Prima parte di tre di uno studio sulla dottrina sociale di Aldo Rocco Vitale. Le prossime saranno pubblicate nei due venerdì a seguire.
«Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona»:[1] così San Paolo ha esposto la funzione delle Sacre Scritture.
Dal suddetto passaggio della seconda lettera a Timoteo si possono ricavare almeno tre dati essenziali.
In primo luogo: la rivelazione non è fine a se stessa, ma tramite la Scrittura persegue il quadruplice fine di insegnare, convincere, correggere e formare l’essere umano, cioè, sostanzialmente, evitare che l’uomo sia abbandonato a se stesso, al proprio capriccio, al proprio affanno, ai propri errori.
In secondo luogo: il fine ultimo e reale di tutte le predette operazioni è quello di instradare l’uomo alla virtù della giustizia, facendone il fulcro dell’intera esperienza esistenziale, intellettuale e morale dell’umanità.
In terzo luogo: soltanto dopo aver imparato a percorrere la via della giustizia – avendo cioè eliso la violenza, la sopraffazione, la menzogna – l’uomo può dirsi compiutamente cristiano ed essere considerato completo e preparato per le opere buone, ovvero per il bene in se stesso considerato.
Su questo binario teologico-morale si muove l’insegnamento bimillenario della Chiesa, soprattutto quello che si è andato cristallizzando in quell’amplissimo corpus dottrinale che si è sedimentato nel corso dei secoli e che poi è stato formalmente denominato come Dottrina Sociale della Chiesa (da ora DSC) trovando il suo riconoscimento ufficiale nell’enciclica di Leone XIII “Rerum novarum” del 1891.
L’elezione di Papa Prevost che ha assunto il nome di Leone XIV, esplicitando il suo intento diretto a volersi riconnettere con il magistero di Leone XIII, indica l’intenzione di riportare al centro della vita dottrinale e pastorale della Chiesa cattolica i temi della DSC, soprattutto come occasione di problematizzazione e offerta di soluzione delle controversie e dei paradossi che contraddistinguono l’attuale civiltà occidentale in genere ed europea in particolare.
La DSC, infatti, costituisce una alternativa credibile, in quanto antropologicamente fondata, cioè universale, che consente di superare tutte le distinzioni e le frammentazioni politiche, economiche, sociali, morali che connotano l’Occidente odierno.
Dinnanzi al crollo dei grandi sistemi ideologici registratosi tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, dinnanzi alla crescente crisi dello Stato ad opera delle convergenti energie della globalizzazione e delle tendenze totalitarie suggerite dall’irruzione sempre più pervasiva delle nuove tecnologie atte a sorvegliare costantemente la vita privata del cittadino, dinnanzi alla crisi antropologica che sempre più gravemente affligge l’homo occidentalis, dinnanzi alla diffusione del pensiero e delle pratiche transumaniste che tendono ad erodere la struttura normativa della natura, e, infine, dinnanzi al dilagare dei contesti di violenza individuale e privata nonché degli scenari di guerra aperta tra popoli e Stati, la DSC non può che rappresentare una feconda opportunità di proposte per il giurista contemporaneo che intende districarsi nell’insieme o anche in uno soltanto dei suddetti numerosi e gravi problemi.
Preliminarmente ad ogni considerazione, occorre ricordare, seppur sinteticamente, che la DSC non è un sistema ideologico, non è una sintesi tra opzione socialista e opzione liberale, non è una dottrina politica, non è una costruzione artificiosa della realtà, in quanto essa si offre come momento anteriore e superiore rispetto a tutte le dicotomie ipotizzate o ipotizzabili e, soprattutto, in quanto essa è parte di quella profonda e antica disciplina sistematica che è la teologia morale.[2]
Tenuto conto della sua peculiare natura, bisogna altresì considerare come la DSC si edifichi sostanzialmente su due distinte, ma complementari basi, cioè la rivelazione da un lato e la tradizione teologica, morale e giuridica della Chiesa dall’altro lato,[3] evitando così ogni tentazione soggettivistica per un verso e ogni riduzionismo storicistico per altro verso.
