Note a margine a:
sentenza della Corte di Cassazione, Sez. VI penale, n. 1268 del 13 gennaio 2025
sentenza della Corte di Cassazione, Sez. VI penale, n. 6937 del 17 febbraio 2023
sentenza della Corte di Cassazione, Sez. VI penale, n. 17656 del 3 maggio 2024
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza n. 1268 del 13 gennaio 2025, nel rigettare il ricorso di un uomo condannato, in primo e secondo grado, per il delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. ai danni della moglie, aggravato dalla presenza dei figli minorenni, ha posto un particolare accento, tra le varie condotte violente e maltrattanti, protrattesi nell’arco di quasi venti anni, sulla condotta dell’imputato volta ad ostacolare l’autonomia e l’indipendenza economica della moglie.
La sentenza, proprio al fine di individuare i comportamenti che, in un contesto discriminatorio, mirano a provocare una “perdita economica” della vittima a causa del suo genere, ha innanzitutto rilevato come tali atti di violenza, all’interno delle relazioni familiari o affettive, siano contemplati, a livello convenzionale e nel sistema normativo euro-unitario, in un quadro di definizioni che, come affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 10959 del 29/01/2016 “… non compaiono nei tradizionali testi normativi di produzione interna, ma che tuttavia, per il tramite del diritto internazionale, sono entrate a far parte dell’ordinamento e influiscono sulla applicazione del diritto anche attraverso l’obbligo di interpretazione conforme…”.
Sotto tale profilo, assumono un preminente rilievo l’art. 3, lettera a) della Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), ratificata dall’Italia con la Legge n. 77 del 27 giugno 2013 e i Considerando 17 e 18 della Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e a cui è stata data attuazione nel nostro ordinamento con il D.lgs. n. 212 del 15 dicembre 2015.
Alla luce delle fonti citate e del consolidato indirizzo giurisprudenziale, nonché della Direttiva 2024/1385/UE del 14 maggio 2024 “Sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica” (che dovrà essere recepita entro il 14 giugno 2027), la Suprema Corte ha enunciato dunque, nella sentenza in esame, i principi fondamentali in ordine alla violenza economica, riconoscendo tale forma di violenza quale peculiare modalità di integrazione del delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi disciplinato dall’art. 572 c.p..
Nella decisione richiamata è stato così statuito come, impedire alla persona offesa di essere economicamente indipendente, configuri “una circostanza tale da integrare una forma di violenza economica, riconducibile alla fattispecie incriminatrice in esame, quando i correlati comportamenti vessatori siano suscettibili di provocarne un vero e proprio stato di prostrazione psico-fisica e le scelte economiche ed organizzative assunte in seno alla famiglia, in quanto non pienamente condivise da entrambi i coniugi, ma unilateralmente imposte, costituiscano il risultato di comprovati atti di violenza o di prevaricazione psicologica”.
Nell’evidenziare i comportamenti obiettivamente diretti alla limitazione dell’autonomia economica della persona offesa – tra cui, ad esempio, l’osteggiare la moglie nella ricerca di un’occupazione, imporle un ruolo casalingo, sulla base di una ripartizione discriminatoria degli stessi ruoli, sottrarsi alla gestione domestica e familiare, delegandone interamente le incombenze alla coniuge, così da non consentirle altra soluzione che quella di abbandonare le proprie ambizioni professionali ed essere da lui “mantenuta”, non remunerare l’attività lavorativa svolta dalla stessa moglie nell’interesse dell’azienda familiare – gli Ermellini hanno messo in luce l’imposizione di un sistema di potere asimmetrico all’interno del nucleo familiare, di cui la componente economico-patrimoniale rappresenta un profilo di rilevante rilievo, essendo oggetto di una decisione unilateralmente assunta dall’imputato.
Nello stesso solco, si pone la precedente sentenza della Corte di Cassazione, Sez. VI penale, n. 6937 del 17 febbraio 2023, secondo cui, può rientrare nella nozione di “maltrattamenti” anche l’imposizione di una condotta di vita familiare fortemente influenzata al “risparmio domestico”, accompagnata da modalità ossessive di controllo spasmodico del coniuge, tali da sconfinare in un vero e proprio regime e da causare alla persona offesa uno stato di ansia e frustrazione, nonostante
la mancanza di necessità impellenti e avendo, entrambi i coniugi, un lavoro e uno stipendio.
