«Era stimato per l’alta professionalità, il rigore e la conoscenza del problema mafioso nel territorio di Agrigento; era amato per la dolcezza del carattere, per un atteggiamento umile quasi timido e sempre rispettoso delle personalità altrui». Proponiamo di seguito il contributo tratto dall’intervento dell’Avv. Angelo Salvi, tenuto durante l’incontro del 10 ottobre 2025, con cui si è aperta la festa del volontariato organizzata nel quartiere romano di Montesacro e quest’anno dedicata alla figura del Beato Rosario Livatino.

Ringrazio l’Avv. Maurizio Dell’Unto e gli organizzatori per il cortese invito, saluto tutti i presenti e porto anche i saluti del dott. Domenico Airoma, Vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino, che è stato trattenuto in Procura e non potrà essere presente oggi.

Il Centro Studi Rosario Livatino, costituito nel 2015, è una associazione di giuristi che si ispira al modello di Rosario Livatino, magistrato e giurista cattolico, e che da questa prospettiva esamina i temi di attualità giuridica e sociale.

E’ sempre meritorio parlare di Rosario Livatino, noto con piacere che questa figura per tanto tempo rimasta ai margini del pantheon dei magistrati caduti per mano mafiosa ha via via acquisito maggiore popolarità e credito, suscitando interesse negli operatori di giustizia e nella gente comune, soprattutto dopo la canonizzazione avvenuta il 9 maggio 2021 e la riuscita mostra organizzata nel 2022 al Meeting per l’amicizia fra i popoli di Rimini dal Centro Studi Livatino e dalla LAF, di cui già si è parlato.

Molto è già stato detto dagli illustri relatori che mi hanno preceduto. Io voglio ora concentrarmi su pochi aspetti; uno meno noto, ma comunque richiamato nel testo del decreto sul martirio: «Il 29 ottobre 1988, a 35 anni di età, dopo aver seguito regolarmente il corso di preparazione, volle ricevere il sacramento della Confermazione»[1].

Mi è parso assai singolare che un ragazzo cattolico, educato da una famiglia cattolica e vissuto nell’entroterra siciliano negli anni ’80, avesse deciso di ricevere il sacramento della Confermazione in età piuttosto avanzata.

Ricostruendo la vicenda personale di Livatino, ho rinvenuto una possibile spiegazione in quella che uno dei pannelli della mostra del 2022 definisce la “notte oscura dell’anima”.

È Rosario Livatino stesso a parlare, attraverso gli appunti sulle sue agende, della sua esperienza di “notte oscura”; un lungo conflitto interiore che gli farà provare un’aridità totale.

Si tratta di un periodo nel quale – anche a seguito di alcuni processi di mafia che stava in quel periodo istruendo – Livatino matura probabilmente la consapevolezza che il piano di vita originariamente prefigurato per sé non si sarebbe mai realizzato e che la vita gli avrebbe imposto alcune pesanti rinunce. Rosario prende coscienza del fatto che la rettitudine morale ha un prezzo e quel prezzo è la solitudine.  

Questa condizione deve avergli provocato un serio turbamento d’animo, tensione e depressione. Stati d’animo che porteranno Livatino a isolarsi e lo faranno retrocedere anche dai propositi di matrimonio. Rosario comprende in quegli anni che la sua vita è in pericolo e non vuole esporre a tale pericolo le persone a lui care.

Ma, pur dentro questo profondo travaglio, continua con grande impegno la sua attività professionale. E, in questo lungo arco di tempo (due anni) continua ad andare a Messa, ma non si comunica.

Finalmente, nel 1986, la “notte oscura dell’anima” finisce e Rosario  accetta la possibilità  del “sacrificio”. Due anni dopo, il 29 ottobre 1988, riceve quindi la Confermazione nella sua parrocchia (il 29 ottobre è ora divenuto giorno della sua memoria liturgica).

Cosa voglio evidenziare richiamando questo passaggio complesso dell’esperienza livatiniana? Sostanzialmente due cose, una di carattere generale, da riferirsi a tutti, giuristi e non: anche la vita dei Santi – e quella di Livatino lo dimostra – spesso non è una linea retta, priva di curve, di dubbi e di incertezze. Questa considerazione deve essere un monito per tutti, anche per chi si professa oggi cattolico, credente e praticante. Il dono della fede non mai un qualcosa di definitivamente e irrevocabilmente acquisito, ma una virtù che va alimentata quotidianamente e conservata, secondo il verbo paolino: «ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede».

Combattere quotidianamente la buona battaglia non ci mette al riparo dalla “notte oscura dell’anima” ma sicuramente ci aiuta nel percorso che dovrebbe portarci a conservare la fede sino alla fine della nostra strada.

Il recente ripristino della festività nazionale del 4 ottobre è stato accompagnato dal richiamo ad alcuni tratti salienti della predicazione francescana e, in particolare, al verso che dice «predicate sempre il Vangelo, e se fosse necessario anche con le parole». Espressione, questa, pronunciata più volte anche dal compianto Papa Francesco[2].

