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1. Il quadro storico e sociale del ventennio ’60-’80 del secolo scorso. – Nel corso del ventennio ’60 – ’80 del secolo scorso avvenne la grande corsa dei più potenti gruppi imprenditoriali italiani al denaro pubblico tramite mutui ottenuti dagli istituti di credito senza garanzia o con garanzie assolutamente insufficienti.

Moltissimi sono gli episodi che si potrebbero qui ricordare. Ma, allo scopo di evitare una aneddotica inutile di episodi deplorevoli, occorre fare una breve premessa di carattere socio-economico. L’imponente risveglio delle potenzialità imprenditoriali italiane, che consentì di parlare di un boom economico italiano negli anni ’50 del secolo scorso, fu favorito da alcune fondamentali circostanze: anzitutto, la fuoriuscita dell’Italia da una guerra perduta con un apparato industriale ancora capace di produzioni avanzate e competitive; in secondo luogo, gli ingenti finanziamenti pervenuti grazie al piano Marshall di conio statunitense per il riavvio di una politica diretta a una moderna politica industriale e dei consumi; in terzo luogo, alla straordinaria capacità lavorativa della classe operaia, che venne sostenuta da una energia demografica notevole e che dette con l’immigrazione al Nord un forte impulso alla produzione; in quarto luogo, la genialità e l’intraprendenza di un numero cospicuo di imprenditori italiani, che seppero colmare la domanda di  beni stabili della popolazione, soprattutto sul piano edilizio, e che mantennero alti livelli di competitività sui mercati stranieri.

Il forte sviluppo dell’economia italiana nella congiunzione di questi fattori cominciò a scricchiolare verso la metà degli anni ’60. Se la crescita demografica continuò a sostenere lo sviluppo, venne meno però l’apporto alla crescita degli altri fattori. Se fu ovvia la cessazione della fonte di finanziamento d’oltre Atlantico, si verificarono due fenomeni assai gravi per la continuità dello sviluppo: da un lato, la pressione dei sindacati, che svolsero in quel periodo una vera e propria funzione di cinghia di trasmissione del progetto comunista di indebolire a scopo politico la nostra nazione; da un altro lato, l’incapacità della classe imprenditoriale di trasformare i profitti conseguiti nel quindicennio anteriore in finanziamenti per lo sviluppo delle imprese.

Al posto di un sano e coraggioso piano di investimenti, provenienti dalle proprie economie private, si ingenerò una tendenza parassitaria – di cui l’esempio più chiaro è costituito dalla parabola di Fiat, il massimo gruppo industriale italiano – diretta a far pesare sul  sistema pubblico il prezzo degli investimenti produttivi. Ciò avvenne al duplice livello di finanziamenti a fondo perduto del Governo e degli Enti pubblici e al livello dell’indebitamento delle imprese con il sistema bancario, all’epoca ampiamente pubblico e, quindi, sottoposto al controllo dei partiti politici.

Il sistema entrò in una profonda crisi, economica, senz’altro. Ma la crisi fu  anzitutto e soprattutto di moralità pubblica. L’imprenditoria attinse dalle grandi banche pubbliche e dalle costellazioni delle Casse di Risparmio enormi finanziamenti, tramite l’aiuto dei partiti governativi, che si abituarono a essere finanziati nella loro esistenza con il metodo della corruzione sistemica, alla stregua del modello: l’imprenditore chiede al politico di riferimento, pagando la tangente, che egli intervenga presso la banca pubblica affinché essa conceda il finanziamento; i banchieri, dipendenti della politica per il sistema delle nomine dall’alto, concedono i finanziamenti senza valutare i titoli di merito del prestatario.  

Dal suo canto il Partito Comunista fruiva di finanziamenti enormi provenienti dall’Unione Sovietica, alla stregua di un modello di corruzione che sfiorava il delitto di alto tradimento dello Stato italiano.

2. L’opera di contrasto della magistratura inquirente. – La magistratura inquirente individuò negli anni ’70 e nei primi anni ’80 numerosi casi di frattura dell’ordine giuridico, scoprendo il legame perverso tra imprenditoria e banche pubbliche, perché queste ultime concedevano prestiti agli imprenditori senza garanzie o con garanzie fasulle o con garanzie inadeguate rispetto ai finanziamenti. La magistratura inquirente utilizzò come strumento penale di contrasto il delitto di peculato (art. 314 c.p.), contestando ai banchieri pubblici il delitto di peculato per aver distratto il proprio patrimonio a vantaggio dei privati. Agli imprenditori che avevano ottenuto ingenti prestiti senza garanzie venne contestato il concorso esterno per aver richiesto e indotto i banchieri a effettuare erogazioni illecite.