Secondo la predetta pronuncia, nel caso specifico, attraverso comportamenti impositivi e costrittivi, l’imputato ha inteso “sottomettere la persona offesa”, esercitando un controllo afflittivo sulla moglie (medico), dalla scelta dei negozi in cui fare la spesa (che potevano essere solo quelli notoriamente a costo contenuto), alle caratteristiche dei prodotti (che non potevano essere di marca e dovevano essere prodotti in offerta), sia per la casa che per l’abbigliamento, fino alla vita domestica e alle scelte più intime e personali di cura per la persona (la moglie ha riferito che era costretta ad utilizzare solo due strappi di carta igienica, a recuperare, per il successivo reimpiego, in una bacinella, l’acqua utilizzata per lavarsi il viso o per fare la doccia – che poteva fare solo una volta a settimana – ad usare soltanto una posata e un piatto per pasto; a dover mangiare gli avanzi di pappa della bambina).
Il tutto accompagnato da espressioni ingiuriose e offensive.
Correttamente i comportamenti dell’imputato, sia sotto l’aspetto oggettivo che soggettivo, sono stati sussunti nel delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p., integrando, le condotte seriali e abituali, un comportamento impositivo del proprio volere, realizzato sia con atti o parole, che hanno offeso il decoro e la dignità della persona (le ingiurie rivolte alla persona offesa, ma anche i commenti tesi a sminuirla come donna, come madre e come medico), sia attraverso “un sistema di vere e proprie proibizioni capaci di produrre sensazioni dolorose, ancorchè tali da non lasciare traccia e che si sono risolte in un sistema di sofferenze lesivo del patrimonio morale del soggetto passivo e che hanno reso abitualmente dolorose le relazioni familiari determinando uno stato di avvilimento e frustrazione”.
In tale ottica, la sentenza n. 6937/2023 ha, inoltre, il merito di aver chiaramente evidenziato come, con il matrimonio, i coniugi possano sì stabilire uno stile di vita, magari improntato al risparmio, anche rigoroso e non necessitato, “ma resta indiscutibile che tale stile di vita debba essere condiviso e non possa essere imposto, men che mai in quelle che sono le minimali e quotidiane esigenze di vita in casa e accudimento personale”.
Il rapporto matrimoniale impegna ciascuno dei coniugi ad un progetto di vita, nel rispetto reciproco.
Non è un caso che l’art. 143 c.c., richiamato dalla Suprema Corte, prima di affermare che, con il matrimonio, i coniugi, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, si impegnano a contribuire ai bisogni della famiglia, sancisca che, con il matrimonio, il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri.
In questa prospettiva, nel delitto di maltrattamenti in famiglia, non rientrano, dunque, soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità e, nel caso de quo, la costrizione ad un eccessivo risparmio domestico, imposto e non frutto di una libera scelta dello stile di vita concordato tra coniugi.
Per l’orientamento giurisprudenziale di merito e di legittimità, dunque, il vero tema da porre in rilievo, nel configurare ed individuare le condotte maltrattanti in tema di violenza economica, oltre l’obiettiva gravità dei comportamenti, non è lo stile di vita scelto, propriamente inteso, vale a dire l’eccessivo “risparmio domestico” ovvero lo svolgere o meno un’attività lavorativa o l’assunzione esclusivamente del ruolo casalingo da parte della donna, ma è l’accertamento, all’interno del nucleo familiare, del contesto di condivisione o, al contrario, di imposizione, in cui tali scelte di vita vengono decise ed attuate.
Di conseguenza, se dal quadro fattuale emerge, tra le condotte, l’imposizione di un sistema di potere sbilanciato, di sopraffazione, di violenza e di forme di controllo, psicologico ed economico, non trattandosi di comportamenti condivisi e concordati, bensì imposti e subiti, si manifesta, in tutta la sua gravità, come componente sostanziale del delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi ex art. 572 del c.p., la particolare forma di violenza economica.
Ai fini dell’individuazione di tale delitto, è necessaria, quindi, la valorizzazione di tutte le componenti in cui può tendenzialmente esprimersi la violenza (incluse quella psicologica ed economica), valutando il contesto di disparità e di dominio, in cui tali condotte vessatorie, nel loro complesso, si inseriscono e in cui non è possibile ravvisare mere “liti familiari”.
A tal proposito, fondamentale, è tracciare una linea distintiva tra le condotte che integrano il delitto di maltrattamenti in famiglia, disciplinato dall’art. 572 c.p. e le condotte che possono essere individuate, invece, come liti familiari.
