Un ulteriore passo nella scissione fra natura e diritto
Primi commenti e testo della sentenza della 1^ sez.civ. della Cassazione n. 13.000/19
Sarà la Corte di Appello di Ancona a decidere se la piccola X (omettiamo il nome in ossequio alla privacy) potrà portare il cognome del padre morto quasi un anno e mezzo prima della sua nascita. La bambina è nata in Italia ma è stata concepita in Spagna, dove è consentito usare, nella fecondazione assistita, i gameti di una persona morta, purché abbia dato il suo consenso a farlo, quando era in vita. La legge italiana permette di registrare un nato con il cognome del padre defunto solo se la tempistica tra nascita del bambino e morte del genitore è compatibile con un concepimento con il padre ancora vivo. Il padre di X, consapevole della morte imminente, aveva dato il consenso ad usare i suoi gameti perché sua moglie, una volta vedova, potesse avere un figlio, e così è stato. Ma al momento dell’iscrizione all’anagrafe la legge italiana ha impedito di registrare la neonata con il cognome di suo padre, morto troppo tempo prima.
Ne è nato un contenzioso arrivato fino in Cassazione, la quale ha accettato sostanzialmente il ricorso della madre della piccola, chiedendo alla Corte di Appello di Ancona di riesaminare la faccenda. Il testo della Cassazione è l’ennesima conferma della trasformazione radicale, già avvenuta, del concetto millenario di genitori e figli. Il ragionamento della corte, infatti – che va di contrario avviso alle puntali conclusioni del Procuratore Generale, pubblicate qualche giorno fa su questo sito -, si svolge cercando di trovare un nesso fra il quadro normativo generale vigente, incentrato sulla antropologia naturale, e la situazione di fatto, che ha visto la fecondazione assistita mutare profondamente proprio quel paradigma antropologico. Quel che conta è ‘l’assoluta centralità del consenso’ di chi genitore vuole diventare: secondo la corte, ‘i nuovi fenomeni prima sconosciuti o minoritari’ che la tecnica crea richiedono ‘soluzioni capaci di emanciparsi da quei modelli tradizionali che rischiano, ormai, di rivelarsi inadeguati’. Date queste premesse, si arriva al paradosso per cui il massimo interesse del minore è quello di essere concepito, e poi nascere, già orfano. Le tecniche di fecondazione in vitro, nate per superare sterilità e infertilità, in un’ottica medica, si sono trasformate in una modalità alternativa di filiazione, una possibilità di scelta che dipende solo dalla volontà di chi genitore desidera di diventare, purché la volontà sia certificata da regolare contratto. Il tentativo di utilizzare i criteri normativi attuali, basati su una filiazione naturale (che comprende ovviamente anche l’adozione) è inevitabilmente destinato a fallire: il diritto non dispone neppure del lessico per trattare le nuove relazioni che si vengono a creare. Non abbiamo termini adeguati per indicare il concepimento fra una persona viva è una già morta. Il “Mondo Nuovo” è qui.
Prof.ssa Assuntina Morresi
La controversia, avente a oggetto il profilo dell’attribuzione automatica della paternità “post mortem” e la conseguente possibilità di redigere l’atto di nascita con il cognome del padre defunto mediante l’utilizzazione del procedimento di rettifica degli atti di stato civile, si connota per l’assoluta novità nell’ambito della giurisdizione di legittimità e per le importanti conseguenze destinate a produrre sull’intero sistema del diritto civile.
La tecnica di riproduzione assistita “post mortem” è vietata In Italia dalla legge 40/2004 e optare per l’attribuzione automatica di status senza avvalersi di un procedimento a cognizione piena non è una scelta indolore, né priva di conseguenze sull’intero sistema giuridico.
Il sistema codicistico vigente prevede che, se la nascita avviene entro i trecento giorni dalla morte del marito, trova applicazione l’art. 232, co. 1 del codice civile, che si avvale della c.d. presunzione di concepimento ovvero «si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando sono trascorsi centottanta giorni dalla celebrazione del matrimonio e non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio».
