Primo commento al decreto legge n. 162 del 2022 in materia di ergastolo ostativo.
1. Come era previsto, la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 227 dell’8 novembre scorso, ha ordinato la restituzione degli atti alla Corte di Cassazione, che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale del complesso normativo che precludeva l’ammissione alla liberazione condizionale del condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose che non abbia collaborato con la giustizia; l’ordinanza n. 227 dà atto che il decreto-legge n. 162 determina una modifica complessiva della disciplina interessata dalle questioni di legittimità costituzionale, permettendo al condannato all’ergastolo per reati ostativi non collaborante la possibilità di presentare e di vedere vagliata nel merito la domanda di liberazione condizionale, e, di conseguenza, rimette gli atti al giudice rimettente perché verifichi l’influenza della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni sollevate e proceda alla rivalutazione della loro non manifesta infondatezza.
2. Sono leciti dubbi sul possibile esito della restituzione degli atti al giudice rimettente, tenuto conto che una delle modifiche apportate alla disciplina previgente riguarda la durata minima di pena scontata dall’ergastolano per delitti di ambito mafioso non collaborante necessaria per chiedere la liberazione condizionale: il decreto-legge n. 162, modificando l’art. 2 del decreto-legge n. 152 del 1991, ha stabilito tale durata minima in trenta anni per i condannati all’ergastolo per i delitti di cui all’art. 4 bis, commi 1, 1 ter e 1 quater ord. pen., elevando per tali soggetti il limite di 26 anni di pena stabilito per tutti i condannati all’ergastolo dall’art. 176, terzo comma, cod. pen. in forza della legge n. 663 del 1986 (in precedenza il limite era di anni 28 di reclusione, come stabilito dalla legge n. 1634 del 1962 che, per la prima volta, aveva ammesso i condannati all’ergastolo alla liberazione condizionale).
Poiché la domanda di liberazione condizionale era stata presentata sul presupposto dell’espiazione di oltre 26 anni di pena detentiva (tenuto conto della liberazione anticipata concessa), si potrebbe ritenere mancante un presupposto formale di ammissibilità dell’istanza sulla base della nuova normativa, tenuto conto che l’art. 3 del decreto-legge n. 162, che detta disposizioni transitorie, non sembra contemplare espressamente questa tematica, salvo che per i casi di collaborazione impossibile o inutile; salvo ritenere operante il principio sancito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2020, in base al quale non è possibile l’applicazione retroattiva di una legge concernente l’esecuzione della pena che comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale: operatività dubbia perché, prima dell’approvazione del decreto-legge n. 162, la liberazione condizionale per gli ergastolani per delitti commessi in contesto mafioso non collaboranti (e per i quali non era stata riconosciuta la collaborazione impossibile o inutile) era preclusa, mentre ora è ammessa, difficilmente potendosi considerare, per quei condannati, la nuova normativa peggiorativa.
3. Questa considerazione, che potrebbe apparire incidentale in quanto riferita al caso specifico che ha dato luogo alla questione di legittimità costituzionale, permette, tuttavia, di ricordare quale sia stata la scelta della Corte Costituzionale con la ordinanza n. 197 del 2021.
Si è trattato di una scelta diversa rispetto a quella fatta, con riferimento alla concessione dei permessi premio agli ergastolani non collaboranti, con la sentenza n. 253 del 2019: in quell’occasione, la Consulta aveva dichiarato l’illegittimità della preclusione per tali condannati, permettendo direttamente l’accesso a quell’istituto, alle condizioni dettate con la pronuncia; con l’ordinanza n. 197 del 2021, invece, la Corte non ha fatto la stessa scelta, ritenendo rischioso un intervento meramente “demolitorio”, sia con riferimento al complessivo equilibrio della disciplina sia per le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva.
Non si è concretizzata, quindi, la soluzione da molti auspicata (anche dall’ordinanza di rimessione): la diretta estensione alla liberazione condizionale della disciplina risultante dalla declaratoria di illegittimità costituzionale in materia di permessi premio, con l’attribuzione ai Tribunali di Sorveglianza del compito di valutare, anche per i condannati all’ergastolo per delitti di contesto mafioso non collaboranti, la sussistenza dei presupposti per la concessione della liberazione condizionale, vale a dire l’avvenuto ravvedimento e l’esclusione di collegamenti con la criminalità organizzata e del pericolo del loro ripristino.
L’ordinanza, infatti, osserva che “potrebbe … risultare incongrua, se compiuta con i limitati strumenti a disposizione del giudice costituzionale, l’equiparazione, per le condizioni di accesso alla libertà condizionale, tra il condannato all’ergastolo per delitti connessi alla criminalità organizzata che non abbia collaborato con la giustizia, e gli ergastolani per delitti di contesto mafioso collaboranti”.