Dirimente, sul punto, la sentenza n. 17656 del 3 maggio 2024, in cui la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, ha ribadito che ciò che qualifica la condotta come maltrattante, nel necessario quadro di insieme, è che “i reiterati comportamenti, anche solo minacciati a diversi livelli (fisico o psicologico o economico), nell’ambito di una relazione familiare o affettiva, siano deliberatamente volti a ledere la dignità della persona offesa, ad annientarne pensieri ed azioni indipendenti, a limitarne la sfera di libertà ed autodeterminazione, a ferirne l’identità di genere con violenze psicologiche ed umiliazioni, in quanto è il disegno discriminatorio a guidare l’autore del reato di violenza domestica, tale dovendosi intendere, secondo il preambolo della richiamata Convenzione di Istanbul, il deliberato intento di dominazione e controllo della libertà femminile per impedirla...”.
Nei maltrattamenti posti in essere in ambito domestico, il Giudice, dunque, non solo è tenuto a valutare gli episodi che ritiene soggettivamente più gravi, perché colpiscono l’integrità fisica o costituiscono specifici reati, ma deve mettere in luce e descrivere, in modo puntuale, il contesto diseguale di coppia, in cui si consuma la violenza, anche psicologica, praticata dall’autore ed il clima di umiliazione e paura imposto alla vittima.
La confusione tra i maltrattamenti e le ordinarie liti familiari avviene, infatti, secondo la giurisprudenza più recente, quando non si esamina e non si valuta l’asimmetria, di potere e di genere, che connota la relazione e di cui la violenza costituisce la modalità più evidente.
Per gli Ermellini, come affermato nelle sentenza n. 17656/2024, “la linea distintiva tra violenza domestica e liti familiari è netta”, e, pertanto, “si consuma il delitto quando un soggetto impedisce ad un altro, in modo reiterato, persino di esprimere un proprio autonomo punto di vista, se non con la sanzione della violenza – fisica o psicologica – della coartazione dell’offesa, e quando la sensazione di paura per l’incolumità riguarda sempre e solo uno dei due, soprattutto, attraverso forme ricattatorie o manipolatorie rispetto ai diritti sui figli della coppia. Mentre ricorrono le liti familiari, quando le parti sono in posizione paritaria e si confrontano, anche con veemenza, riconoscendo ed accettando, reciprocamente, il diritto di ciascuno di esprimere il proprio punto di vista (Sez. VI, n. 37978 del 03/07/2023 cit.; Sez. VI, n. 19847 del 22/04/2022 M., non mass.), e, soprattutto, nessuno teme l’altro.”.
Non solo.
Secondo una interpretazione costituzionalmente orientata – prosegue, la sentenza suddetta – qualificare l’intimidazione, la minaccia, le lesioni, i danneggiamenti, la coercizione di un uomo ai danni di una donna e di una bambina, in un contesto di coppia o familiare, come un comune “conflitto”, non solo deforma dati oggettivi, ma “vìola i principi fondamentali dell’ordinamento, a partire dall’art. 3 della Costituzione, che impone di ritenere le donne in una condizione paritaria, giuridica e di fatto, rispetto agli uomini, in quanto titolari del diritto alla dignità e alla libertà, cioè diritti umani fondamentali e inalienabili, che non possono subire lesioni, neanche occasionali, in base a costrutti sociali o interpretativi fondati sull’accettazione e la normalizzazione della disparità di genere”.
Alla luce del considerevole e puntuale
percorso giurisprudenziale illustrato, la violenza economica –– connotata da condotte maltrattanti obiettivamente finalizzate alla limitazione della libertà, dell’autonomia ed indipendenza economica della donna – integra, purtroppo, una forma di violenza subdola, insidiosa, sottile, che non lascia tracce, segni visibili o fisici.
Questa particolare forma di abuso – che, al pari della violenza domestica, non costituisce, quindi, un delitto autonomo, pur essendo inquadrabile nel sistema di diritto sia penale che civile – non è di facile “emersione”, celandosi, ancora oggi, dietro comportamenti diffusi, socialmente e culturalmente, ritenuti leciti e, dunque, tollerati.
L’esercizio, da parte dell’uomo, di un vero e proprio sistema di controllo sulla gestione del denaro, e, conseguentemente, per la donna, l’esclusione da qualsiasi decisione di spesa o gestione del budget familiare, la privazione del diritto a gestire ed utilizzare autonomamente le proprie risorse finanziarie ed economiche, la costrizione o la rinuncia alle proprie legittime aspirazioni lavorative e professionali, anche per il carico di lavoro domestico, gravante su di lei in via esclusiva, l’imposizione a contrarre obbligazioni o ad apporre “firme” su documenti, con intestazione di mutui, ipoteche, fideiussioni o, addirittura, di società, così da indurre la stessa donna, senza averne la consapevolezza, a concorrere all’insorgenza di esposizioni debitorie, con enormi conseguenze sull’intero nucleo familiare, oltre che sulla propria affidabilità creditizia, rappresentano, anche a causa di costrutti sociali e culturali tenacemente radicati, comportamenti non ricondotti a casi di violenza economica e che, pertanto, non suscitano una riprovazione nemmeno sociale.