Questo richiamo mi consente di introdurre la seconda parte della mia riflessione, quella più legata al nostro mondo di giuristi e concernente la testimonianza di Rosario Livatino.

E’ documentato, infatti, che anche nel suo periodo più “complicato” Livatino mantenne una condotta di vita, privata e professionale, inappuntabile.

Rispetto a quest’ultimo profilo, scrivono Ronco, Mantovano e Airoma nel loro volume dedicato al Beato Rosario: «passando dalle astratte disposizioni disciplinari alla carne e al sangue degli uomini, sono la vita e le opere di Livatino che appaiono ex se una sintesi deontologica: certamente più adeguata e più attuale di qualsiasi elenco teorico di comportamenti da seguire e di condotte da evitare, tanto più lungo e dettagliato quanto – come è accaduto – poi disatteso nella prassi»[3].

Oggi è già stata ricordata la grande produttività di Livatino, in termini di quantità e qualità. L’attenzione per la puntuale ricostruzione dei fatti – nonostante si trattasse spesso di indagini di mafia, molto complesse e condotte con gli strumenti “rudimentali” dell’epoca – denota come Livatino, memore degli insegnamenti ricevuti e della sua educazione cattolica, indirizzasse il suo giudizio sempre ai fatti e mai alle persone.

Anche la ricostruzione del quadro giurisprudenziale riferibile a ogni fattispecie è sempre curata nel dettaglio, nonostante questo comportasse un evidente dispendio di tempo e di energie. Per apprezzare appieno questo aspetto non dobbiamo immaginare la realtà attuale, ma quella dell’epoca: nei piccoli centri i magistrati potevano fare le loro ricerche giurisprudenziali attraverso un’unica postazione, collegata al CED della Corte di Cassazione, consultabile a turno con il supporto di un funzionario del Tribunale.

Altro aspetto significativo – stasera già richiamato – è l’attenzione di Livatino per il rispetto dei tempi: scorrendo uno per uno i provvedimenti da lui redatti, si vede come fra la data della decisione e la data del deposito del decreto o della sentenza trascorressero pochi giorni, pur non trattandosi quasi mai di pronunce semplici.

Il Prof. Giovanni Galloni, all’epoca Vicepresidente del CSM, così si esprime durante il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura del 26 settembre 1990 (il primo dopo l’omicidio di Livatino) «Il primo suo impegno con funzioni giurisdizionali fu subito, appena un anno dopo, alla Procura della Repubblica di Agrigento.

Nel parere espresso dal Consiglio giudiziario di Caltanissetta al momento del conferimento delle funzioni giurisdizionali sono individuate con precisione le caratteristiche di questo magistrato: lo spirito di attaccamento al dovere e la notevole preparazione giuridica. Si legge infatti: “è stato detto che trattasi di elemento attaccato visceralmente al proprio lavoro e dotato di spiccato senso del dovere che si concretizza in uno sforzo costante d’apprendimento dei dettami della delicata funzione che sarà chiamato ad assolvere”.

Queste caratteristiche sono confermate ed accentuate nel decennio successivo di appartenenza alla Procura della Repubblica di Agrigento.

La laboriosità è documentata dai dati statistici. Tra il 1984 e il 1988 è stato nella Procura della Repubblica di Agrigento il magistrato che ha definito più procedimenti, che ha formulato più richieste di rinvio a giudizio, che ha proposto più impugnazioni.

Ma è stato anche il magistrato più stimato, più rispettato, più amato del suo ufficio. Era stimato per l’alta professionalità, il rigore e la conoscenza del problema mafioso nel territorio di Agrigento; era amato per la dolcezza del carattere, per un atteggiamento umile quasi timido e sempre rispettoso delle personalità altrui».

Il rispetto profondo per il lavoro e per la funzionalità dell’ufficio – allora come oggi – era un fatto non consueto. Basti solo ricordare, a tal proposito, le parole che di recente ha pronunciato la Primo Presidente emerita della Corte Suprema di Cassazione, Margherita Cassano: «Sto cogliendo all’interno della magistratura, può darsi che sbagli, segnali di grandissimo disagio, segnali di grande criticità, e tendenze» a «interpretare in maniera sempre più burocratica, impiegatizia il proprio ruolo»; poi ancora: «sta passando anche l’idea che in un ideale bilanciamento tra le proprie aspettative individuali di vita come magistrato, e le aspettative della collettività, di coloro che ci chiedono giustizia, le prime debbano prevalere sulle seconde». Infine, il monito: «di fronte alle attese di un corpo sociale, di fronte ai drammi umani che ci sfilano quotidianamente davanti, non si può mettere sempre al primo posto la propria stanchezza», ma serve «forte motivazione ideale» per tener viva «la proiezione verso l’altro nella valorizzazione della sua dignità, della sua centralità nella vita di uno Stato democratico»[4].