La Corte Costituzionale, quindi, ha affidato al Parlamento il compito di adottare le soluzioni più opportune. Si tratta di un ruolo non vincolato: dapprima l’ordinanza osserva che “appartiene … alla discrezionalità legislativa, e non già a questa Corte, decidere quali ulteriori scelte risultino opportune per distinguere la condizione di un tale condannato alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani, a integrazione della valutazione del suo sicuro ravvedimento ex art. 176 cod. pen.”, e subito dopo ribadisce che “si tratta qui di tipiche scelte di politica criminale, destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità, ma non costituzionalmente vincolate nei contenuti, e che eccedono, perciò, i poteri di questa Corte. Come dette, esse appartengono, nel quomodo, alla discrezionalità legislativa …”.
L’intervento del legislatore viene, poi, ritenuto necessario sotto altri due profili: in primo luogo, per la Corte è necessario evitare che si indebolisca, con disarmonie e contraddizioni, “la complessiva disciplina di contrasto alla criminalità organizzata”, e che non venga minato “il rilievo che la collaborazione con la giustizia continua ad assumere nell’attuale sistema”; secondariamente, l’intervento del legislatore non può che essere complessivo, sia tenendo conto dell’elenco dei reati contemplati dall’art. 4 bis, comma 1, ord. pen., di natura molto differente, sia valutando la possibilità di far accedere i condannati all’ergastolo per delitti di contesto mafioso non collaboranti non solo ai permessi premio (in forza della sentenza n. 253 del 2019) e non solo alla liberazione condizionale, ma anche alle altre misure alternative (lavoro all’esterno e semilibertà).
4. In questa ottica deve essere affrontata l’analisi del decreto-legge n. 162: il legislatore, secondo la Consulta, doveva “ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata”.
La Corte, da parte sua, si riserva il compito “di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte”.
Come intendere questo richiamo al ruolo della Consulta che chiude l’ordinanza? Sicuramente il primo riferimento era fatto alla possibilità che il legislatore adottasse una disciplina che, pur facendo cadere la preclusione assoluta alla liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo per delitti di contesto mafioso non collaboranti, ponesse condizioni per l’ammissione alla misura così restrittive da rendere sostanzialmente impossibile una decisione favorevole del tribunale di sorveglianza. In precedenti passaggi dell’ordinanza veniva menzionata la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo secondo cui “l’astratta comminatoria della pena perpetua non è un fatto in sé lesivo della dignità della persona … a condizione però che siano previsti in astratto, e che risultino realisticamente applicabili in concreto, strumenti giuridici utili a interrompere la detenzione e a reimmettere i condannati meritevoli nella società”. Sarebbe, quindi, dichiarata illegittima una normativa elusiva dell’indicazione vincolante della Corte in ordine al superamento della presunzione assoluta di pericolosità derivante dalla mancata collaborazione.
Tuttavia, emerge la differenza tra una disciplina che renda inaccessibile di fatto per quei detenuti l’ammissione alla liberazione condizionale e una che la renda molto difficile, ma non impossibile. Il legislatore, cioè, se non poteva eludere le indicazioni vincolanti della Consulta, ben poteva allargare o restringere le maglie per l’accesso alla liberazione condizionale in ragione di una scelta politica che tenesse conto, soprattutto – come ricorda l’ordinanza – della necessità di non indebolire il contrasto alla criminalità organizzata e, quindi, di tutelare i beni pubblici dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Il rischio di una trattazione del tema limitata all’ottica della funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.) è di “dimenticare” lo spessore criminale dei condannati che potrebbero essere liberati (e che saranno liberati), sia pure in una libertà vigilata: responsabili di delitti efferati compiuti nell’ambito di associazioni criminali la cui pericolosità e pervasività è nota e contro cui lo Stato combatte da decenni.
Il controllo della Corte Costituzionale sulla nuova normativa potrebbe, poi, riguardare altri parametri: il principio di uguaglianza ovvero il diritto di difesa.
Si deve segnalare, comunque, che – seppure incidentalmente – l’ordinanza n. 227 del 2022 dà atto che il decreto-legge rispetta l’indicazione vincolante proveniente dall’ordinanza n. 197 del 2021 e, prima ancora, dalla sentenza n. 253 del 2019: secondo la Corte, infatti, “la nuova disciplina trasforma da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità ostativa alla concessione dei benefici e delle misure alternative in favore dei detenuti non collaboranti, che vengono ora ammessi alla possibilità di farne istanza, sebbene in presenza di stringenti e concomitanti condizioni, diversificate a seconda dei reati che vengono in rilievo”.
5. Esaminando, allora, i presupposti per l’accesso alla liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo per delitti di contesto mafioso non collaboranti (come si dirà alla fine, sebbene la questione di legittimità costituzionale fosse limitata a tali condannati, il decreto-legge applica le nuove regole a tutti i condannati per delitti connessi con la criminalità organizzata), viene in evidenza la misura, cui si è già fatto cenno, dell’aumento a trenta anni della pena che deve essere scontata (art. 2, comma 2, decreto-legge n. 152 del 1991 come modificato dal decreto-legge n. 162 in esame).