Chiarito tutto ciò, occorre riconoscere che la DSC può offrire delle proposte per il giurista contemporaneo in quanto garantisce una prospettiva unitaria e integrata sull’uomo, sul diritto e sulla realtà socio-politica nel suo insieme, indicando soluzioni umane che in virtù della loro universale e specifica razionalità non possono non essere condivise anche dai giuristi di formazione o credo non necessariamente cattolico, poiché non soltanto la fede, ma anche la ragione sono gli strumenti d’elezione di cui la DSC si serve.[4]
Nell’ottica della DSC la realtà possiede una sua propria oggettività costitutiva, morale e giuridica, così che si possono e si devono perseguire il bene umano oggettivamente inteso e la giustizia nella sua più effettiva concretezza.
Prima di tutto, si può affermare, la DSC, in quanto non è una ideologia né una teoria astratta, rivela e traduce una visione dell’umano che si fonda sulla natura dell’uomo, così da evitare ab initio qualsiasi fraintendimento, cioè sia ogni riduzionismo materialistico, sia ogni misticismo spiritualistico.[5]
Alla luce degli insegnamenti della DSC, infatti, la natura umana può essere circoscritta e identificata secondo tre precise specificazioni: la creaturalità;[6] la razionalità;[7] la relazionalità.[8]
L’essere creatura, razionale e relazionale consente all’uomo da un lato di comprendere e riconoscere i propri limiti, cioè di non essere il sovrano di se stesso e del mondo, e dall’altro lato, di esperire ed esercitare la propria libertà, imparando a vivere nella consapevolezza di sé come protagonista della storia, cioè né come padrone della storia che può fare e disfare la realtà secondo il proprio capriccio, né come suo schiavo il quale non può che subirla come foglia secca in un vento avverso.
Tutto ciò significa che l’uomo non può né arrendersi né sottomettersi all’automatismo della tecnologia, o al determinismo del mondo fisico, o all’irrazionalismo del nichilismo etico e giuridico e di tutte quelle istanze e tendenze culturali che esigono il sacrificio della sua natura razionale e relazionale.
La DSC sollecita a superare, secondo la rappresentazione della cooperazione della fede e della ragione, la crisi antropologica che il mondo occidentale contemporaneo sta attraversando, crisi che, inevitabilmente, si riflette sul modo di concepire la convivenza socio-politica, l’economia, lo Stato e lo stesso diritto in quanto tale considerato.
Il giurista odierno non può dunque limitarsi a recepire, attraverso la formalizzazione della legalizzazione, le volubili e contrastanti istanze sociali che si vengono a determinare nel corso del tempo, specialmente se queste vengono ad essere in sostanziale contrasto con la verità rivelata, con il magistero teologico-morale e la tradizione della Chiesa, e soprattutto con la dignità umana.
Se oggi la crisi del diritto è soltanto la continuazione della crisi dell’umano con altri mezzi, la DSC suggerisce il recupero di quella universalità perduta nel dissolversi della sapienza giuridica all’interno del calderone fumoso dei particolarismi giuridici e dei positivismi legalistici.
Mentre, infatti, per S. Agostino e S. Tommaso d’Aquino l’uomo è capax Dei,[9] alla luce della DSC ’uomo non può che essere capax iuris,[10] e, conseguentemente, il giurista, superando così ogni riduzionismo utilitaristico o convenzionalistico, non può che essere capax iustitiae.[11]
In conclusione, allora, la DSC esorta il giurista contemporaneo a non ridursi a mero tecnico della norma o a semplice regolatore formale della coesistenza di tutti i consociati, ma a riconoscere il suo più arduo e alto compito, cioè ribadire che l’ordine della convivenza può essere garantito compiutamente soltanto se e nella misura in cui si osserva l’ordine della carità il quale presuppone la giustizia come garanzia autentica della libertà all’interno dell’orizzonte dell’umana dignità quale verità costitutiva, universale, indisponibile e inderogabile.[12]
Aldo Rocco Vitale
[1] 2Tm., 3, 16-17.
