La seconda parte di un’analisi profonda fatta dal professor Mauro Ronco. Dalla legge eterna alle inclinazioni umane, la giustizia è universale.
5. L’attualizzazione della legge naturale nel ‘siglo de oro’ ispanico. Due fattori di immensa rilevanza storica, di ordine molto diverso tra loro, furono nel secolo XVI la rivolta protestante e la scoperta delle Indie occidentali americane, che fecero insorgere i problemi del rispetto dei diritti delle popolazioni autoctone[1]. Questi eventi provocarono l’ovvio spostamento dell’attenzione dei saperi giuridici dalle questioni medioevali tradizionali (statuto giuridico dell’Impero e della Chiesa; natura della legge ecclesiastica; statuto del clero, dei religiosi e dei laici nella compagine ecclesiastica) alle questioni drammatiche dell’uguaglianza dei diritti dell’uomo in ogni luogo e tempo, nonché dell’alternativa tra il libero e il servo arbitrio.
Attingendo alla dimensione peculiare della natura umana razionale e libera, i classici ispanici affermarono, attualizzando la dottrina scolastica di San Tommaso, che la libertà umana non è cancellata dall’onnipotenza divina, bensì, per quanto ferita dal peccato originale, dai peccati storici e dai peccati individuali, che essa è capace di opere di bene e di giustizia. Proclamarono altresì che tutti i popoli, per quanto ignorino la rivelazione di Cristo, hanno il diritto di vivere in libertà secondo i loro costumi, in quanto capaci di conoscere la legge naturale, e, quindi, di perseguire il bene comune e di rispettare i diritti fondamentali di ciascuno.
Francisco de Vitoria seppe attualizzare in modo splendido l’asserto di San Tommaso: “Ius autem divinum, quod est ex gratia, non tollit ius humanum, quod est ex naturali ratione”[2], affermando l’idea centrale dell’esistenza di un diritto naturale applicabile a tutti gli uomini e, quindi, agli Indios, idea che fu all’origine della scoperta del diritto internazionale.
La stessa considerazione dell’uomo libero e razionale, che giustificava l’ordine giuridico delle società indigene delle Americhe, fondato sulla legge naturale insegnata in special modo da San Tommaso, servì come replica alla svalorizzazione dell’uomo compiuta dal protestantesimo con la “bárbara agonía tiránica de la sua antropologia”[3].
Sull’autonomia dell’ordine naturale, subordinato, ma non annichilito dalla rivelazione divina, i giuristi ispanici crearono il diritto naturale sovrastante al diritto positivo, valido per tutti i popoli in modo da regolare pacificamente le relazioni tra gli stessi.
Elias de Tejada conclude così il capitolo che descrive la grandezza dei classici ispanici:
“Arrancando de la dimensión peculiar de la naturaleza humana racional y libre, con matices diferentes los clásicos hispanos construyeron las réplicas a las dos cuestiones que acuciaban a los juristas del siglo XVI: el nacimiento de un orden universal de pueblos, secuela de la desaparición del orden medieval centrado en la superioridad del Imperio, así como la entrada en escena de gentes con instituciones cuya razón de ser estaba ceňida a las exigencias de la pura razón del hombre; y la salvación del derecho natural, radicado en la naturaleza humana libre, contra los asaltos de aquella barbarie luterana aniquiladora teológicamente del yo, que concluía por abandonarlo al desamparo del arbitrio de aquellos jueces y de aquellos gobernantes para Calvino irresistibles ejecutores de la voluntad divina en la relaciones sociales y jurídicas”[4].
6. Nascita e sviluppo del giusnaturalismo laico. A partire soprattutto dalla metà del ‘600, in corrispondenza con i Trattati di Westfalia del 1648, che segnano convenzionalmente la fine della Cristianità europea, prevalse in Occidente l’interpretazione del diritto naturale che va sotto il nome di giusnaturalismo.
Alle sue origini furono pensatori quali Hugo van de Groot (1583-1645), Thomas Hobbes (1588-1679), Samuel von Pufendorf (1632-1694), Christian Thomasius (1655-1728) e Christian Wolff (1679-1754), i quali abbandonarono progressivamente la filosofia classica e cristiana della legge e del Diritto naturale, conservandone soltanto echi frammentari e contenuti materiali isolati.