Si tratta di misura che non rende impossibile l’accesso alla liberazione condizionale (come sarebbe avvenuto se la misura della pena da scontare fosse stata fissata in una misura troppo elevata in relazione alle aspettative di vita della popolazione), soprattutto tenendo conto che la durata della pena viene in concreto ridotta dalla concessione, per ogni semestre, di 45 giorni di liberazione anticipata, applicabile per la partecipazione all’opera di rieducazione da parte del detenuto.
La differenza di disciplina in punto di pena espiata necessaria per accedere alla liberazione condizionale tra condannati comuni e condannati per delitti previsti dall’art. 4 bis ord. pen. era già prevista dalla norma precedente, che richiedeva che fossero scontati due terzi della pena temporanea e non la metà, come previsto dall’art. 176 cod. pen.
6. Passando, poi, ai requisiti comuni alla liberazione condizionale e agli altri benefici penitenziari (l’art. 2, comma 1, decreto-legge 152 del 1991 stabilisce, infatti, che i condannati per i delitti indicati nei commi 1, 1 ter e 1 quater dell’art. 4 bis ord. pen. possono essere ammessi alla liberazione condizionale solo se ricorrono le condizioni indicate dallo stesso art. 4 bis per la concessione dei benefici), viene in evidenza la previsione per cui “i benefici … possono essere concessi al detenuto o internato sottoposto al regime speciale di detenzione previsto dall’art. 41 bis solamente dopo che il provvedimento applicativo di tale regime speciale sia stato revocato o non prorogato” (art. 4 bis, comma 2, ultimo periodo).
Si tratta di previsione che attua quanto espressamente rilevato dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 197 del 2021: la Corte osservava, infatti, che l’applicazione del regime di cui all’art. 41 bis “presuppone … l’attualità dei … collegamenti con organizzazioni criminali. In costanza di assoggettamento a tale regime, l’accesso ai benefici penitenziari non risulta possibile, e di certo non è compatibile con una valutazione di ‘sicuro ravvedimento’ ex art. 176 cod. pen.”.
In verità, se la prima applicazione del regime detentivo di cui all’art. 41 bis ord. pen. nei confronti di un detenuto richiede che vi siano elementi “tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale” (art. 41 bis, comma 2, ord. pen.), per la proroga della misura è sufficiente che “la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale … non è venuta meno”. In altre parole, la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva non deve essere dimostrata in termini di certezza, essendo necessario e sufficiente che essa possa essere ragionevolmente ritenuta probabile sulla scorta dei dati conoscitivi acquisiti (Cass. Sez. 1, n. 20986 del 23/06/2020, Farao, Rv. 279221); quindi è sufficiente la potenzialità, attuale e concreta, di collegamenti con l’ambiente malavitoso che non potrebbe essere adeguatamente fronteggiata con il regime carcerario ordinario (Cass. Sez. 1, n. 24134 del 10/05/2019, Belforte, Rv. 276483).
Se, quindi, non sempre vi è certezza che il condannato sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis ord. pen. abbia collegamenti attuali con le organizzazioni criminali, tuttavia la sottoposizione a tale regime, anche a seguito di proroga, fa ritenere sussistente il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Si deve ricordare che la sentenza n. 253 del 2019 permetteva la concessione dei permessi premio ai condannati per delitti di ambito mafioso non collaboranti “allorché siano acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti”.
La mancata sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis ord. pen. costituisce un presupposto di ammissibilità della domanda di ammissione alla liberazione condizionale, al pari della mancata espiazione della durata minima di pena.
La previsione in commento – del tutto logica e coerente con il contenuto delle norme e con le indicazioni della Corte Costituzionale – produrrà l’effetto di rendere, se possibile, più impegnativa la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma sui reclami proposti contro i decreti ministeriali di applicazione e di proroga del regime: in particolare, risulta ora chiaro che quella decisione, avverso la quale è ammesso ricorso per cassazione solo per violazione di legge, non solo determinerà la permanenza di quel particolare regime detentivo, ma permetterà o meno l’accesso a tutte le misure alternative (tranne la liberazione anticipata) e, per i condannati all’ergastolo non collaboranti, permetterà di accedere alla liberazione condizionale.
Si deve, comunque, ricordare che i dubbi sollevati in ordine alla possibilità effettiva di controllo del decreto ministeriale da parte del Tribunale di Sorveglianza di Roma sono stati fugati dalla giurisprudenza di legittimità, che ha ripetutamente ribadito che il controllo svolto dal Tribunale non è limitato ai profili di violazione della legge, ma si estende alla motivazione ed alla sussistenza, sulla base delle circostanze di fatto indicate nel provvedimento, dei requisiti della capacità del soggetto di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata, della sua pericolosità sociale e del collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di sicurezza (da ultimo, Cass. Sez. 1, n. 18434 del 23/04/2021, Mulè, Rv. 281361).
7. Venendo al nucleo dei presupposti di fatto per l’ammissione dei condannati per delitti di ambito mafioso non collaboranti ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale, la nuova norma recita: “i benefici … possono essere concessi anche in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter … purché gli stessi dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento e alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile. Al fine della concessione dei benefici, il giudice accerta, altresì, la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa” (art. 4 bis, comma 1 bis ord. pen.).
