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Intervento del prof. Mauro Ronco, presidente del Centro Studi Livatino e vice-presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, al convegno “L’eredità del beato Rosario Livatino”, tenutosi a Roma il 18 gennaio 2023.

Tra le virtù di Rosario Livatino molti hanno sottolineato il coraggio e la determinazione di cui il magistrato fu  capace nel contrastare con l’arma del diritto le prevaricazioni della criminalità mafiosa. Altri hanno plaudito all’austerità di vita e all’estraneità alle lusinghe del potere; altri alla dedizione con spirito di sacrificio al lavoro. Altri hanno lodato la sua completa impermeabilità a relazioni sociali con persone mosse da intenzioni torbide e oblique; altri hanno elogiato la riservatezza; altri la diligenza e la laboriosità; altri hanno ricordato il riguardo che aveva verso le persone coinvolte nei processi da lui istruiti o decisi, nonché verso gli accusati; altri l’attenzione verso le persone deboli e vulnerabili; altri l’umiltà che lo preservava da ogni atteggiamento superbo e arrogante; altri l’anelito a raggiungere la verità nel processo, sempre con l’aiuto di Dio e nel rispetto scrupoloso delle regole processuali; altri l’amore per la giustizia, come costante e perfetta “volontà di attribuire a ciascuno ciò che gli spetta”[1].

Questi tratti della sua esistenza, tasselli preziosi di una vita virtuosa condotta all’insegna della fede sub tutela Dei, secondo l’acronimo S.T.D., che fu trovato scritto con frequenza a margine dei suoi appunti, contribuiscono all’edificazione del nostro popolo, troppo spesso demoralizzato dalla presentazione mediatica di modelli che, invece, incitano all’indifferenza verso il prossimo o addirittura al vizio morale.

Rosario Livatino è un esempio bellissimo per i giuristi perché ha testimoniato in modo eccelso la verità del diritto, tanto sotto il profilo del suo valore pratico quanto sotto quello del suo concetto teorico.

Il periodo storico della società liberale, che si è disteso compiutamente in Occidente per circa un secolo e mezzo, dall’inizio ‘800 fino almeno agli anni ’60 del ‘900, è stata l’epoca del positivismo giuridico, in cui la legge ha rappresentato l’unica voce del diritto, come se essa si indentificasse in esso e lo esaurisse completamente. In conseguenza di ciò gli studiosi e la giurisprudenza si sono abituati a trascurare il rapporto tra il fine di giustizia dei precetti e delle norme, privilegiando esclusivamente come criterio della loro validità il rispetto da parte del legislatore della regola formale prevista per la formazione delle leggi.

Il diritto però è essenzialmente vincolato alla giustizia, che ne costituisce il fondamento di validità. L’autorità politica ha il compito di operare come causa efficiente dell’incarnarsi nella storia dei principi di giustizia che comandano a ciascuno l’equità.

Il vincolo tra diritto e giustizia è il legato più prezioso che sia pervenuto alla civiltà occidentale dal diritto romano. Come insegna Ulpiano nel libro iniziale del Digesto, il giurista deve conoscere per prima cosa che lo stesso nome del diritto deriva da giustizia[2], ove per giustizia lo stesso Ulpiano intende la “constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi[3].

Tommaso d’Aquino, raccogliendo l’eredità aristotelica, romana e della tradizione patristica[4], definisce il diritto con una formula fulgida che è rimasta insuperata sul piano scientifico. Nella quaestio 57 della Summa Theologiae (IIa IIae), rispondendo alla domanda se il diritto sia l’oggetto della giustizia, dice che il diritto è l’oggetto terminativo dell’azione giusta[5].

Il positivismo giuridico, come già si è accennato, rifiutò il rapporto essenziale del diritto con l’ordine morale, pretendendo di fare del diritto e della morale due mondi separati. Rosario Livatino ha, invece, avuto l’intuizione profonda che la verità del diritto sta nella sua necessaria relazione con la giustizia. La validità del diritto positivo è, infatti, tutta riposta nel suo conformarsi al diritto naturale, cioè alla legge eterna dell’ordine che detta all’uomo di vivere con verità. Soltanto in questo modo ciascuno diventa capace di comprendere l’estensione del suum e, dunque, di apprezzare veramente la regola del suum cuique tribuere.