L’inizio di questo movimento può ricondursi a Grozio. Egli, ancora legato all’insegnamento della seconda scolastica spagnola e, in particolare, a Francisco Suarez, avviò il distacco dalla concezione classica. Sinceramente preoccupato di mantenere una certa unità dei cristiani e di combattere gli eccessi tragici del calvinismo[5], egli elaborò un’antropologia differente da quella cattolica in ordine al ruolo dell’uomo nell’universo.
Mentre per l’antropologia del diritto naturale classico la persona umana è radicata nella dimensione del destino trascendente e la sua proprietà di ente sociale costituisce il mezzo per realizzare interamente il suo destino, Grozio valorizzò in modo unilaterale la dimensione temporale degli uomini, focalizzando nell’uomo la proprietà della mera socialità e dimenticando il fine soprannaturale della salvezza eterna. Il diritto naturale classico contempla la persona all’interno dell’ordine totale della creazione; Grozio soltanto nei limiti della vita in società con gli altri uomini[6].
Nel grande Trattato del 1625 De jure belli ac pacis[7], il cui impianto è ancora tradizionale, Grozio scrive: “Inter haec autem, quae homini sunt propria, est appetitus societatis, id est a communitatis, non qualiscunque, sed tranquillae”[8]. Come ha scritto icasticamente Elías de Tejada, il diritto scaturisce per Grozio “del cumplimiento del apetito de sociabilídad, no del equilibrio armónico del juego teológico del Creador legislador con la criatura libre”[9].
Il famoso passo dei Prolegomeni del De jure belli ac pacis, “et haec quidem quae jam diximus, locum aliquem haberent, etiamsi daremus, quod fine summo scelere dari nequit non esse Deum, aut non curari ab eo negotia humana”[10], in cui Grozio assevera la validità del suo Trattato anche se Dio non esistesse e non si occupasse delle cose umane, può essere considerato l’inizio della frattura che si sarebbe consumata tra il Diritto naturale classico e il giusnaturalismo[11].
La frattura radicale avvenne due decenni più tardi con il pessimismo antropologico irredimibile di Thomas Hobbes, influenzato dall’antiumanesimo protestante. Nelle pagine di apertura del De Cive egli indirizza la polemica contro uno dei caposaldi della filosofia politica classica: l’uomo non sarebbe un animale sociale “per natura”, ma il suo associarsi con gli altri sarebbe dettato esclusivamente dall’utilità:
“Eorum qui de rebus publicis aliquid conscripserunt, maxima pars vel supponunt, vel petunt, vel postulant, Hominem esse animal aptum natum ad societatem, Graeci dicunt zvon politikón, eoque fundamento ita superaedificant doctrinam civilem, tanquam si ad conservationem pacis, & totius generis humani regimen, nihil aliud opus esset, quam ut homines in pacta & conditiones quasdam, quas ipsi jam tum leges appellant, consentirent. Quod axioma, quamquam à plurimis receptum, falsum tamen; errorque à nimis levi naturae humanae contemplatione profectus est. Causas enim, quibus homines congregantur, & societate mutuâ gaudent, penitius inspectantibus facile constabit, non ideo id fieri, quod aliter fieri naturâ non possit, sed ex accidente”[12].
Il pensiero di Hobbes avrebbe impregnato di pessimismo l’intera storia del giusnaturalismo, aprendo la strada anche al materialismo utilitarista dei ‘Lumi’ francesi.
Nella linea di Hobbes si inserirono Samuel von Pufendorf, giusnaturalista tedesco, che parlò del diritto naturale senza tener conto della Provvidenza, fu fortemente anticattolico e costruì il sistema in una prospettiva astorica astratta[13] e Christian Thomasius, filosofo e giurista tedesco, che separò nettamente il diritto dall’etica[14]. Concluse questo ciclo Christian Wolff, il quale trasformò il volontarismo luterano in razionalismo antropologico, spostando l’asse della speculazione dalla volontà divina alla ragione umana in una prospettiva antropocentrica basata sulla razionabilità e anticipando, in qualche misura, la filosofia morale e giuridica di Immanuel Kant (1724-1804)[15].
7. L’apertura di un nuovo ciclo con Immanuel Kant. Con la critica della ragione pratica, il filosofo di Königsberg tolse definitivamente alla legge morale il fondamento in Dio e, forse al di là delle sue stesse intenzioni, mise un punto terminale alla dottrina giusnaturalistica della legge naturale e del Diritto naturale.