Questa norma deve essere letta in combinazione con quelle che regolano i vari istituti cui il condannato aspira ad accedere: il tribunale di sorveglianza, infatti, se viene chiesto, ad esempio, l’ammissione del detenuto al lavoro all’esterno (art. 21 ord. pen.), deve verificare se sussistono condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi del trattamento penitenziario; e così, quando decide su una richiesta di ammissione alla liberazione condizionale, il tribunale deve giungere a ritenere “sicuro il ravvedimento” del condannato sulla base del suo comportamento durante l’esecuzione della pena.
Per i condannati per reati in ambito mafioso che hanno collaborato con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter ord. pen., ciò è direttamente possibile (art. 4 bis, comma 1, ord. pen.); se, invece, manca la collaborazione il giudizio che il tribunale di sorveglianza deve esprimere deve tenere conto di tutti gli elementi sopra indicati.
Il motivo di questo esame più approfondito e più severo sono ampiamente spiegati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 253 del 2019 e nell’ordinanza n. 97 del 2021 e sta nella presunzione di pericolosità del condannato all’ergastolo per reati di contesto mafioso che non collabora con la giustizia: si tratta di presunzione valida, secondo la Consulta, che afferma: “… tale presunzione permane giacché … non è affatto irragionevole presumere che costui conservi i propri legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza. … L’appartenenza ad una associazione di stampo mafioso implica, di regola, un’adesione stabile a un sodalizio criminoso, fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capaci di protrarsi nel tempo … E’ ben possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche in esito a lunghe carcerazioni, proprio per le caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco …”.
Occorre, quindi, superare tale presunzione di pericolosità: essa è divenuta relativa, nel senso che deve essere possibile provare non solo che la mancata collaborazione non era “libera” e non costituiva frutto della permanente adesione alla associazione criminale di appartenenza, ma anche che, in ragione della lunga carcerazione subita, la pericolosità del soggetto e i contatti con l’organizzazione criminale sono venuti meno anche in mancanza della collaborazione.
Per questo superamento, occorre una “specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza” che possa vagliare le allegazioni del condannato che smentiscono la presunzione.
8. Il pregresso adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato e degli obblighi di riparazione pecuniaria derivanti dalla condanna non è una novità per l’accesso alla liberazione condizionale: l’art. 176, ultimo comma, cod. pen., stabilisce già che la concessione della liberazione condizionale è subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle. La previsione, piuttosto, è nuova con riferimento agli altri benefici penitenziari: i condannati non collaboranti dovranno adempiere a tali obbligazioni (o dimostrare di essere impossibilitati a farlo) anche per accedere al lavoro all’esterno o alla semilibertà.
La norma, tuttavia, contiene un aggettivo riferito alla impossibilità di adempiere alle obbligazioni – l’impossibilità deve essere “assoluta” – che sembra voler rafforzare questo requisito, sconfessando un orientamento giurisprudenziale secondo cui l’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili nascenti dal reato va intesa non solo come materiale impossibilità economica, ma deve essere considerata anche in rapporto ad altre cause (tra le quali l’irreperibilità del creditore, la sua non identificabilità, la rinunzia al credito, il comportamento del creditore che renda concretamente impossibile il soddisfacimento totale o parziale dell’obbligazione) ed è da valutarsi, comunque, in senso relativo, essendo necessaria la comparazione, in concreto, tra le condizioni economiche del condannato e l’entità pecuniaria delle obbligazioni rimaste inadempiute.
Può lasciare perplessi il riferimento finale della norma alle iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa, ma non si tratta di una duplicazione. Il testo recepisce, infatti, l’orientamento giurisprudenziale per cui il presupposto del “sicuro ravvedimento” non consiste semplicemente nella ordinaria buona condotta del condannato, necessaria per fruire dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, ma implica comportamenti positivi dai cui poter desumere l’abbandono delle scelte criminali, e tra i quali assume particolare significato la fattiva volontà del reo di eliminare o di attenuare le conseguenze dannose del reato (Cass. Sez. 1, n. 486 del 25/09/2015, dep. 2016, Caruso, Rv. 265471), anche con atti e comportamenti di concreta apertura e disponibilità relazionale verso i parenti delle vittime dei gravi delitti commessi (Cass. Sez. 1, n. 45042 del 11/07/2014, Minichini, Rv. 261269). La previsione, quindi, non attiene alla verifica della sussistenza del presupposto dell’adempimento delle obbligazioni civili o della sua impossibilità, ma è un’indicazione al giudice per la valutazione dell’effettivo ravvedimento richiesto dalla norma.