Non è questa la sede per svolgere un esame dettagliato dei numerosi casi che vennero sottoposti all’esame dell’Autorità giudiziaria. Il caso forse più clamoroso, perché coinvolgente un numero elevato di aziende di credito, riguardò l’ICCRI, l’Istituto di Credito delle Casse di Risparmio, i cui vertici vennero colpiti da misure limitative della libertà personale[1].

3. L’intervento delle lobbies bancarie. – Le lobbies bancarie intervennero pesantemente sulla politica, tramite anche campagne di stampa sui fogli para-industriali e di ispirazione liberal-borghese, affinché si mettesse fine a questa [detta indebita] ingerenza della magistratura in un settore così delicato per l’economia e per il sistema bancario dell’intero Paese. Uno degli argomenti più utilizzati fu la pretesa ingiusta discriminazione dei banchieri pubblici rispetto ai banchieri privati. Mentre questi ultimi avrebbero potuto compiere i più dissennati finanziamenti alle imprese senza correre il rischio di incappare nel delitto di peculato, i banchieri pubblici  (che all’epoca costituivano la gran maggioranza del sistema bancario di livello superiore) erano sottoposti alla spada di Damocle dell’incriminazione, dell’arresto e della condanna per il delitto di peculato.

L’argomento era specioso e falso. Sarebbe bastato considerare che la raccolta del risparmio e l’esercizio del credito costituiscono attività cui è immanente un pubblico interesse che implica la prestazione di un pubblico servizio in senso oggettivo. Onde tutti gli esercenti l’attività bancaria sarebbero rientrati nella categoria di incaricati di pubblico servizio a norma dell’art. 358, n. 2 c.p.

Questo fu anche il parere per un certo periodo di tempo della Suprema Corte, che ribadì il principio appena accennato a Sezioni Unite con la sentenza 10 ottobre 1981[2]. La tesi era peraltro in perfetta sintonia con la concezione oggettiva della pubblica funzione e del pubblico servizio, che la dottrina penalistica caldeggiava contro la tesi soggettiva di conio tradizionale. La decisione del Supremo Giudice, che toglieva di mezzo lo specioso richiamo alla violazione del principio di discriminazione, riconducendo al delitto di peculato ogni distrazione dei banchieri, pubblici o privati, a favore di prestatari privi di garanzie, fu decisamente contestato dalle potenti lobbies bancarie. Ad essa, del tutto sorprendentemente, si associò la più autorevole dottrina[3].

Lo smantellamento del sistema penale di contrasto alle spogliazioni degli istituti di credito, in una perversa spirale che intrecciava tra loro gli interessi opachi degli imprenditori, la corruzione della classe politica e il tradimento da parte dei banchieri della loro missione a tutela del risparmio e del credito alle attività produttive, iniziò pertanto ben prima delle grottesche riforme del falso in bilancio tentate dal Governo di Silvio Berlusconi all’inizio degli anni 2000.

Lo smantellamento del sistema di contrasto preparò, infatti, un ambiente propizio a quelle spogliazioni del patrimonio pubblico che si sarebbero realizzate negli anni successivi tramite le c.d. privatizzazioni, in misura quasi totale finanziate dal sistema bancario nella certezza che i prestiti fatti agli acquirenti privati non sarebbero stati restituiti.

Furono così sciolti i vincoli pubblicistici al sistema bancario imposti dall’art. 47 della Costituzione. Fu il primo decisivo passo verso l’impoverimento del sistema Paese. Alla fine la Suprema Corte accedette all’insistente pressione delle lobbies e alle autorevoli prese di posizione della dottrina, pronunciandosi in senso contrario con la sentenza, nuovamente a Sezione Unite, del 23 maggio 1987[4], sulla spinta anche, delle innovazioni apportate dal d.p.r. 27 giugno 1985, n. 350 attuativo della direttiva CEE 780/77, secondo cui il modulo privatistico nella gestione creditizia e gli strumenti negoziali di diritto privato utilizzati dagli operatori “collocano l’ordinaria attività bancaria indipendentemente dalla natura dell’ente che la esercita, nella sfera del privato”[5].

Alla luce degli eventi dei decenni successivi tale tesi non può non destare sconcerto, posto che l’attività bancaria costituisce oggettivamente, per le rilevanti implicazioni nella vita economica e sociale, nonché per le cautele pubblicistiche da cui è circondata, un tipico pubblico servizio, la cui natura è icasticamente confermata dall’incisivo disposto dell’art. 47, co.1 Cost. secondo cui: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”[6].