Alcune precisazioni sono indispensabili. Kant si distingue da Wolff poiché nega che l’etica possa essere dedotta more geometrico dalla ragione, che egli, invece, deriva dagli stessi concetti «a priori» elaborati per la ragione teorica. Wolff aveva già posto la premessa per distaccare la morale dalla teologia, affermando che la ragione è il primo e rigoroso principio etico[16].
La frattura avvenne però in Kant con lo stabilimento aprioristico della morale nella ragione dell’uomo.
Le aporie di tale fondazione assoluta sono molteplici. Non è chiaro anzitutto come la volontà pura possa fondare una legge morale universale, senza assumere alcunché dall’esperienza o dai sentimenti; né è chiaro come una legge che nasce dalla soggettività possa concepirsi nella forma oggettiva di una legge generale[17]. Inoltre, è apodittico il motivo dell’adesione della volontà alla legge morale, descritto da Kant in un “sentimento che nasce per effetto della coscienza della legge morale”[18]. In terzo luogo, l’uomo libero che sarebbe capace di un tale rigore morale, mosso dalla sola forza della sua coscienza, è l’uomo noumenico, non quello empirico o fenomenico che è soggetto alla causalità dei meccanismi della natura; l’uomo, quindi, che non esiste nella concretezza della storia. Infine, Dio appare, nel sistema di Kant, nonostante l’identificazione della morale con la ragione, sotto tre aspetti indimostrabili: quale semplice ipotesi, “Erklärungsgrund”, o base di spiegazione, ma nulla più: il postulato della libertà, da cui deriva la possibilità di essere responsabili; il postulato di un essere supremo che unisca la felicità alla virtù e l’immortalità dell’anima, senza la quale non vi sarebbe la possibilità di vita etica[19].
Il sapere filosofico del diritto dipende in Kant dalla filosofia morale, in quanto si tratta di un “saber racional enlazado con el saber apriorístico que el deber y la ley moral son”[20].
Tuttavia, quando si tratta di considerare il diritto come si presenta nella vita storica, cioè la normatività giuridica e non la morale dell’azione, guardando la sfera esterna dell’agire umano e non quella interna della morale, Kant è costretto a separare l’etica dal Diritto, sia per quanto riguarda la persona, sia per quanto attiene ai fini che muovono all’azione[21].
La famosa formula di Kant della legge giuridica, puramente formale, ma riferita agli atti esterni, in quanto riguardanti il diritto, suona così:
“Das Recht ist also der Inbegriff der Bedingungen, unter denen die Willkür des einen mit der Willkür des andern nach einem allgemeinen Gesetze der Freiheit zusammen vereinigt werden kann”[22].
La definizione è intrinsecamente contraddittoria. Infatti la libertà è declinata in due modi: la libertà della legge universale formale, che egli definisce «Freiheit», e la libertà empirica degli interessi individuali, che egli denomina «Willkür». Nel diritto la «Freiheit» si riempie necessariamente di interessi, a pena di rimanere sterile e inutile. La libertà del diritto è perciò il «Willkür», e non la libertà formale, che riceve i suoi limiti dall’esterno e non dalla legge morale interna[23].
In ciò sta il fallimento del concetto giuridico e scientifico del diritto: abbandonato per la sua vuotezza il formalismo della libertà filosoficamente considerata, il diritto si riempie ovviamente dei contenuti tratti dalle volontà empiriche, protetti dalle norme dei vari ordinamenti giuridici[24].
Morale e Diritto vengono così a fruire di uno statuto separato e in opposizione tra loro: da un lato sta il mondo morale dell’uomo noumenico e dall’altro il mondo giuridico dell’uomo empiricus.
La prova di questa separazione è offerta dalla Revision der Grundsätze und Grunbegriffe des positiven peinlichen Rechts, di Anselm Feuerbach (1775-1833), filosofo, giurista e criminalista, discepolo di Kant[25].