[2] «La dottrina sociale della Chiesa appartiene non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale»: Compendio DSC, n. 72.
[3] «La dottrina sociale trova il suo fondamento essenziale nella Rivelazione biblica e nella Tradizione della Chiesa»: Compendio DSC, n. 74.
[4] «La fede e la ragione costituiscono le due vie conoscitive della dottrina sociale, essendo due le fonti alle quali essa attinge: la Rivelazione e la natura umana»: Compendio DSC, n. 75.
[5] «Né lo spiritualismo, che disprezza la realtà del corpo, né il materialismo, che considera lo spirito mera manifestazione della materia, rendono ragione della complessità, della totalità e dell’unità dell’essere umano»: Compendio DSC, n. 129.
[6] «Il messaggio fondamentale della Sacra Scrittura annuncia che la persona umana è creatura di Dio (cfr. Sal 139,14-18) e individua l’elemento che la caratterizza e contraddistingue nel suo essere ad immagine di Dio[…]. Dio pone la creatura umana al centro e al vertice del creato»: Compendio DSC, n. 108.
[7] «Le facoltà spirituali proprie dell’uomo, sue prerogative in quanto creato ad immagine del suo Creatore: la ragione, il discernimento del bene e del male, la volontà libera»: Compendio Dsc, n. 114.
[8] «La persona è costitutivamente un essere sociale, perché così l’ha voluta Dio che l’ha creata. La natura dell’uomo si manifesta, infatti, come natura di un essere che risponde ai propri bisogni sulla base di una soggettività relazionale, ossia alla maniera di un essere libero e responsabile, il quale riconosce la necessità di integrarsi e di collaborare con i propri simili ed è capace di comunione con loro nell’ordine della conoscenza e dell’amore»: Compendio DSC, n. 149.
[9] S. Agostino, De Trinitate, XIV, 8; S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 113, ad. 10.
[10] «La legge naturale lega gli uomini tra loro, imponendo dei principi comuni»: Compendio DSC, n. 141.
[11] «La giustizia risulta particolarmente importante nel contesto attuale, in cui il valore della persona, della sua dignità e dei suoi diritti, al di là delle proclamazioni d’intenti, è seriamente minacciato dalla diffusa tendenza a ricorrere esclusivamente ai criteri dell’utilità e dell’avere. Anche la giustizia, sulla base di tali criteri, viene considerata in modo riduttivo, mentre acquista un più pieno e autentico significato nell’antropologia cristiana. La giustizia, infatti, non è una semplice convenzione umana, perché quello che è “giusto” non è originariamente determinato dalla legge, ma dall’identità profonda dell’essere umano»: Compendio DSC, n. 202.
[12] «I valori della verità, della giustizia, della libertà nascono e si sviluppano dalla sorgente interiore della carità: la convivenza umana è ordinata, feconda di bene e rispondente alla dignità dell’uomo, quando si fonda sulla verità; si attua secondo giustizia, ossia nell’effettivo rispetto dei diritti e nel leale adempimento dei rispettivi doveri; è attuata nella libertà che si addice alla dignità degli uomini, spinti dalla loro stessa natura razionale ad assumersi la responsabilità del proprio operare; è vivificata dall’amore, che fa sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui e rende sempre più intense la comunione dei valori spirituali e la sollecitudine per le necessità materiali. Questi valori costituiscono dei pilastri dai quali riceve solidità e consistenza l’edificio del vivere e dell’operare: sono valori che determinano la qualità di ogni azione e istituzione sociale»: Compendio DSC, n. 205.