- Improvvisamente (com’è proprio dei fenomeni della natura, certi an, incerti quando), nel giro di pochi mesi, nell’apparente regolarità e ineluttabilità del mondo globalizzato ha fatto irruzione un fenomeno radicalmente eversivo del “diritto” inteso come tecnica di “regolazione sociale”: un fenomeno che ci ricorda come, anche nel tecnologico e secolarizzato secondo millennio, “ex facto oritur ius”. La pandemia da SARS-2-CoV ha cambiato le carte in tavola in un gioco che sembrava “naturale” mentre era solo “umano”, e ci impone adesso di porre le regole, anche giuridiche, di un gioco diverso, che ancora nemmeno ben conosciamo.
L’impatto della pandemia sul diritto del lavoro del prossimo futuro non è tema abbordabile in uno scritto episodico come questo; mi preme però offrire ai lettori alcuni spunti di riflessione relativi al ruolo svolto, nell’emergenza Coronavirus, dal “lavoro agile” (internazionalmente noto come smart-work).
- Nella sua versione “ordinaria”, il lavoro agile è una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti”, “allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”: esso si svolge “senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita… senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Introdotto in Italia non più di 3 anni fa, in chiave di risposta alla richiesta sociale di flessibilità organizzativa del lavoro subordinato e di conciliazione dei tempi di lavoro con quelli “personali”, il lavoro agile ha subito, nell’emergenza pandemica, una torsione funzionale che ne ha fatto una delle misure più importanti per fronteggiare Covid-19 sul piano dell’organizzazione del lavoro. Il ruolo strategico assunto dal lavoro agile in chiave di contrasto alla diffusione del virus SARS-CoV-2 si spiega agevolmente.
Collocandosi all’interno del fenomeno economico-sociale del platform-mediated work prestato in maniera subordinata, il lavoro agile assurge, nel diritto del lavoro italiano, a norma base sul lavoro subordinato a distanza (remote work): proprio per questo, esso si è prestato egregiamente a realizzare nelle organizzazioni di lavoro la regola tendenziale del c.d. “distanziamento sociale”, propedeutica al contenimento della pandemia.
Inoltre, come forma di distanziamento sociale, il lavoro agile presenta il vantaggio di porsi come adattamento del sistema produttivo alla situazione emergenziale in atto, riducendone l’impatto sulla produzione e dunque consentendone, entro certi limiti, la prosecuzione.
Ecco dunque che un istituto scarsamente diffuso in Italia (6% degli occupati, contro il 25% della Francia, il 30% della Germania e il 35% del Regno Unito), che nemmeno la retorica della responsabilità sociale dell’impresa e del welfare aziendale era riuscito a far decollare, è arrivato a toccare percentuali di diffusione elevatissime, assurgendo fin dall’inizio dell’emergenza epidemiologica a strumento privilegiato, anche in chiave di contenimento del ricorso agli ammortizzatori sociali, per la gestione dell’emergenza occupazionale provocata dall’imperativo del diradamento fisico e del distanziamento sociale.
Ciò è avvenuto, sostanzialmente, attraverso una drastica semplificazione formale e procedurale, il cui tratto più significativo consiste nella eliminazione della formalità dell’accordo scritto, venendo incluso già dal d.l. n. 6/2020 tra le misure alternative alla regola della «sospensione o limitazione dello svolgimento delle attività lavorative».
A seguito di successivi ritocchi normativi, lo strumento si è consolidato nel “format” secondo cui “La modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, è applicabile in via provvisoria … nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti».
Dal punto di vista funzionale, fin dai d.p.c.m. del 4 e dell’8 marzo 2020 se ne formalizza un utilizzo sinergico e integrato con la “raccomandazione ”ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere, durante il periodo di efficacia del presente decreto, la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e di ferie».
Il d.p.c.m. dell’11 marzo 2020 si spinge fino a prescrivere alle “pubbliche amministrazioni … lo svolgimento in via ordinaria delle prestazioni lavorative in forma agile del proprio personale dipendente”, previa individuazione delle “attività indifferibili da rendere in presenza».
Nello stesso decreto si raccomanda “il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza …”; raccomandazione da leggersi, ancora un volta, in sinergia con l’indicazione che «siano incentivate le ferie e i congedi retribuiti per i dipendenti nonché gli altri strumenti previsti dalla contrattazione collettiva; siano sospese le attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione; si assumano protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, con adozione di strumenti di protezione individuale; siano incentivate le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro, anche utilizzando a tal fine forme di ammortizzatori sociali …»; favorendosi, «limitatamente alle attività produttive, intese tra organizzazioni datoriali e sindacali»; e concludendosi, ancora una volta, con la formula apparentemente ottativa alla cui stregua «Per tutte le attività non sospese si invita al massimo utilizzo delle modalità di lavoro agile».
Le prime rilevazioni e i primi studi in materia rivelano che l’utilizzo massiccio dello smart-work in chiave emergenziale, se da un lato ha in qualche misura attutito l’impatto del lock-down su alcuni settori produttivi, ha anche dato buona prova di sé, convincendo molti imprenditori (anche non grandi), aziende, studi professionali, le pubbliche amministrazioni, che lo strumento, se utilizzato in contesti sufficientemente digitalizzati, e soprattutto, se combinato con l’adozione di modelli organizzativi meno gerarchizzati, più partecipati, più focalizzati sui risultati che sul controllo della prestazione, può rivelarsi strumento di miglioramento organizzativo: una sorta di eterogenesi dei fini, ulteriormente caratterizzata dall’inusitata retroazione virtuosa dello strumento stesso sul fine.