Per questo prominente riformatore del diritto penale, la libertà riguarda esclusivamente l’homo noumenicus. L’homo empiricus, appartenente al mondo del diritto, è privo di libertà, in quanto sottoposto alle strette leggi della causalità naturale. Di tal ché:
“l’imputazione, nel diritto penale precedente a Kant, non consisteva in altro che nella constatazione dell’appartenenza integrale del fatto alla persona umana, non soltanto come causa fisica dell’evento, ma soprattutto come sua causa morale. Ciò implicava che la libertà della persona fosse un elemento costitutivo essenziale dell’imputazione. Il fatto appartiene al soggetto se e nella misura in cui il suo autore sia causa libera di esso. Non è sufficiente che la condotta esteriore sia causa materiale dell’evento, ma è altresì necessario che la condotta sia riconducibile al soggetto autore come sua causa libera. Soltanto quando al giudice sia possibile constatare l’integrale appartenenza del fatto al soggetto è possibile passare al giudizio di sussunzione del fatto nella legge. In altri termini: l’imputazione giuridica postulava il precedente accertamento dell’imputazione morale […] La libertà che “regge” la teoria imputativa di Feuerbach è un fenomeno soltanto psichico: essa consiste nell’agire in violazione della legge nonostante l’intimidazione psicologica esercitata dalla pena. È una volontà privata della proprietà essenziale della libertà. Il volere dell’uomo non si connota più di alcuna moralità o di direzione al Bene. Infatti, l’unica libertà che Feuerbach riconosce all’uomo “giuridico” (che è il mero uomo empirico, secondo la prospettazione ereditata da Kant) è di preservare se stesso dalla pena, agendo conformemente al diritto”[26].
Si compì in questo modo il passaggio dal giusnaturalismo al primato del diritto positivo. Iniziò con la ragion pratica kantiana l’epoca del primato del diritto dello Stato. Per circa un secolo, salva l’eccezione italiana dei giuristi seguaci di Giambattista Vico, non si parlerà più della legge naturale e del Diritto naturale. La ripresa, come detto in premessa, fu merito dell’Aeterni Patris di Papa Leone XIII.
SCHOLION[27]
Nella stagione del giusnaturalismo laico l’eccelso filosofo, giurista e storico napoletano, Giambattista Vico a restare quasi unico sul campo a promuovere le ragioni della legge naturale e del Diritto naturale classico e a contrastare filosoficamente e filologicamente il giusnaturalismo laico, sia nelle opere giuridiche che nell’immensa costruzione della Scienza Nuova.
Al termine dell’autobiografia[28], Giambattista Vico, scrivendo in terza persona, dichiara lo scopo perseguito con l’opera Princìpi di una scienza nuova[29] “[…] con la qual opera il Vico, con gloria della cattolica religione, produce il vantaggio alla nostra Italia di non invidiare all’Olanda, l’Inghilterra e la Germania protestante i loro tre prìncipi di questa scienza, e che in questa nostra età nel grembo della vera Chiesa si scuoprissero i princìpi di tutta l’umana e divina erudizione gentilesca”[30].
L’intento di Vico è ristabilire la verità cattolica – e, prima ancora, la verità filosofica – in ordine al diritto. L’intento fu perseguito per tutta la vita con l’immensa produzione scientifica, in particolare con il De universi iuris uno principio et fine uno[31]e con le tre stesure della Scienza Nuova[32], continuamente arricchite e migliorate affinché la riscoperta del vero diritto divenisse chiara agli spiriti che brancolavano incerti nel dubbioso inizio del XVIII secolo. Per fugare ogni equivoco: non che la verità in ordine al diritto sia di fede; è una verità di ordine naturale a cui perviene la ragione ben formata e scevra dalle passioni. Ma è una verità che la rivoluzione protestante aveva impugnato e che i cattolici avrebbero dovuto riproporre nell’ambito della Chiesa per il bene della società e dello Stato.
Il filosofo e giureconsulto napoletano riscopre il fondamento del diritto naturale delle nazioni nel desiderio naturale
“[…] che hanno naturalmente tutti gli uomini di vivere eternamente; il qual comun desiderio della natura umana esce da un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente, che gli animi umani sono immortali”[33].
Il diritto naturale delle nazioni
“[…] è certamente nato coi comuni costumi delle medesime; né alcuno giammai al mondo fu nazion d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione”[34].
Anche la vana scienza delle nazioni gentili, fondata sul culto di divinità false, nasconde – secondo Vico –
“[…] due gran princìpi di vero, uno che vi sia provvedenza divina che governi le cose umane, l’altro, che negli uomini sia libertà d’arbitrio, per lo quale se vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che senza provvederlo, altramenti loro appartenerebbe. Dalla qual seconda verità viene di seguíto che gli uomini abbiano elezione di vivere con giustizia; il quale comun senso è comprovato da questo comun desiderio che naturalmente hanno gli uomini delle leggi, ove essi non sien tòcchi da passione di alcun propio interesse di non volerlo”[35].