Il processo di privatizzazione fu completato con l’art. 1 l. 26 aprile 1990, n. 86 che cancellò la tipicità ai sensi del peculato della condotta di distrazione, neppure prevedendo un’apposita fattispecie punitiva per l’erogazione di denaro effettuata per fini estranei all’esercizio del credito.

4. Effetti dell’abolizione del peculato bancario. – Nel nuovo clima “liberale” in cui il peculato bancario era stato cancellato dall’ordinamento poterono così realizzarsi le privatizzazioni con la vendita del patrimonio pubblico ai capitalisti senza capitali, tramite il credito loro concesso con inusitata abbondanza dalle aziende di credito. Poiché i privati non avevano capitali per finanziare la ricerca e l’innovazione, il tessuto industriale languì in attesa di essere trasferito a prezzi di svendita a gruppi capitalistici esteri. Resta da esaminare il tema dei finanziamenti a credito per l’acquisto delle imprese tramite il truffaldino e illegale  meccanismo del leveraged byout, sul quale ci intratterremo in un prossimo scritto.

Mauro Ronco


[1] Cass. pen., Sez. VI, sentenza 22.06.1980, ric. Caltagirone e altri. Conferma Trib. Roma 3 marzo 1978.

[2] Così Cass. pen., Sez. Un., 10 ottobre 1981, Carfi, in Cass. pen., 1982, 32.

[3] Cfr. per tutti Bricola, La responsabilità penale degli operatori bancari tra decisione delle Sezioni Unite e progetti di riforma, in Ind. pen., 1982, 444 ss. Sul tema v. anche gli scritti di Flick, Il diritto penale giurisprudenziale: rischio di impresa e rischio penale nell’attività bancaria, in Banche e Banchieri, 1982, 227 ss.; Id., La disciplina penale del credito: presupposti e prospettive, in Banche e Banchieri, 1983, 483 ss.; Id., La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione: alcuni spunti critici in materia di qualifiche soggettive con particolare riferimento agli operatori bancari, in Banche e Banchieri, 1986, 913 ss.; Id., Il pubblico servizio e l’impresa banca: miti e realtà del diritto penale giurisprudenziale, in Banche e Banchieri, 1987, 463 ss.; Id., Il pubblico servizio e l’impresa banca: variazioni sul tema e problemi nuovi o irrisolti, in Banche e Banchieri, 1988, 1 ss.

[4] Cass. Pen., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet, in Riv. it dir. proc. pen., 1987, 695 ss. Per un commento cfr. Paliero, Le Sezioni Unite invertono la rotta: è ‘comune’ la qualifica giuridico –penale degli operatori bancari, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 702 s., nonché Bricola, Le banche e le Sezioni Unite della Cassazione, in Ind. pen., 1988, 113 s.

[5] Cass. Pen., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet, in Riv. it dir. proc. pen., 1987, 695 ss. Per un commento cfr. Paliero, Le Sezioni Unite invertono la rotta: è ‘comune’ la qualifica giuridico –penale degli operatori bancari, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 702 s., nonché Bricola, Le banche e le Sezioni Unite della Cassazione, in Ind. pen., 1988, 113 s.

[6] La tesi è particolarmente stridente con il costante riconoscimento della qualifica di incaricato di pubblico servizio ai soggetti che svolgono servizi molto meno rilevanti per la vita sociale dei banchieri e dei manager degli istituti bancari. V. la qualifica pubblicistica riconosciuta ai dipendenti di enti o società concessionarie per la gestione di servizi telefonici (C. pen., Sez. VI, 5 dicembre 2012, n. 7370, CED rv. 254686; C. pen., sez. VI, 29 ottobre 2013, n. 7083, CED rv. 258794; C. pen., sez. VI, 12 luglio 2004, n. 36357, CED rv. 230247); ai dipendenti di società operanti nei c.d. settori speciali, come quello dell’energia (C. pen., sez. VI, 10 novembre 2015, n. 28299, CED rv. 267045); agli amministratori della Rai, radiotelevisione italiana (C. pen., sez. un., 21 giugno 1989, in GP, 1990, II, 321); ai rappresentanti e i dipendenti di società la cui attività abbia ad oggetto il servizio di raccolta e smaltimento di rifiuti solidi urbani (C. pen., sez. VI, 23 gennaio 2018, n. 19484, CED rv. 273781; C. pen., sez. VI, 16 ottobre 2013, n. 45908, CED rv. 257384; C. pen., sez. VI, 16 aprile 2015, n. 17372, in QG, 2015; C. pen., sez. VI, 7 luglio 2015, n. 49286, CED rv. 265702).

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