In questi casi (nascite avvenute nei trecento giorni dalla cessazione del vincolo matrimoniale) non vi sarebbero impedimenti giuridici e l’ufficiale dello stato civile, sulla base delle dichiarazioni ricevute, può redigere l’atto di nascita senza alcuna difficoltà.
Nel caso in esame, invece, la nascita è avvenuta dopo due anni dalla morte del padre con la conseguente impossibilità di applicare la presunzione di concepimento stabilita dalla norma.
Gli interrogativi giuridici correlati alla delicata questione sottoposta all’esame della Corte avrebbero suggerito, secondo le regole protocollari della stessa Corte di Cassazione e come richiesto dalla Procura Generale, la rimessione della questione all’esame delle Sezioni Unite anche solo per ragionare sul valore da attribuire al consenso scritto (rilasciato ancora in vita dal marito e dal padre) per il futuro utilizzo del seme criocongelato e sulla idoneità e validità di tale consenso (per quanti anni?) ad essere recepito automaticamente nell’atto di nascita al fine di configurare lo stato di figlio (nato nel matrimonio) e di attribuire, al contempo, i correlati diritti successori.
Il valore giuridico dell’elemento consensuale meritava una significativa riflessione corale (delle Sezioni Unite per l’appunto) per ragionare se il consenso dovesse essere correlato alla sola pratica di fecondazione (una sorta di consenso informato di tipo medico), ovvero se il consenso, anche in presenza di tecniche vietate dalla legge italiana, potesse essere esteso ai profili riguardanti l’attribuzione dello stato e la conseguente ed automatica attribuzione di diritti successori.
Gli interrogativi sono destinati a divenire più stringenti laddove si consideri che la “fecondazione post mortem” è una pratica illecita in Italia e, anche a volere scindere la illiceità della pratica sanitaria dagli effetti consensuali relativi alla successiva attribuzione dello “status” di figlio, operazione che la Cassazione sembra avere recepito, non si può ignorare – a livello sistematico – che le norme codicistiche vigenti non risultano abrogate e che tuttora concorrono a regolare la materia ( ad es. artt. 234 , comma 1, c.c. e 269 c.c. in tema di accertamento giudiziale di paternità e di maternità).
La richiesta di riconoscimento postumo di paternità imponeva alla Cassazione di effettuare – da qui la richiesta di rimessione alle Sezioni Unite – una adeguata ricostruzione sistematica del problema giuridico di fondo che non giungesse a snaturare la funzione del procedimento di rettifica degli atti formati dall’ufficiale di stato civile, il quale, così riconfigurato, diverrebbe un procedimento aperto, incidenter tantum, alle questioni relative all’accertamento dello stato (nella specie riconoscimento postumo della paternità).
Gli interrogativi nascenti dalla utilizzazione delle moderne tecniche di riproduzione umana, persino al di fuori dagli schemi consentiti dalla legge italiana, richiedono inevitabilmente una sistematizzazione accurata per evitare, sul piano giuridico, che il procedimento per la rettifica degli atti dello stato civile divenga comoda strada per la disapplicazione cospicua delle norme civilistiche vigenti.
Nemmeno sembra potersi sostenere, come la Cassazione ha fatto, che l’art. 8 della legge 40 costituisca la via normativa per attribuire lo stato di figlio nato nel matrimonio sempre e comunque in presenza di qualsiasi tecnica. La legge 40/2004 (per l’appunto all’art. 8) prevede che “i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio e riconosciuti dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime”. Da qui nascono una serie di interrogativi, tutti formulati nella requisitoria della Procura Generale, che non sembrano avere trovato adeguata risposta:
“La portata (espansiva ed alternativa) di tale norma è tale da poterla applicare anche alle tecniche espressamente vietate dalla stessa legge nella quale è inserita?
Ancora, a voler interpretare la norma in maniera estensiva, così da codificarne una sorta di “status filiationis” alternativo a quello imposto dal codice civile, quali sarebbero i limiti applicativi (temporali) della norma stessa? E quale l’impatto con la regolamentazione del diritto successorio?”
Risulta evidente che l’art. 8, nell’attribuire lo “status” di figli nati nel matrimonio, in quanto norma eccezionale e derogatoria, regola le tecniche di fecondazione assistita ritenute lecite dalla legislazione vigente in Italia e pare arduo poterne estendere la valenza, oltre misura, alle tecniche previste come non lecite dalla stessa legge.