L’umanità, pertanto, sempre e in ogni luogo, ha retto le sue consuetudini di vita
“[…] sopra questi tre sensi comuni del genere umano: primo che vi sia provvedenza; secondo, che si facciano certi figliuoli con certe donne, con le quali siano almeno i princìpi d’una religion civile comuni, perché da’ padri e dalle madri con uno spirito, i figliuoli si educhino in conformità delle leggi e delle religioni tra le quali sono essi nati; terzo, che si seppelliscano i morti”[36].
L’esperienza storica dimostra, infatti, che mai vi fu al mondo nazione di atei; che mai vi fu al mondo nazione in cui la sessualità non si
“[…] celebrasse altri che concubiti vaghi, come fanno le bestie”[37]; che mai vi fu al mondo nazione in cui fosse invalsa la pratica di lasciare insepolti i cadaveri dei propri congiunti[38].
Nella Scienza Nuova del 1744 Vico riprende il tema rilevando che nella
“[…] densa notte di tenebre ond’è coverta la prima da noi lontanissima Antichità”[39] è apparso questo lume della verità che, essendo il nostro mondo di nazioni fatto dagli uomini, i princìpi del diritto naturale si debbono ritrovare “[…] dentro le modificazioni della nostra medesima Mente Umana”[40].
E le cose su cui tutte le nazioni in ogni luogo hanno perpetuamente convenuto e su cui tutti gli uomini convengono,
“[…] quantunque per immensi spazj di luoghi, e tempi tra loro lontane divisamente fondate”[41], concernono la custodia “[…] di questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione; tutte contraggono matrimonj solenni; tutte seppelliscono i loro morti: nè tra nazioni quantunque selvagge, e crude si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie, e più consagrate solennità che religioni, matrimonj e seppolture”[42].
Poiché le idee uniformi, sorte tra popoli sconosciuti tra loro, debbono avere un principio comune di Vero (Degnità XIII)[43], consegue che dalla religione, dai matrimoni e dal culto degli antenati ebbe inizio l’incivilimento dell’umanità; e perciò si debbono
“[…] santissimamente custodire da tutte; perché ‘l Mondo non si infierisca, e si rinselvi di nuovo”[44].
* * *
Il programma di Vico è stato oscurato o, peggio ancora, equivocato e travisato[45].
L’autorità del Papa Leone XIII ha provocato per grazia di Dio un risveglio culturale della filosofia della legge naturale e del Diritto naturale. Purtroppo, alla pubblicazione di ottime esposizioni dottrinali non è quasi mai seguita la necessaria ortoprassi da parte dei “Governanti”. Il richiamo di Leone XIV rivolto ai Parlamentari e agli uomini politici il 21 giugno 2025 potrebbe essere, se Dio vorrà, un nuovo punto di partenza per una politica conforme al piano di Dio e rispettosa della sua Legge.
Mauro Ronco
[1] Sull’importanza della scoperta del nuovo mondo nel rinnovamento dell’assetto del sapere giuridico nelle Spagne cfr. G. Ambrosetti, Il diritto naturale della Riforma cattolica, Milano, 1951, 22-23.
[2] San Tommaso, La Somma teologica, cit.,II-II, q 10 a 10 ad 1.
[3] F.E. de Tejada, Tratado de Filosofía del Derecho, Tomo, II, cit., 481.
[4] Ibidem, 485.
[5] H. Grozio, Conciliatio dissidentium de re praedestinaria et gratia opinionum, in Opera theologica, III, 353-550. Va ricordato che Grozio, per aver sostenuto l’arminianesimo (da Jacobo Arminio – 1560-1609 – sostenitore di una versione moderata della predestinazione), fu condannato all’ergastolo dal Sinodo di Dordrecht, convocato dalla Chiesa riformata olandese nel 1618 sotto la guida del calvinista intransigente Francisco Gomar (1563-1641). Per scampare alla condanna, fuggì a Parigi. Lì rimase poi per diversi anni, ricoprendo la carica di ambasciatore di Svezia.