9. L’insufficienza, ai fini della dimostrazione del venir meno della pericolosità del detenuto, di una regolare condotta carceraria, della partecipazione del detenuto al trattamento rieducativo nonché di una dichiarazione di dissociazione dal contesto criminale era stata espressamente indicata nell’ordinanza n. 197 del 2021 (“… la presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione”): d’altro canto, l’esperienza giudiziaria mostra molti esempi di mafiosi di alto livello che tengono una condotta assolutamente regolare in carcere senza, per questo, poterne dedurre l’abbandono della scelta di vita fatta al momento dell’adesione all’associazione criminale.
10. La Corte Costituzionale osservava che sarebbe stata necessaria “l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi”.
Il decreto-legge li indica nelle circostanze personali e ambientali, nelle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, nella revisione critica della condotta criminosa e in ogni altra informazione disponibile. Queste informazioni riguardano anche il nucleo familiare del detenuto, le persone allo stesso collegate, le sue condizioni reddituali e patrimoniali, il tenore di vita, le attività economiche svolte e l’adozione definitiva di misure di prevenzione personali e patrimoniali (art. 4 bis, comma 2, ord. pen.).
I motivi della mancata collaborazione costituiscono, senza dubbio, un punto nevralgico della decisione che il tribunale di sorveglianza è chiamato ad adottare.
Si deve ricordare che la sentenza n. 253 del 2019 faceva leva, per consentire l’accesso di tali detenuti ai permessi premio, proprio sulla astratta possibilità che il detenuto all’ergastolo per delitti di contesto mafioso decida di non collaborare con l’autorità giudiziaria per motivi differenti da quello del legame con l’associazione di appartenenza. In particolare, si indicavano, tra i motivi alternativi, lo scioglimento dell’associazione criminale di appartenenza, soprattutto in ragione dell’azione repressiva dello Stato, il pericolo per la sicurezza dei propri familiari derivante dalla collaborazione, il rischio di un’autoincriminazione per reati differenti da quelli per cui il detenuto è stato condannato e, infine, la necessità di una denuncia a carico di terze persone. In un precedente scritto ho già trattato della fragilità di queste giustificazioni alternative della mancata collaborazione, salvo quella della scomparsa dell’associazione criminale di appartenenza che, tuttavia, emergerebbe da dati oggettivi reperibili aliunde. Appare grottesco il rischio di un’autoincriminazione per reati differenti, tenuto conto che il soggetto è destinato al carcere a vita e, quindi, non può temere conseguenze pratiche da ulteriori condanne. Il rischio per l’incolumità dei familiari, d’altro canto, potrebbe essere ridotto dalle attività delle Forze di Polizia.
Il terzo motivo alternativo – la ritrosia a denunciare terze persone – rischia, invece, di essere frutto di una rivendicata “dignità criminale”: un mafioso non denuncia altre persone in attuazione di un proprio codice morale e per mantenere la sua reputazione nell’ambiente di appartenenza.
11. Sempre sui motivi della mancata collaborazione, si deve tenere conto di un altro dato importante: la scomparsa degli istituti della collaborazione impossibile o inutile di cui al precedente art. 4 bis, comma 1 bis ord. pen. (salva la norma transitoria per i condannati per delitti commessi anteriormente all’entrata in vigore del decreto-legge, art. 3 decreto-legge 162).
Il sistema precedente, basato su una distinzione netta, ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari, tra detenuti collaboranti e non collaboranti, era stato corretto, su indicazione della Corte Costituzionale, ammettendo nella prima categoria coloro che non avevano collaborato per l’impossibilità di farlo utilmente, attesa la loro limitata partecipazione al fatto criminoso ovvero nel caso in cui i fatti e le responsabilità fossero stati integralmente accertati: ciò dava luogo ad una valutazione incidentale del tribunale di sorveglianza dall’esito “rigido”, nel senso di consentire o meno il passaggio alla categoria di coloro che potevano aspirare ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale (come da sentenza della Corte Costituzionale n. 68 del 1995).
Venuta meno la preclusione di legge derivante dalla mancata collaborazione, è caduta la necessità di equiparare i casi di collaborazione impossibile o inutile a quella effettivamente prestata.
Tuttavia, anche questi possibili motivi della mancata collaborazione potranno essere addotti dal detenuto non collaborante: però, non saranno più valutati come in precedenza, ma come uno degli elementi che permetteranno al tribunale di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o il pericolo del loro ripristino nonché, per l’accesso alla liberazione condizionale, l’avvenuto ravvedimento del detenuto.
Non sembra che dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 20 del 2022 potesse trarsi l’obbligo per il legislatore di mantenere le categorie della collaborazione impossibile o inutile: d’altro canto, in quella pronuncia, la Consulta, pur ricordando che tali categorie erano sorte a seguito di pronunce della stessa Corte, le inquadrava come emesse “nella vigenza di un regime basato, senza eccezioni, sulla presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante”; presunzione che, appunto, è venuta meno.