Una interpretazione estensiva della norma (oltre le tecniche lecite) starebbe a significare che il legislatore se per un verso proibisce la tecnica riproduttiva, al contempo, la incoraggia, riconoscendo a coloro che vadano all’estero per procreare “post mortem” la strada del riconoscimento di paternità svincolandola dall’accertamento giudiziale a cognizione piena.
L’interpretazione estensiva, dunque, sembra addirittura porsi al di fuori del testo di legge vigente e, nella sostanza, consente di accertare la paternità “post mortem” in posizione di significativa alternatività con le norme civilistiche regolanti la materia del riconoscimento e dell’accertamento dello stato di figlio.
Una simile interpretazione, senza nemmeno transitare per il vaglio di riflessione delle sezioni unite, si traduce in una impropria sistematizzazione della norma (art. 8) al di fuori dello stesso contesto legale di riferimento per estenderla alle ipotesi espressamente vietate: una sorta di norma che va oltre le tecniche considerate lecite dalla legge italiana sino a voler recepire (sia pure indirettamente riconoscendone gli effetti in modo automatico) le tecniche “post mortem” in uso presso altri stati.
L’operazione ermeneutica effettuata dalla Cassazione, in sintesi, ha dilatato l’operatività dell’art. 8 della legge 40/2004 rendendo la norma applicabile anche alle tecniche di fecondazione illecite, conferendole uno statuto privilegiato e prevalente su tutte le altre norme codicistiche quali l’art. 232 c.c. e l’art. 269 c.c.
In conclusione, l’interpretazione estensiva dell’art. 8 legge 40/2004, quale norma attributiva di uno “status” in relazione a pratiche vietate, introduce gravi elementi di perplessità, resi ancor più gravi quando si rifletta sulla indefinita dilatazione temporale della possibilità di concepire facendo uso della tecnica “post mortem”.
Ancora una volta, si assiste ad una interpretazione che supera la legge, che va oltre le intenzioni del legislatore, svuotando di contenuto le norme civilistiche ancora vigenti.
La dilatazione dei tempi correlati alla possibilità di concepire, oltre la morte di uno dei coniugi, consentirebbe (ora per allora), in applicazione dell’art. 8 della legge 40/2004, di utilizzare impropriamente il procedimento di rettifica per una non consentita attribuzione (o anche una semplice ricognizione) automatica dello stato di filiazione, i cui esiti potrebbero verificarsi anche a distanza di molti anni, con un forte disallineamento del sistema giuridico rispetto alle norme del codice civile.
Si pensi al sistema successorio ed alla insolita possibilità che, facendo uso dell’art. 8 della legge 40, il procedimento per la rettifica degli atti dello stato civile divenga importante crocevia di accertamenti relativi allo “status filiationis” del tutto incompatibili con la natura del procedimento, nel quale la posizione di eventuali contraddittori (ad es. gli eredi) non è contemplata.
Da qui la evidente difficoltà di concepire, anche solo a livello teorico, un sistema preventivo automatico ed attributivo di uno “status filiationis” sganciato da ogni previsione operativa lecita della legge 40/2004 e da ogni limite temporale.
La conclusione è che in questa controversia, nonostante due decisioni di merito conformi, nel senso della impossibilità di utilizzare il procedimento della rettifica degli atti di stato civile per fare luce sulle questioni relative allo stato delle persone, e nonostante una significativa e preliminare richiesta di remissione della questione alle sezioni unite da parte della Procura Generale, si è preferito, ancora una volta, scegliere la strada di una nomofilachia autogestita che rifugge dal prezioso confronto e dalla ponderata riflessione che caratterizza l’operato delle sezioni unite.
Il tema avrebbe meritato ulteriori elementi di ragionamento per evitare che il sistema civilistico continui ad essere eroso, pezzo dopo pezzo, sin dalle sue fondamenta, da interpretazioni giuridiche che sono estranee al contesto normativo di riferimento e che si riferiscono a fattispecie vietate dalla legge italiana.