Nel corso dell’o­razione funebre tenuta in occasione delle esequie del collega Elio Cucchia­ra il 12 settembre 1983 Rosario Livatino dice: «(…) vi sono tante forme di affrontare il difficile, a tratti terribile, lavoro di giu­dice. Vi è quella distaccata e fredda di chi vede nelle tavole processuali solo un infor­me mucchio di carte che bisogna semplicemen­te ordinare secondo certe regole e quella di chi scorge in esse invece i drammi umani che vi si celano e che è consapevole di quanto una decisione potrà lenirli o esasperarli; v’è quella di colui che chiudendo la porta del proprio ufficio alla fine della giornata di lavoro lascia dentro di esso tutti i problemi che nel suo corso vi ha incontrato e ritrova nel privato una parentesi di sollievo e quella di colui che invece si compenetra talmente in quei problemi che li soffre fino al punto da farli propri e portarli con sé ovunque viva, ma­cerandosi nel dubbio dell’errore ben oltre quel segno che il suo stretto dovere imporrebbe [omissis] La differenza fra queste due categorie, fra questi due modi di informare il proprio dovere (…) – labile sottile e abissale a un tempo – (è quella) che corre tra l’essere semplicemente operatori del diritto e l’essere Ope­ratori di Giustizia»[5].

Di Livatino ha detto, infine, l’On.le Andrea Orlando, intervenendo in qualità di Ministro della Giustizia al convegno “25 anni dopo Rosario Livatino: diritto, etica, fede” organizzato dal Centro Studi Livatino e tenutosi a Roma il 18 settembre 2015: «mi piace, in questa circostanza, ricordare il breve appunto con il quale il giovanissimo Rosario annotò con la penna rossa, sul suo diario, in bella evidenza, la data dell’ingresso in magistratura: “ho prestato giuramento – scrisse il 18 luglio 1978 –; da oggi sono in magistratura”. Si avverte – in questo riferimento al giuramento con cui si segna in maniera solenne una data decisiva per la propria biografia – una certa sacralità della quale riteneva quasi che fosse circondata la funzione giurisdizionale. Questa piccola annotazione personale contiene per intero il senso fermo e rigoroso dell’esercizio della professione nutrito dal neo-magistrato, aiutato in questo dalla fervente educazione religiosa ricevuta anzitutto in famiglia, oltre che dai suoi brillanti studi universitari. Livatino intendeva cioè la professione di magistrato secondo il senso che la parola conserva ancora in tedesco: Beruf, che significa “professione”, ma è insieme “vocazione”. E’ la libera fiducia che nel compimento del proprio dovere sia coinvolta anche una più grande missione, alla quale votarsi con tenacia, passione e completa abnegazione».

Vado allora, per concludere, al focus che per la giornata di oggi gli organizzatori hanno indicato: la cura, la dedizione e l’impegno con cui Rosario Livatino assolveva tutti i giorni al gravoso compito di decidere, rendono prova di quanto fosse consapevole dell’alta funzione che aveva assunto il giorno che aveva scelto di indossare la toga.

E’ stato scritto: «per secoli è prevalso un genere letterario che tende a lasciare da parte la risposta quotidiana dei Santi agli impulsi della grazia ed esalta invece le loro gesta eroiche, più atte a destare meraviglia che a suscitare il desiderio d’imitazione […]. Ma i Santi non si sono santificati con tale atto o tal altro atto eroico isolato, bensì per la fedeltà con cui hanno cercato di compiere ogni giorno la volontà di Dio nei piccoli doveri quotidiani. La santità consiste non tanto nel fare cose straordinarie, ma nel fare in modo straordinario le cose ordinarie della vita di ogni giorno»[6]. Rosario Livatino ha certamente fatto questo. Vi ringrazio


[1] V., in proposito, il sito del Dicastero delle Cause dei Santi: https://www.causesanti.va/it/santi-e-beati/rosario-angelo-livatino.html.

[2] Rimando, a titolo esemplificativo, al discorso rivolto ad Assisi ai giovani dell’Umbria il 27 settembre 2013: «Sapete che cosa ha detto Francesco una volta ai suoi fratelli? Predicate sempre il Vangelo, e se fosse necessario anche con le parole! Ma, come? Si può predicare il Vangelo senza le parole? Sì! Con la testimonianza! Prima la testimonianza, dopo le parole!» (https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2013/september/documents/papa-francesco_20130927_pellegrinaggio-catechisti.html).

[3] A. Mantovano, D. Airoma, M. Ronco, Un giudice come Dio comanda. Rosario Livatino, la toga e il martirio, Il timone, ottobre 2021, p. 68.

[4] Si rinvia al testo del discorso tenuto il 4 settembre 2025 in occasione della cerimonia di intitolazione a Valerio Onida dell’aula multimediale della Scuola Superiore della Magistratura di Villa Castelpulci, a Scandicci (notizia reperibile a seguente link: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2025/09/05/monito-di-cassano-no-ad-una-magistratura-burocratica-_bea1fd07-1454-4669-8855-a454884aa775.html).

[5] Sul tema si legga anche “Il ruolo del giudice in una società che cambia”, conferenza tenuta da Livatino al Rotary club di Canicattì il 7 aprile 1984: «Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ra­gioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il Giudice potrà ricevere ed assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque. Un Giudice sif­fatto è quello voluto dalla umanità di sempre».

[6] José Saraiva Martins, Come si fa un santo, Piemme, Casale Monferrato [AL] 2005.

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