[6] Cfr. G. Ambrosetti, I presupposti teologici e speculativi delle concezioni giuridiche di Grozio, Bologna, 1955, 110; F. Elías de Tejada, Tratado de Filosofía del Derecho, cit., 494.
[7] H. Grozio, De jure belli ac pacis Libri tres in quibus Jus Naturae & Gentium,item Juris Publici praecipua explicantur. Parisiis, qui citato nell’edizione di Amsterdam(Apud Janssonio-Waesbergios) del 1712.
[8] Ibidem, Prolegomena, 6.
[9] F.E. de Tejada, Tratado de Filosofía del Derecho, cit., 494.
[10] Ibidem, Prolegomena, §11.
[11] In ordine all’asserto di Grozio cfr. la severa critica di Giambattista Vico: “[…] Imperciocché Grozio, per lo stesso troppo interesse che egli ha della verità, con errore da non punto perdonarglisi né in questa sorta di materie né in metafisica, professa che ‘l suosistema regga e stia fermo anche posta in disparte ogni cognizione di Dio: quando senza alcunareligione di una divinità gli uomini non mai convennero in nazione; e, siccome delle cose fisiche,o sia de’ moti de’ corpi, non si può avere certa scienza senza la guida delle verità astratte dalla matematica, così delle cose morali non si può averla senza la scorta delle verità astratte dallametafisica, e quindi senza la dimostrazione di Dio”, G. Vico, (1725), Principi di scienza nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritruovano i principi del Diritto Naturale delle genti., 1ª ed. in (2012/2013). La scienza nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, M. Sanna, V. Vitiello (a cura di), Milano,37-327.
[12] T. Hobbes, Elementa philosophica De Cive (laprima edizione uscì a Parigi in forma privata nel 1642; la seconda edizione ad Amsterdam nel 1647), tr. it. Elementi filosofici sul cittadino, in Opere politiche di Thomas Hobbes, in Norberto Bobbio (a cura di), vol. I, Elementi filosofici sul cittadino. Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’ Inghilterra, Torino, 1988, 82, 83, 84 dell’edizione italiana.
[13] S. von Pufendorf, De iure naturae et gentium (libri octo), 1° ed., 1627.Cfr. a proposito di Pufendorf la critica severa di Vico: “Finalmente il Pufendorfio, quantunque egli intenda servire alla provvedenza e vi si adoperi, dà un’ipotesi affatto epicurea ovvero obbesiana (che in ciò è una cosa stessa) dell’uomo gittato in questo mondo senza cura ed aiuto divino. Laonde non meno i «semplicioni» di Grozio che i «destituti» di Pufendorfio devono convenire coi «licenziosi violenti» di Tommaso Obbes, sopra egli addottrina il suo «cittadino» a sconoscere la giustizia e seguire l’utilità […] Quindi, perché niuno degli tre, [il terzo è John Selden] nello stabilire i suoi princìpi, guardo la provvedenza […]”, G. Vico, (1725), Principi di scienza nuova, I, cit., 49-50.
[14] C. Thomasius, Fundamenta iuris naturae et gentium , 1° ed., Halae, 1705.
[15] C. Wolff, Institutiones juris naturæ et gentium, Halle an der Saale, 1754 § 43, 22-23.
[16] Ciò avvenne nel famoso discorso pronunciato all’Università di Halle il 12 luglio 1721 circa la morale di Confucio (cfr. F. E. de Tejada y Spinola, Tratado, cit. I, 519).
[17] F.E. de Tejada y Spinola, Tratado, cit. I, 525.
[18] I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, I, III, 133,in Critica della ragion pratica, tr.it. di F. Capra, Roma-Bari, 1997, 164: “moralische Gefühl”, che nasce “als Wirkung aber vom Bewusstsein des moralischen Gesetzes”.
[19] Così F. E. de Tejada, cit., 527.
[20] Ibidem, 528.
[21] Così N. Bobbio, Diritto e Stato nel pensiero di Emanuele Kant, Torino, 1957, 168 ha concluso che per Kant la differenza tra la sfera morale e la sfera giuridica sta nel fatto che oggetto della prima è il mondo della persona, oggetto del secondo, il mondo delle cose.