- Non basta. Se tutto finisse qui, si sarebbe solo ottenuto il pur apprezzabile risultato di saturare le potenzialità produttivistiche e sociali del lavoro da remoto in un contesto che era in realtà già favorevole a tale sviluppo. Ma la forzata utilizzazione massiccia del lavoro agile ha prodotto anche altri effetti sistemici sul diritto del lavoro italiano.
Innanzi tutto, ha dimostrato che l’assenza di coordinamento della prestazione nel tempo e nello spazio, fino ad oggi considerati indici tipici del lavoro subordinato (il cd. “modello social-tipico” della subordinazione), è in realtà perfettamente compatibile col lavoro subordinato, il quale, in un contesto digitalizzato, resta subordinato semplicemente perché caratterizzato dal potere direttivo del datore di lavoro e dal correlato obbligo di obbedienza del lavoratore (“agile”, ma non per questo “autonomo”).
Ciò dovrebbe convincere giudici, dottrina e legislatore a ripensare le tutele lavoristiche in base a due precisi criteri (in parte, ma non abbastanza chiaramente indicati dal cd. “Jobs Act” del 2015 e dal cd. “Statuto dei lavori autonomi” del 2017).
Il primo: la digitalizzazione dei processi produttivi (paradigmaticamente: il lavoro coordinato da piattaforme digitali) è un processo trasversale, che attraversa il lavoro in tutte le sue forme, subordinate e autonome, occasionali e continuative, fino a quelle libero-professionali; e dunque non può assurgere a motivo di attrazione del cd. “lavoro etero-organizzato” (ma non “eterodiretto”) nell’ambito del lavoro subordinato.
Il secondo: il lavoro autonomo, oggi più che mai, a fronte di sempre più evidenti fenomeni di impoverimento e massificazione della categoria, merita una regolazione specifica, il cui paradigma non può essere, però, quello di una “etero-organizzazione” che lo faccia ricadere nel mondo del lavoro subordinato, bensì quello della debolezza o dipendenza economica. È (o forse sarebbe meglio dire “era”) questa la logica della legge n. 81/2017 (cd. “Statuto dei lavoratori autonomi”).
Era dunque un equivoco quello, in voga fino a qualche anno fa, secondo cui il lavoratore subordinato non sarebbe più quello raffigurato da Barassi un secolo fa e cristallizzato nell’art. 2094 cod. civ., bensì quello “economicamente dipendente”. Al contrario, la differenza tra le due fattispecie continua ad essere quella dell’assoggettamento o meno a potere direttivo. Anche questa è una lezione che ci proviene dall’utilizzo del lavoro agile (che è lavoro subordinato, ma non etero-organizzato nel tempo e nello spazio), “imposto” dal Coronavirus.
- Certo, il remote working non è né la panacea per tutti i “virus”, né una modalità di lavoro universalizzabile. Al netto di sviluppi del prossimo futuro che potrebbero ulteriormente stupirci, resta indubitabile che alcuni lavori, non solo e non tanto concentrati nella manifattura, quanto quelli di cura, basati sulla prossimità fisica, non saranno mai, per definizione, remotizzabili.
Proprio l’esperienza della pandemia che stiamo vivendo ce lo ha dimostrato: dai quasi proletari riders (a proposito di collaboratori “etero-organizzati”) ai primari ospedalieri, passando per il personale ausiliario e infermieristico della sanità e delle case di riposo, per i medici di base, per le organizzazioni di volontariato, i lavori “di prossimità personale” risultano essere i più apprezzati, fino a lodarne la natura “eroica”.
Ciò, tuttavia, non mi induce a prefigurare una sorta di nuovo “dualismo del mercato del lavoro”: almeno, non nell’accezione socio-economica che a questa espressione si attribuisce nelle scienze del lavoro.
Infatti, ciò che la rilevata, oggettiva differenziazione di cluster professionali suggerisce, non mi sembra tanto rappresentabile in termini di disuguaglianze reddituali – che semmai attraversano dall’interno entrambi i cluster (abbiamo e avremo sempre più sia managers che impiegati “agili”; così come riders, badanti, psichiatri e chirurghi) – , quanto in termini di caratteristiche intrinseche della “mansione”: nel secondo cluster la mansione consiste nella relazione diretta con una persona finalizzata a soddisfarne un bisogno essenziale, spesso vitale.
Ma in realtà, come sanno i giuristi, ogni prestatore d’opera, ogni debitore di servizi, è obbligato a produrre un risultato utile al creditore: giuridicamente, la prestazione dell’infermiera pietosa non è diversa da quella del direttore di una filiale bancaria.
Ora, il lavoratore agile – lo si è detto – “funziona” per risultati, non per compliance a orari e illimitata disponibilità temporale (di qui il problema del cd. “diritto alla disconnessione”, che qui posso solo segnalare, assieme al controllo a distanza tramite lo strumento di lavoro, come possibili criticità dello strumento); e “funziona” se l’organizzazione stessa è focalizzata sui risultati più che sulla compliance (il totem avanzante di molte moderne imprese in realtà ancora basate su concezioni tayloristiche del lavoro).
Il lavoro agile si basa sulla focalizzazione al risultato, sull’autoresponsabilità, sulla dedizione al servizio. Ciò che l’esperienza del Coronavirus ci ha insegnato è che nessuna prestazione è davvero “diligente”, se non è capace di trascendere la logica dello scambio attingendo all’etica del servizio.
Se tutti impiegassero nel loro lavoro quotidiano la dedizione dimostrata dai cdd. “eroi” della sanità, avremmo già fatto un passo importante nella direzione di quel “nuovo inizio” che probabilmente ci attende dopo lo shock del Coronavirus.
Prof. Armando Tursi
Ordinario di Diritto del Lavoro – Università degli Studi Milano