Articolo di Pietro Dubolino, pubblicato sul quotidiano La Verità il 20 dicembre 2022.
“Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Questa è l’affermazione, attribuita a Gesù, contenuta nel Vangelo di Giovanni, cap.8, v.32. E la verità da conoscere è costituita dalla stessa persona del Cristo, il quale dice di sé stesso (cap. 14, v.6 del medesimo Vangelo) che egli è “la via, la verità, la vita”. Ma qual è la “libertà” alla quale il Cristo vuole condurci? Per rispondere a tale domanda occorre anzitutto mettere in chiaro che essa è tutt’altra cosa rispetto alla libertà intesa in senso giuridico- formale, alla quale comunemente si fa riferimento nel linguaggio corrente. Quest’ultima, infatti, consiste essenzialmente nell’assenza di costrizioni esterne che, provenienti dal potere politico, escludano o limitino oltre il dovuto la sfera di autodeterminazione dei singoli, impedendo loro di porre in essere determinati comportamenti ovvero imponendogliene altri. E quale sia il “dovuto” oltre il quale tali costrizioni siano da ritenere lesive della naturale libertà di coloro che debbono soggiacervi è sempre dipeso dalla infinita varietà dei principi etico-politici ai quali, nel corso dei secoli, si sono ispirati tutti gli ordinamenti giuridici. In concreto, ovviamente, il limite del “dovuto” è poi stabilito da chi, in ogni singolo ordinamento e in ogni singolo periodo storico, detiene, di fatto, le leve del potere politico. Soltanto la forza di tale potere, quindi, e non la pretesa, ipotetica “verità” dei principi sui quali esso si fonda, è quella che, al tempo stesso in cui pone determinati limiti alla libertà dei singoli, garantisce pure che, entro quei limiti, essa possa essere esercitata. Il tutto in funzione dell’interesse primario dello stesso potere politico, che è, istituzionalmente, quello della migliore conservazione dell’intero ordinamento giuridico di cui esso costituisce espressione.
La libertà che, come si è visto, deriva, secondo il Vangelo, dalla conoscenza del Cristo- Verità, deve invece intendersi, necessariamente , come funzionale ad un interesse del tutto diverso: quello, cioè, costituito dalla salvezza eterna di ciascun essere umano che a quella conoscenza sia pervenuto, a prescindere dal fatto che ciò sia stato per virtù propria o per grazia divina o per entrambe le cose insieme; problematica, quest’ultima, che è stata oggetto, fin dai primordi del cristianesimo, di accese ed a volte sanguinose dispute, ma sulla quale non è certo qui il caso di soffermarsi. La libertà consiste, quindi, essenzialmente, nell’essere messi in grado di resistere, grazie alla conoscenza del vero bene, alle suggestioni del male che possono condurre alla perdizione dell’anima; una conoscenza, quella anzidetta, da intendersi, tuttavia, non come puramente intellettiva, quale potrebbe essere quella dei precetti della morale comune o anche della stessa morale evangelica, ma (quasi nel senso carnale che ha la parola nella Bibbia), come una sorta di immedesimazione del fedele nella persona del Cristo e, quindi, nella Verità che in essa è incarnata.
Se questa è la differenza tra i due tipi di libertà, risulta allora chiaro come, essendo compito del potere politico soltanto quello di assicurare le migliori condizioni possibili per la civile convivenza, esso, per adempierlo, possa sì circoscrivere, in maggiore o minor misura, la sfera entro la quale ciascun cittadino è legittimato ad operare incondizionatamente le proprie scelte comportamentali, ma non possa, poi, pretendere di entrare anche in quella sfera, suggerendo o, addirittura, imponendo i giudizi e le valutazioni che, nell’ambito di essa, spettano, invece, solo al privato.
Ma è proprio una tale pretesa quella che, invece, viene ora sempre più portata avanti, con arroganza o subdolamente, a seconda dei casi, dal potere politico (a sua volta, succubo, peraltro, non di rado, dei più o meno occulti poteri di varia natura che operano a livello mondiale). Esso, infatti, soprattutto mediante la scuola ed i mezzi di comunicazione sociale direttamente o indirettamente controllati, tende ad imporsi come detentore unico di una “verità” alla quale il singolo deve, per il suo bene, prima ancora che per quello della società, ispirarsi in ogni sua azione ed anche in ogni suo pensiero. E la “verità” è quella costituita dall’insieme dei dogmi del “politicamente corretto”, rifiutando la quale ci si autocondanna all’emarginazione sociale e, quindi, all’infelicità. Si realizza, in tal modo, una sorta di divinizzazione del potere politico, dal momento che esso assume su di sè, in sostanza, nei confronti di ciascun individuo, in vista della sua felicità su questa terra, quella stessa funzione salvifica che, nella ben diversa prospettiva dell’eterna felicità nella vita ultraterrena, è propria, secondo il Vangelo, del Cristo-Verità. Con la non trascurabile differenza, però, che quest’ultimo non dispone, per adempiere a tale funzione, dei mezzi coercitivi di cui invece dispone il potere politico.
Ed è per questa via che si può, quindi, arrivare a ritenere che spetti allo Stato, in quanto possessore della “verità”, stabilire se, per qualcuno che si trovi in determinate condizioni, il suo “miglior interesse”, sia quello di vivere o di morire e decretare, quindi, nella seconda ipotesi, la sua condanna a morte. Il che – si ricorderà – è quanto avvenuto nei noti casi dei bambini inglesi ai quali, per ordine dei giudici ed in contrasto con la volontà dei genitori, è stato interrotto il sostegno fornito dagli apparati medici da cui dipendeva la loro sopravvivenza, sia pure in uno stato che, almeno all’apparenza, era di vita puramente ed irreversibilmente vegetativa. Un traguardo, questo, al quale non si sarebbe potuti giungere, sulla base di una motivazione come quella anzidetta, neppure nella Germania nazista.