Il magistrato siciliano, in un tempo di individualismo sfrenato, è stato grande perché ha saputo rivendicare il ruolo del giudice come servitore umile della giustizia, non con astratte e retoriche proclamazioni identitarie, bensì confrontandosi quotidianamente con la malvagità dell’animo umano che tracima spesso nell’odio e nel disprezzo degli altri, manifestandosi in gravi crimini.

Rosario Livatino non è stato uno scienziato del diritto che abbia approfondito scientificamente lo statuto ontologico del diritto, né la relazione tra il diritto naturale e il diritto positivo, bensì un magistrato operoso stroncato quando era giovane – fu ucciso che ancora non aveva compiuto 40 anni – nel pieno dello svolgimento di un’attività lavorativa imponente, condotta con risorse e strumenti materiali inadeguati e in un ambiente sociale segnato pesantemente dall’ostilità profonda verso la giustizia amministrata dallo Stato. Il suo impegno, quindi, fu assorbito quasi completamente dal lavoro impostogli dai suoi doveri di stato.

Eppure i testi che egli ci ha lasciato rivelano una salda concezione teorica in ordine al concetto di diritto e alla sua necessaria relazione con la giustizia, intrecciandosi strettamente con il rinnovamento che il santo Pontefice Giovanni Paolo II intendeva imprimere all’azione dei giuristi cattolici nella seconda metà del secolo scorso. E’ significativo, pertanto, che Livatino, nella relazione intitolata Fede e Diritto, svolta a Canicattì il 30 aprile 1986[6], richiamasse, a sostegno della stretta connessione del fine temporale dell’uomo con il fine trascendente e soprannaturale della felicità eterna, le parole pronunciate dal Pontefice nel Discorso ai giuristi cattolici del 4 dicembre 1982, in cui Giovanni Paolo II aveva rimarcato la necessità di compiere ogni sforzo per attualizzare l’ “[…] l’etica cristiana nella scienza giuridica, nell’attività legislativa, giudiziaria e amministrativa, in tutta la vita pubblica e professionale”[7].

Nel periodo della formazione culturale di Livatino – nel ventennio ’60-’80 del secolo scorso –, forze culturali potenti, invece di favorire il ritorno a un proficuo rapporto del diritto con la morale, attizzarono uno scetticismo cinico contro il diritto, inducendo al suo rifiuto come mezzo indispensabile per l’ordinazione giusta della società.

La risposta di Livatino alla crisi della legge fu di tutt’altro genere. Egli accentrò l’attenzione sull’uomo concreto che, vivendo in società e perseguendo con gli altri uomini il bene temporale comune, rivendica il diritto naturale a che il fine più grande, che lo definisce come creato a immagine e somiglianza di Dio, non sia ostacolato dalle leggi e dalle istituzioni ingiuste nel perseguimento del fine soprannaturale[8]. Ché, anzi, queste debbono costituire l’alveo in cui si svolge la formazione dell’uomo alle virtù individuali e civili.

Livatino riguadagnava così le fonti purissime del diritto secondo la tradizione classica, cercando la risposta ai problemi di quell’ora storica nella ragione e nella tradizione del diritto naturale.

Livatino ha riflettuto nei suoi scritti sul grave problema della decisione del caso pratico, spesso intriso di contraddizioni, al cui centro stanno le persone chiamate a rendere conto alla società del fatto illecito compiuto. Vi sono nel giudicare difficoltà evidenti, come la problematica ricostruibilità di un fatto ormai trascorso o la incerta previsione delle conseguenze della decisione sulla vita futura degli uomini giudicati e delle loro famiglie. Nel compito quasi sovrumano del giudicare – non si può non ricordare l’evangelico Nolite iudicare[9] – in cui il giudice si assume responsabilità non soltanto di ordine civile, ma, soprattutto, di ordine morale, è per Livatino indispensabile il ricorso a Dio o, nel caso dei non credenti, alla coscienza ispirata al bene comune, perché, secondo il magistrato martire “[…] il rendere giustizia…è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio”[10] . Se ciò è vero, indispensabile è per il magistrato acquisire l’abito delle virtù, perché egli deve avvertire “[…] con umiltà le proprie debolezze”[11], “[…] dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia”[12] al fine di comprendere l’uomo che ha di fronte, per giudicarlo secondo verità e giustizia, in una dimensione “costruttiva di contrizione”[13]. Perché giudicare con rettitudine non è soltanto un compito arduo, ma è soprattutto immergersi nell’ “ombra” del male che si rivela nel delitto oggetto del giudizio. Perché “il peccato è ombra e per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta”[14].