12. L’indicazione degli altri elementi utili per tale valutazione complessiva, sopra indicati, non è esaustiva: il tribunale deve acquisire “ogni altra informazione disponibile”. Quelli indicati attengono al contesto nell’ambito del quale il reato è stato commesso – sia familiare che sociale – così da verificare se il quadro esposto dal detenuto nella domanda corrisponda effettivamente all’ambiente dove, in caso di liberazione, egli andrebbe a reinserirsi; attengono anche all’aspetto strettamente personale del ravvedimento del soggetto (la revisione critica della condotta criminosa, le iniziative a favore delle vittime dei reati commessi): in questo caso saranno le relazioni degli operatori penitenziari a fornire indicazioni utili.
Si deve ricordare che il tribunale deve chiedere informazioni alla direzione dell’istituto dove il richiedente è detenuto o internato e deve disporre accertamenti in ordine agli aspetti economici e alla pendenza o definitività di misure di prevenzione, così come al tenore di vita e alle attività economiche del nucleo familiare (verosimilmente gli accertamenti saranno chiesti alla Guardia di Finanza e/o ad altra polizia giudiziaria).
13. Il decreto-legge prevede anche disposizioni di carattere processuale su cui soffermarsi brevemente.
In primo luogo, viene stabilita la competenza del tribunale di sorveglianza, e non più del magistrato di sorveglianza, per la concessione dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro all’esterno quando il delitto è stato commesso per finalità di terrorismo, di eversione ovvero per delitti di mafia. Si tratta di previsione che non riguarda direttamente la liberazione condizionale dei detenuti all’ergastolo, già di competenza del tribunale di sorveglianza (così come la semilibertà).
L’attribuzione di tali decisioni al collegio, anziché al giudice monocratico, è frutto della valutazione prudente del legislatore alla luce della maggiore pericolosità di soggetti condannati per i delitti di quel tipo.
Non pare che la possibile perdita di un doppio grado di giudizio di merito (avverso la decisione negativa del magistrato di sorveglianza il detenuto poteva proporre reclamo al tribunale di sorveglianza) renda la norma illegittima, tenuto conto che, per orientamento costante, non esiste una garanzia costituzionale per il doppio grado di merito (le ordinanza del tribunale di sorveglianza sono, ovviamente, ricorribili per cassazione).
Il decreto-legge n. 162, al fine di fornire tutte le informazioni disponibili al tribunale di sorveglianza, affianca ai pareri del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica del luogo di detenzione del condannato anche quelli del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto dove è stata pronunciata la sentenza di primo grado e del Procuratore nazionale antimafia. Il primo è, verosimilmente, l’ufficio che ha condotto le indagini e ha partecipato al processo, ottenendo la condanna divenuta definitiva: quindi possiede (o dovrebbe possedere) molte informazioni utili per la valutazione del tribunale di sorveglianza. La sua conoscenza del procedimento che ha dato luogo alla condanna definitiva è ritenuta talmente importante da permettergli di partecipare all’udienza del tribunale in cui si discute della concessione dei benefici ai condannati per i reati di competenza delle Direzioni Distrettuali Antimafia.
Si nota lo sforzo del legislatore di garantire al tribunale di sorveglianza informazioni utili e, soprattutto, provenienti dal luogo dove i reati sono stati commessi e dove, per la maggior parte dei casi, si trova l’ambiente di provenienza del condannato. Si deve ricordare che la competenza per territorio della magistratura di sorveglianza è legata all’istituto penale dove si trova l’interessato all’atto della richiesta (art. 677, comma 1, cod. proc. pen.), cosicché può avvenire (e, verosimilmente, avviene spesso) che siano a chiamati a decidere sulle richieste di benefici tribunali di distretti diversi e assai lontani da quello da cui proviene il detenuto.
14. Vi sono due passaggi della riforma che attengono, in qualche modo, all’onere probatorio nell’ambito del procedimento per la concessione dei benefici penitenziari e, quindi, della liberazione condizionale ai detenuti per delitti di ambito mafioso o legati ad associazioni criminali non collaboranti con la giustizia.
L’art. 4 bis, comma 1 bis ord. pen. prevede che, per la concessione dei benefici, i detenuti debbano “dimostrare” l’adempimento delle obbligazioni civili o l’assoluta impossibilità di tale adempimento nonché “allegare” gli elementi specifici, di cui si è già trattato, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e con il contesto nel quale il reato è stato commesso nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti.
Nel descrivere il procedimento davanti al tribunale di sorveglianza, il comma 2 prevede, poi, che “quando dall’istruttoria svolta emergono elementi dell’attuale sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, ovvero del pericolo di tale collegamento, è onere del condannato fornire, entro un congruo termine, idonei elementi di prova contraria”.
Non pare che tali previsioni determinino una totale inversione dell’onere della prova o ledano il diritto di difesa del condannato che aspira al beneficio penitenziario o alla liberazione condizionale.