Le ipotesi, come in precedenza rilevato, possono essere le più varie (indipendentemente dalla capacità reddituale e/o dalla fascia di reddito del nucleo familiare) e proprio la difficoltà nell’individuare comportamenti “tipici”, ossia comportamenti che possano essere identificati come reati, rende senza dubbio questa forma di abuso non facilmente riconoscibile.
Ciò comporta, come inevitabile conseguenza, la non perseguibilità delle condotte di violenza economica, che – non essendo percepite come condotte integranti veri e propri delitti contro le donne, nel contesto sociale, culturale ed economico – restano così violenze non “viste”, sommerse, giustificate ed accettate dalle stesse donne, le quali non sono sollecitate alla denuncia, in quanto quelle violenze “non esistono”.
E tutto ciò porta ad una “normalizzazione” delle condotte medesime.
Eppure, la violenza economica esiste e le sue conseguenze sono devastanti per molteplici motivi, soprattutto, perché spesso rappresenta il primo sintomo o campanello di allarme di una escalation di comportamenti, che possono raggiungere forme di maltrattamenti o di violenza fisica gravi, se non addirittura gravissime, come il femminicidio.
Il non avere accesso a risorse economiche, in estrema sintesi, non consente alle vittime di allontanarsi e le espone a maggiori abusi.
Non bastano le norme, le previsioni di legge, per contrastare, in tutte le sue modalità, la violenza maschile contro le donne.
Notevoli al riguardo, le disposizioni vigenti e varate dall’Italia, per attuare, in particolare, ma non solo, i principi e le indicazioni contemplati nella Convenzione di Istanbul.
I casi di cronaca, nonostante ciò, ci ricordano costantemente che la violenza contro le donne continua ad essere perpetrata.
È necessario, dunque, un cambio di paradigma culturale e sociale, in qualsiasi ambito e a tutti i livelli, per far sì che le forme di abuso vengano, per prima cosa, identificate come casi di violenza ed arrivino in aula, per chiedere ed ottenere giustizia.
E per attuare un mutamento virtuoso e, soprattutto, concreto, oltre le leggi, occorre far crescere la consapevolezza sul fenomeno, “agire in profondità, lavorare per il riconoscimento della violenza sul terreno dell’educazione e della formazione: solo così è possibile davvero prevenirla e combatterla”.
Questi gli importanti e meritevoli obiettivi dichiarati nel “Libro bianco per la formazione sulla violenza maschile contro le donne”, curato dal Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne presso il Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, presentato il 25 novembre 2024 e che costituirà la base per l’elaborazione delle “linee guida nazionali”, previste dall’art. 6 della Legge n. 168 del 24 novembre 2023 (Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica).
Il testo ha il pregio di evidenziare le misure da intraprendere per la prevenzione e la lotta contro le varie forme che la violenza può assumere (domestica, fisica, assistita, sessuale, psicologica, economica, cyberviolenza, tratta e sfruttamento sessuale), con un capitolo specifico sul femminicidio, identificando la fase del riconoscimento e della conoscenza – di un fenomeno così grave e complesso nelle sue modalità – come fondamentale e propedeutica a quella della formazione di tutti gli operatori e le operatrici, che entrano in contatto con le donne vittime di violenza e i loro figli, sulla base del principio secondo cui “per prevenire e combattere la violenza occorre, in primis, saperla individuare. Senza non si riesce a farla emergere, ad agire tempestivamente per garantire protezione alle donne che denunciano e perseguire i responsabili”, in applicazione delle norme e delle leggi.
L’auspicio è che, in tale azione giuridica e normativa, culturale e sociale di sensibilizzazione, prevenzione, formazione e contrasto di ogni forma di violenza, assuma sempre più spazio e rilievo la violenza economica, i cui “contorni” non sono ben definiti, ma che, ostacolando realmente l’emancipazione della donna, la sua autonomia ed indipendenza, incide direttamente sulla sfera della libertà e autodeterminazione della persona, ledendo la dignità e l’identità della stessa donna, impedendo, al contempo, l’affermazione del principio dell’uguaglianza e della parità di genere, presupposto necessario e imprescindibile, per una tutela piena ed efficace contro ogni violenza e discriminazione.
Avv. Achiropita Curti