[22] La formula si trova nella prima parte della Metafisica dei Costumi, ove Kant distingue tra morale e diritto, affermando che la morale riguarda imperativi seguiti per il loro valore intrinseco, mentre il diritto riguarda imperativi seguiti per ragioni esterne: il diritto, secondo Kant, è l’insieme delle condizioni che permettono all’arbitrio di ogni individuo di accordarsi con quello degli altri secondo una legge universale di libertà, cfr. I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, Erstel Teil, Einleitung in die Rechtslehre, § B, 230, in Metafisica dei costumi, Parte prima, a cura di G. Landolfi Petrone, Milano, 2006.
[23] Cfr. V. de Ruvo, La filosofia del diritto di Kant, Padova, 1961, 71.
[24] Così magistralmente F. E. de Tejada, Tratado, I, cit., 531.
[25] P.J.A.R. Feuerbach, Revision der Grundsätze und Grunbegriffe des positiven peinlichen Rechts, Erster Theil, Erfurt, 1799; Zweiter Theil, Chemnitz, 1800.
[26] M. Ronco, Voluntas ut ratio. Sullo statuto della volontà nel diritto penale, Torino, 2023, 39, 41.
[27] Riprendo in quest’ultima parte il capitolo iniziale del mio scritto Giambattista Vico e la verità del diritto, in Prudentia Iuris, Numero Anniversario, 2020, 117-120.
[28] G.B. Vico, Vita scritta da se medesimo (1723-1728) con Aggiunta fatta da Vico alla sua autobiografia (1731), in Id., Opere, A. Battistini (a cura di), Milano, 2005, 3-60, 61-85.
[29] G.B. Vico, Princìpi di scienza nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritruovano i princìpi del diritto naturale delle genti, 1° ed. 1725, in La scienza nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, M. Sanna, V. Vitiello (a cura di), Milano, 2012/2013, 37-327.
[30] Vico, Vita scritta da se medesimo (1723-1728), cit., 60, ove i tre prìncipi della scienza giuridica ad modum dei protestanti sono naturalmente l’olandese Ugo Grozio (1583-1645), l’inglese John Selden (1584-1654) e il germanico Samuel Pufendorf (1637-1694).
[31] G.B. Vico, De universi iuris uno principio et fine uno, Liber unus, De universi iuris uno principio et fine uno, Liber alter, De constantia iurisprudentis, 1720, in Opere giuridiche. Il diritto universale, P. Cristofolini (a cura di), Firenze, 1974.
[32] Le tre edizioni risalgono rispettivamente al 1725 (cit. n. 2), al 1730 (Cinque libri di Giambattista Vico de’ principj d’una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni in questa seconda impressione. Con più propria maniera condotti, e di molto accresciuti. Alla santità di Clemente XII dedicati, in Napoli, MDCCXXX, in La scienza nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, cit., 351-774) e al 1744 (postuma, Principj di scienza nuova di Giambattista Vico d’intorno alla comune natura delle nazioni in questa terza impressione, dal medesimo Autore in un gran numero di luoghi corretta, schiarita e notabilmente accresciuta, ivi, 779-1264).
[33] Vico, Scienza nuova (1725), cit., 43.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem, 44.
[36] Ibidem.
[37] Ibidem.
[38] Ibidem.
[39] Vico, Scienza Nuova (1744), cit. n. 7, 894.
[40] Ibidem.
[41] Ibidem, 895.
[42] Ibidem.
[43] Ibidem, 861.
[44] Ibidem, 895.
[45] Mi sia permessa, dato il carattere divulgativo per gli amici di questo scritto, una nota personale. Quando frequentavo il secondo anno del liceo classico, il docente di italiano, un coltissimo e riservato ecclesiastico della Diocesi di Torino, tratteggiò nel corso delle lezioni la figura di Giambattista Vico. Qualche giorno dopo, nello spazio dedicato alle domande degli studenti io, avendo letto un’interpretazione idealistica di Vico, domandai al docente se la formula vichiana verum et factum convertuntur costituisse un’anticipazione delle tesi di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile a proposito del filosofo napoletano. Il professore mi guardò benevolmente e rispose con un mite rimprovero: “bambino, questo è un grande errore che lei non deve commettere. Vico è il più grande cantore moderno dell’opera della Provvidenza nella storia. Legga attentamente la Dignità XIII della Scienza Nuova”. Fui lieto della risposta, dicendo tra me, quasi dovessi commentare una partita di calcio: “Almeno Vico è dei nostri!”