Quanto all’adempimento delle obbligazioni civili o all’impossibilità di adempiere, pare evidente che sia l’interessato a possedere le informazioni e i dati utili da esporre al tribunale, sia nel caso di adempimento degli obblighi, sia nel caso di impossibilità. L’art. 176, ultimo comma, cod. pen. prevede già che il condannato che non ha adempiuto alle obbligazioni civili debba “dimostrare” di trovarsi nell’impossibilità di adempierle. Benché si tratti, appunto, di obbligazioni civili, la “dimostrazione” non deve intendersi riferita all’onere probatorio chiesto nel processo civile, da cui deriverebbe il rigetto della domanda di liberazione condizionale in caso di mancato o insufficiente assolvimento di tale onere: il condannato fornirà la documentazione utile che il tribunale di sorveglianza valuterà liberamente. Si tenga presente che gli accertamenti in ordine alle condizioni reddituali e patrimoniali, al tenore di vita, alle attività economiche svolte del condannato e del suo nucleo familiare, che, come si è visto, il tribunale deve disporre, si sovrapporranno alla “dimostrazione” dell’impossibilità ad adempiere, confermandola o smentendola.
Passando, invece, al tema del collegamento con la criminalità organizzata o del pericolo del suo ripristino, di onere di allegazione aveva espressamente fatto riferimento la Corte Costituzionale nella sentenza n. 253 del 2019: “Di entrambi tali elementi – esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro rispristino – grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica allegazione (come stabilisce la costante giurisprudenza di legittimità maturata sul comma 1-bis dell’art. 4-bis, ordin. penit., in tema di collaborazione impossibile o inesigibile …)”.
Come è noto, l’onere di allegazione non corrisponde all’onere probatorio: il condannato dovrà indicare gli elementi utili per l’accoglimento della sua domanda e tali elementi saranno verificati – e, quindi, confermati e smentiti – dall’istruttoria che il tribunale dovrà compiere, acquisendo i pareri, le informazioni e gli accertamenti di cui si è detto.
Nemmeno l’ultimo passaggio sembra integrare un’inversione dell’onere probatorio: al contrario, la norma attribuisce un ulteriore spazio di contraddittorio al condannato, per evitare che l’esito negativo dell’istruttoria determini un provvedimento di rigetto della domanda senza che il richiedente abbia avuto la possibilità di argomentare e replicare. Il tribunale, infatti, assegna un “congruo termine” al condannato perché fornisca elementi di prova contraria.
Sarà la difesa del condannato a valutare come utilizzare questo termine: per smentire determinate informazioni ovvero per dimostrare al tribunale che le stesse sono di natura congetturale – questo è il rischio di informazioni che argomentano in ordine al pericolo del ripristino di collegamenti, perché hanno per oggetto una prognosi e non un fatto – ovvero, ancora, per rinunciare alla domanda al fine di evitare un provvedimento di rigetto.
D’altro canto – non si deve dimenticare – la mancata collaborazione determina una presunzione sfavorevole per il condannato che chiede l’accesso ai benefici penitenziari o alla liberazione condizionale, la cui validità è ribadita espressamente dalla Corte Costituzionale: è inevitabile che l’interessato contribuisca al superamento di tale presunzione.
15. Un brevissimo accenno deve essere fatto alla norma che, modificando l’art. 2 del decreto-legge n. 152 del 1991, dispone che la libertà vigilata conseguente alla liberazione condizionale comporti il divieto di incontrare e mantenere contatti con condannati per delitti di stampo mafioso o con soggetti sottoposti a misure di prevenzione e, soprattutto che l’estinzione della pena dell’ergastolo intervenga soltanto dopo dieci anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale.
Si tratta di una disciplina più gravosa rispetto ai condannati all’ergastolo “comuni”, per i quali l’estinzione della pena e la revoca delle misure di sicurezza sono disposte dopo cinque anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale.
La norma attua un suggerimento incidentale contenuto nell’ordinanza n. 197 del 2021: la Consulta, nel riferirsi alla discrezionalità legislativa nell’attuazione delle sua indicazioni, aveva indicato, tra le scelte che il Parlamento avrebbe potuto compiere, quella della “introduzione di prescrizioni particolari che governino il periodo di libertà vigilata …”.
La norma non pare affatto irragionevole né discriminatoria: la libertà vigilata applicata al condannato ammesso alla liberazione condizionale è frutto di una saggia diffidenza del legislatore rispetto all’esistenza effettiva del ravvedimento che, pure, il tribunale di sorveglianza aveva ritenuto “sicuro”; quanto più è grave il delitto commesso, tanto più tale diffidenza aumenta. Si deve ricordare che, nel periodo stabilito, la liberazione condizionale può essere revocata se il condannato commette un delitto ovvero trasgredisce agli obblighi inerenti alla libertà vigilata.
Come si è più volte ricordato, la Corte Costituzionale riconosce che la pericolosità di soggetti condannati all’ergastolo per reati di ambito mafioso non collaboranti è presunta ed è, con ogni evidenza, massima, ben superiore a quella di condannati all’ergastolo per delitti sganciati da logiche criminali.
16. Al termine dell’analisi della disciplina introdotta dal decreto-legge n. 162 è possibile esprimere una valutazione del provvedimento, dapprima con riferimento alla trattazione dell’ambito che ha dato origine all’ordinanza n. 197 del 2021 – l’ammissione alla liberazione condizionale dei condannati all’ergastolo per delitti connessi alla criminalità organizzata di natura mafiosa che non abbiano collaborato con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter ord. pen. – e poi con uno sguardo al complesso della normativa.