Livatino ha compreso che le parole di Cristo alla donna adultera non suggeriscono la rinuncia alla giustizia, ma pretendono la compartecipazione di tutti alla colpa di uno, manifestando che il colpevole è portatore di una dignità che la colpa non riesce a cancellare[15]. La possibilità di riscatto che scaturisce dal giudizio, se condotto con umiltà e spirito di “contrizione”, come il magistrato dice, è al centro della sua meditazione sulla giustizia, in specie penale.

Sul travaglio spirituale di Livatino in ordine al difficile compito di giudicare – ma anche sull’ineludibile dovere del magistrato di giudicare – ha richiamato l’attenzione anche papa Francesco nell’allocuzione del 29 novembre 2019, rivolta ai membri del Centro Studi Rosario Livatino, dichiarando di “ritrovarsi”[16] nella riflessione del giudice, soprattutto nel punto in cui egli diceva che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio nel rendere giustizia. In questo modo, come sottolinea Francesco, “[…] Rosario Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi”[17].

Se il diritto ha una relazione stretta con la giustizia, come virtù cardinale dell’uomo; se la giustizia è fonte essenziale del bene comune, l’impegno del cristiano non si esaurisce però, secondo Livatino, nella sua realizzazione, perché la giustizia deve essere completata dalla carità. Il programma di vita lasciato come testamento da Livatino è delineato limpidamente da questo concetto: il fine di ciascuno e del giudice in particolare è praticare la giustizia come via per il fine più grande dell’amore verso Dio e verso tutta l’umanità, in specie verso quella che naviga nelle acque torbide del delitto, capace però anch’essa di risollevarsi a una vita nuovamente piena e felice sol che si sottragga al veleno dell’egoismo.

Il giudizio penale e la pena non sono inutili al colpevole in quanto sono in grado di rivelargli il significato del delitto. Il giusto processo e la giusta pena possiedono una potenziale efficacia riabilitativa sull’imputato e sul condannato perché consentono loro di comprendere attraverso l’esperienza concreta ciò che essi non hanno voluto accogliere spontaneamente come appello rivolto alla coscienza. Processo e pena hanno dunque una potenziale efficacia riabilitativa sull’imputato e sul condannato, anche se spetta alla loro libertà grazie anche alla modalità di gestire l’esecuzione della pena, portare ad attualità la riabilitazione intrinsecamente inerente alla soggezione processuale e punitiva. Il giudice, come rappresentate della società, mentre giudica ed eventualmente punisce, deve serbare fiducia, per non contraddire le ragioni etiche della punizione, nell’idoneità rieducativa del processo e della pena.

Mauro Ronco


[1] Digesto, L. I, 1, De iustitia et iure, 10.

[2] Digesto, I, 1, De iustitia et iure, 1.

[3] Digesto, I, 1, De iustitia et iure, 10.

[4] R. Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso D’Aquino, Roma, 1978.

[5] F.A. Lamas, Dialectica y concreción del derecho, Institut de Estudios Filosóficos “Santo Tomàs de Aquino”, Buenos Aires, 2020, 124-126. Il contesto prossimo del testo è il Trattato sulla giustizia (qq 57-79 della II –IIae), in cui Tommaso definisce la virtù cardinale della giustizia, iniziandone lo studio, come nella tradizione aristotelica, dal suo oggetto, che è costituito dal giusto. Le fonti citate nell’articolo sono Celso nel Digesto, San Isidoro di Siviglia nelle Etimologie, Sant’Agostino nel De moribus Eclesiae e Aristotele nell’Etica nicomachea. Gli enunciati sul concetto di diritto presenti nell’articolo di Tommaso sono stati magistralmente esposti dal prof. Félix Lamas in Dialectica y concrecion del derecho.

[6] R. Livatino, Fede e diritto, in I. Abate, Il piccolo giudice. Fede e giustizia in Rosario Livatino, Roma, 2005, 116.

[7] Discorso di Giovanni Paolo II ai membri dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, 4 dicembre 1982.

[8] Livatino, Fede e diritto, cit., 116.

[9] Mt 7, 1-2; Lc 6, 37.

[10] Livatino, op. cit., 137.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] Sul significato della pena nell’ambito di questa prospettiva mi permetto rinviare a M. Ronco, Il problema della pena. Alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione sulla pena, Torino, 1996, 185-205.

[16] Discorso del Santo Padre Francesco ai membri del Centro Studi “Rosario Livatino”, cit.

[17] Ibidem.

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