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Articolo di Marcello Palmieri pubblicato il 19 luglio 2019 su Avvenire.

L’eutanasia? “Non è quanto chiesto al Parlamento dalla Corte Costituzionale”. Né la Corte potrebbe farlo, per il principio di divisione dei poteri. Lo dice Carmelo Leotta, associato di Diritto penale all’Università Europea di Roma, ascoltato come esperto nelle Commissioni riunite affari sociali e giustizia di Montecitorio. Qui, al momento, ogni tentativo di accordo è saltato.

C’è infatti una proposta di legge – quella a prima firma di Alessandro Pagano (Lega) –  diversa dalle altre quattro e con esse inconciliabile. Ma è proprio questa, secondo Leotta, la più rispondente alle indicazioni della Consulta. Innanzitutto, nota il professore, “è l’unica che limita il quadro normativo sul fine vita alla casistica indicata dalla Corte: la presenza di una patologia irreversibile, di una sofferenza assolutamente intollerabile, di un trattamento di sostegno vitale e della capacità di assumere decisioni libere e consapevoli”.

Circostanze che però da sole non bastano, in quanto – e sono stati sempre i giudici costituzionali a suggerirlo – prerequisito di ogni eventuale apertura alla morte su richiesta deve essere l’avvenuto inserimento del paziente in un ciclo di cure palliative diverse dalla sedazione profonda. “Un’efficace controspinta motivazionale – nota Leotta – rispetto alla formazione di una volontà eutanasica”.

Anche in questo caso è la proposta di legge Pagano la più consonante con questa visione: laddove le altre o non citano queste alternative terapeutiche o le prevedono solo quale informazione da dare al malato, il testo della Lega vorrebbe una “presa in carico del paziente per la prescrizione di una  terapia del dolore”.

E se tutto ciò non fosse sufficiente a rimuovere la volontà del sofferente a morire anzitempo? Qui, il testo di Pagano  diverge da quanto sembra auspicare la Consulta: laddove infatti la Corte lascia intendere la necessità di un potere-dovere dello Stato di assecondare queste richieste, per la proposta della Lega è più conforme al diritto prevedere una riduzione – non una totale rimozione – della pena dell’art. 580 cod. pen. (che punisce l’aiuto nel suicidio) per i prossimi congiunti del malato che si trovi nella situazione prevista dalla Corte, nel caso questi abbiano collaborato al suo ultimo disperato gesto. Questa soluzione, per Leotta, può essere praticata perché, pur venendo incontro con la riduzione della pena a chi, trovandosi nel turbamento causato dalla sofferenza di una persona vicina, l’ha aiutata a compiere il suicidio, non toglie la responsabilità di tale atto. Diversamente, argomenta Leotta, “se s’imboccasse la strada della non punibilità s’introdurrebbe il giudizio per cui la vita del malato vale meno di quella del sano, con ciò violando ogni principio non solo di eguaglianza, ma anche di civiltà giuridica”.

C’è poi il tema dell’obiezione di coscienza, diritto che la Corte stessa ha chiesto di tutelare. In altre parole: nessuna legge, per nessun motivo, può obbligare una persona a ucciderne un’altra. Eppure, rileva Leotta, solo la proposta Pagano richiama l’obiezione di coscienza e la vincola alla “deontologia professionale” e alle “buone pratiche socio assistenziali”, favorendo così “un diritto di obiezione altamente responsabilizzante”. Una cosa è certa: la Corte Costituzionale non ha chiesto al Parlamento d’introdurre l’eutanasia. Ma di dare tutela a persone – poche, fortunatamente – caratterizzate da una situazione clinica tanto compromessa quanto rara.

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