Si deve escludere che la disciplina renda concretamente impossibile l’accesso all’istituto della liberazione condizionale a tali condannati, eludendo l’indicazione della Consulta: al contrario, tale possibilità risulta effettiva perché, in definitiva, sarà affidata ad una valutazione complessiva e per buona parte discrezionale del tribunale di sorveglianza.
Quando l’art. 4 bis, comma 2, ord. pen. così come riformato prevede – con un passo, in verità, superfluo – che “in ogni caso, nel provvedimento con cui decide sull’istanza di concessione dei benefici (e, quindi, anche sull’istanza di ammissione alla liberazione condizionale) il giudice indica specificamente le ragioni dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza medesima, tenuto conto dei pareri acquisiti …”, dimostra appunto, che la valutazione è globale e discrezionale: che il tribunale di sorveglianza dovrà tenere conto di pareri contrari all’ammissione, ma potrà disattenderli; che dovrà valutare le informazioni provenienti dagli accertamenti demandati, così come le deduzioni e gli elementi provenienti dal condannato, e potrà propendere per l’una o per l’altra soluzione; che dovrà tenere conto delle notizie e informazioni provenienti dalla Direzione del carcere e dall’equipe di operatori e sulla base di queste ritenere se davvero vi è certezza del ravvedimento del detenuto.
I limiti rigidi e insuperabili sono pochi: il periodo minimo trascorso in detenzione e la sottoposizione del detenuto al regime di cui all’art. 41 bis ord. pen.
Non vi è dubbio che l’onere di motivazione del provvedimento – positivo o negativo – sarà gravoso, sia per la importanza della decisione, sia per le plurime fonti di conoscenza alle quali il tribunale dovrà attingere e di cui dovrà dare atto: ma il provvedimento sarà adottato dopo un ampio ed effettivo contraddittorio tra le parti.
Il provvedimento potrà, poi, essere vagliato dalla Corte di Cassazione non solo sotto il profilo della violazione di legge, ma anche con riferimento alla congruità della motivazione.
17. Come si è visto, il decreto-legge recepisce numerosi suggerimenti e indicazioni provenienti dalla Corte Costituzionale.
Un’ulteriore indicazione della Consulta è stata seguita: la possibilità di ammettere i detenuti in questione non solo alla liberazione condizionale, ma anche al lavoro all’esterno e alla semilibertà, “proprio le misure che normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio (cui gli stessi sono ammessi in forza della sentenza n. 253 del 2019) l’avvio verso il recupero della libertà”.
Quindi, anche al condannato all’ergastolo per delitti di ambito mafioso non collaborante è offerta dallo Stato la possibilità di accedere all’intero trattamento penitenziario, sempre con le cautele di cui si è già fatto riferimento. Di fatto, l’ammissione ai permessi premio, al lavoro all’esterno e alla semilibertà potranno indurre il tribunale di sorveglianza ad esprimere una valutazione positiva in ordine alla domanda di accesso alla liberazione condizionale.
Non pare davvero, in definitiva, che il Governo abbia finto di adeguarsi alle indicazioni della Corte Costituzionale: non solo perché il testo del decreto-legge era stato oggetto di una larga approvazione in una camera del Parlamento nella precedente legislatura, ma perché le tracce di una lettura attenta e rispettosa dei provvedimenti della Consulta sono numerose ed evidenti.
18. Il decreto-legge adotta, poi, disposizioni che rendono organica la disciplina: in primo luogo, rispetto alla portata limitata della questione di legittimità costituzionale, che riguardava esclusivamente i condannati all’ergastolo del delitti commessi nell’ambito mafioso, applica la nuova disciplina a tutti i condannati per delitti legati alla criminalità organizzata (art. 4 bis, comma 1 bis ord. pen.); detta, poi, una disciplina parzialmente differente per i condannati non collaboranti per delitti non connessi alla criminalità organizzata inseriti, nel corso degli anni, nel catalogo dell’art. 4 bis cit. (art. 4 bis, comma 1 bis.1, ord. pen.); come si è visto, cancella gli istituti della collaborazione impossibile e inutile (salvo la norma transitoria); applica le regole e le procedure di cui si è trattato a tutti i provvedimenti di concessione dei benefici penitenziari ai non collaboranti.
Resta da dire che la disciplina dettata dovrà essere applicata dai tribunale di sorveglianza che – come è noto – si dibattono da tempo in difficoltà derivanti dalla quantità sovrabbondante di provvedimenti a loro assegnati.
Il governo, che pare essersi dimostrato attento nel dettare le nuove regole sulla tematica specifica sollevata dalla ordinanza della Corte Costituzionale, dovrà mantenere la medesima attenzione alle condizioni concrete in cui la magistratura di sorveglianza è chiamata ad operare.
Giacomo Rocchi