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(articolo pubblicato il 2 giugno 2020 sul Quotidiano di Puglia)

Fare il giudice è un mestiere complicato e difficile. Nessun magistrato, pur se con decenni di lavoro alle spalle e diversità di funzioni svolte, può ritenersi onestamente e fino in fondo capace. Ha bisogno di conoscere, e bene, norme sempre più intricate e orientamenti giurisprudenziali che oggi arrivano fino alle Corti europee; di padroneggiare i minimi risvolti del caso concreto che ha di fronte; di essere consapevole che non gli viene chiesto un giudizio su una persona, ma su un fatto specifico che quella persona ha commesso; di affrontare ogni vicenda processuale senza mai utilizzare una soluzione preconfenzionata. Gli servono preparazione, competenza, esperienza, umiltà, senso della realtà; non da ultimo, voglia di lavorare.

Esiste un concorso in grado di valutare queste capacità? Non solo non esiste, ma è illusorio ritenere che esse siano verificabili tutte insieme già all’avvio del lavoro di giudice: più d’una si forma in corso d’opera. Questo però non impedisce di ritenere insoddisfacente l’attuale modalità di accesso alla funzione e di successiva progressione: che è un mix fra una buona preparazione teorica – quella che serve a superare il concorso –, un solido aggancio correntizio – quello che serve per fare carriera -, e l’altrettanto solida convinzione, autorevolmente teorizzata, che spetta alla giurisdizione definire e imporre coi suoi provvedimenti il nuovo quadro dei valori costituzionalmente e convenzionalmente orientati.

Non c’era bisogno dell’intervista resa domenica da Palamara a Giletti – un’ampia ammissione di responsabilità, con altrettanto articolata chiamata in correità – per constatare che, per riprendere una minima parte di quanto esposto dall’ex presidente dell’Anm, un posto direttivo in magistratura segue con frequenza logiche di assegnazione simili a quelle di un direttore generale della Rai, che a parità di merito chi non è incardinato in una corrente è penalizzato rispetto a chi ne fa parte, che le spartizioni più serrate sono quelle per i posti di Procuratore della Repubblica, a causa del potere che ciascuno di essi esercita allorché dispone della polizia giudiziaria.  

Questo mix oggi mostra i suoi limiti. Per amministrare giustizia in modo dignitoso la conoscenza dei codici e della giurisprudenza è solo una componente, ma non basta; qualcuno spieghi perché il pilota di un aereo o il dirigente di polizia, dalle cui decisioni dipende la vita delle persone devono possedere, in più, attitudini ed equilibrio, e il magistrato i cui provvedimenti pure incidono sulle altrui esistenze è sufficiente che sia preparato. Gli svariati milioni di euro che lo Stato italiano eroga ogni anno per indennizzare le ingiuste detenzioni attestano quanto, al netto di errori scusabili e di contingenze imprevedibili, la privazione della libertà continui con troppa frequenza a essere governata da una ponderazione inadeguata. Per dirigere un ufficio giudiziario il cursus honorum correntizio non è il di più che serve: qualche passo in avanti è stato fatto rispetto al passato, ma – al netto del collegamento con questo o quel gruppo organizzato, e immaginando un criterio di merito – l’aver scritto le migliori sentenze non è requisito utile per organizzare uomini e mezzi. Infine, per rendere giustizia come la Costituzione impone, allorché assoggetta il giudice “solo alla legge”, la legge va applicata, ma non creata: il giudice non è l’intermediario fra il caso concreto sottopostogli e un sentimento di giustizia che attinge da altri ordinamenti o da norme della Convenzione EDU, declinati secondo le proprie lenti ideologiche.

Sarei lieto se un ministro della Giustizia si confrontasse con questi nodi: perché è dalla loro soluzione che dipende una giustizia migliore. Poi, certo, vi sono le separazioni delle carriere: quella fra p.m. e giudice, e quella fra p.m. e giornalisti. Vi è l’ineludibile riforma del giudizio disciplinare, di cui si parla senza costrutto da un quarto di secolo, pur essa terreno di contrattazione – chiedo scusa: di mediazione – fra le correnti. Vi sono le riforme dei codici, in particolare di quella del processo penale, per liberare le cancellerie da quanto è perdita di tempo, magari facendosi aiutare da quell’informatica che con sprezzo del ridicolo taluno intendeva di recente introdurre per trattare “da remoto” giudizi penali e camere di consiglio.

Sarei lieto perché, in un corpo giudiziario che, in virtù del rapido abbassamento dell’età pensionabile deciso da un governo precedente, ha visto moltiplicare le ambizioni di avanzamento in carriera, di pari passo a un’autoreferenzialità ideologica sbandierata come segno di democrazia pur quando sovrasta il Parlamento, questa deviazione “politica” alimenta i percorsi interni perfino dei giovani magistrati.

A un anno dall’esplosione del c.d. caso Palamara, durante il quale nulla è cambiato, mentre si è assistito all’accanimento terapeutico per tenere in vita l’attuale Consiglio, è francamente scoraggiante leggere che la riforma del ministro Bonafede passa per un CSM che incrementi il numero dei propri componenti, dagli attuali 24 a 30, fermi restando i 3 membri di diritto, e modifichi la legge elettorale in senso maggioritario.

Che la politica proponga e attui qualcosa di serio.

Alfredo Mantovano

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