetto “diritto di morire”, rivendicato in alcune circostanze potrebbe essere paradossalmente percepito dal malato come un “dovere di morire” per non “essere di peso”, con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, “invisibili” (C. cost., sent, n. 66/2025, punto 7.2. del Considerato in diritto).

Mauro Ronco

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