Il capolavoro di Lucano, intitolato Bellum civile o Pharsalia (come lo stesso autore lo chiama nel testo), mostra il disastro e la rovina cui hanno portato le guerre intestine. Mentre Virgilio (e sulla sua scia successivamente Livio) esprime il sentimento collettivo dei Romani ritenendo che dopo le guerre civili Roma sembra nascere ad una nuova grandezza, nei versi di Lucano emerge invece un tono cupamente pessimistico. L’unica guerra che può essere considerata giusta è quella che è contraddistinta da una missione civilizzatrice. Non c’è missione civilizzatrice, non c’è progresso, invece, nelle guerre civili.
Lucano nacque a Cordova il 3 novembre del 39 d. C. da M. Anneo Mela, fratello minore di Seneca il filosofo, e da Acilia, figlia dell’oratore Acilio Lucano, da cui Marco ereditò il cognomen. Dopo qualche anno la famiglia si trasferì a Roma, dove Lucano venne educato, con risultati estremamente lusinghieri, da illustri precettori, tra i quali Q. Remmio Palemone, Virginio Flacco e soprattutto L. Anneo Cornuto, che annoverava tra i suoi discepoli anche Persio, il poeta satirico, al quale Lucano fu legato da profonda stima ed amicizia.
Da Anneo Cornuto prima e dallo zio Seneca poi il futuro poeta fu iniziato alla filosofia stoica, che in seguito influenzerà profondamente il suo pensiero. Spinto dal desiderio di allontanarsi dalla sua famiglia, stante un profondo disaccordo tra i genitori, compì il tradizionale viaggio di istruzione ad Atene per completare i suoi studi. Al periodo del soggiorno in Grecia risale, con ogni probabilità, la maggior parte dei suoi scritti minori[1], di cui ci restano — oltre a qualche scarso frammento — soltanto i titoli, grazie soprattutto alla biografia di Vacca[2].
Nel 60 d.C. Lucano fu richiamato a Roma da Nerone: l’imperatore, più anziano di appena due anni, colpito dal precoce e fervido ingegno del giovane cordovese, lo inserì nella sua cohors amicorum e lo fece questore, benché Lucano non avesse ancora l’età stabilita dalla legge per ricoprire un tale incarico. In occasione dei Neronia — gare quinquennali di poesia, eloquenza e musica — istituiti proprio in quell’anno, Lucano compose e recitò le Laudes Neronis, conseguendo la vittoria.
Tra il 61 e il 63 dette pubbliche recitazioni di una parte del Bellum civile, la sua opera più importante. A questi anni risale il violento contrasto con Nerone. Le fonti, a questo proposito, divergono: Vacca, apertamente favorevole a Lucano, afferma che la rottura tra i due fu provocata dall’imperatore, geloso del successo e delle capacità del giovane poeta, al punto da inibirgli la possibilità di versificare.
Svetonio, mai benevolo nei confronti di Lucano, sostiene invece che il dissidio fu suscitato dall’insofferenza del cordovese, il quale mal sopportò il fatto che Nerone, nel bel mezzo di una sua recitazione, avesse convocato il Senato «col solo scopo di fargli perdere il filo» [3] : in conseguenza di questo episodio Lucano aderì alla congiura di Pisone, anzi, a detta di Svetonio, ne divenne il più acceso fautore[4].
Nell’aprile del 65 il complotto fu sventato ed i congiurati arrestati. Alle biografie sinora utilizzate si aggiunge a questo punto la testimonianza di Tacito: secondo lo storico, allorquando Lucano fu sottoposto al primo interrogatorio, negò di aver aderito alla congiura. Successivamente, nell’illusione di poter salvare la vita, non solo confessò, ma indicò tra i colpevoli anche la madre Acilia . Resta comunque il fatto che Nerone non condannò Acilia.
Il 30 aprile del 65 d. C. Lucano ricevette l’ordine di suicidarsi: prima di morire raccomandò al padre di emendare alcuni suoi versi. Si tolse poi la vita, con gesto teatrale, aprendosi le vene o facendosele incidere da un medico e declamando, mentre il sangue fluiva, una sua composizione, in cui descriveva l’analoga morte per dissanguamento di un soldato ferito[5]
L’opera maggiore di Lucano, alla quale è indissolubilmente legata la sua fama, è il Bellum civile, chiamato anche comunemente Pharsalia, con riferimento ad un passo del poema stesso (IX, 985-6): venturi me teque legent: Pharsalia nostra / vivet et a nullo tenebris damnabimur aevo[6].
Il poema si compone di dieci libri: il decimo, più breve di tutti gli altri, si interrompe bruscamente durante la narrazione della sollevazione di Alessandria contro Cesare e rivela, senza ombra di dubbio, che l’opera è rimasta incompiuta, evidentemente per la morte prematura del poeta.
Il Bellum civile nasce come poema programmaticamente antitetico all’Eneide, sia dal punto di vista ideologico che da quello compositivo. Il poema epico, già presente nella letteratura latina sin da Nevio e da Ennio, aveva raggiunto la sua forma canonica nell’epos virgiliano. Fondamentale motivo ispiratore dell’Eneide era stata l’esaltazione della pax Romana e del principato augusteo, di cui il poema virgiliano costituisce la più efficace opera di propaganda.
Lucano si pone in un atteggiamento dichiaratamente polemico nei confronti dell’Eneide. Così all’elemento mitologico dell’epos virgiliano contrappone l’elemento storico, rifacendosi ai poemi di Nevio e di Ennio, fino al punto che il Bellum civile risulta essere una delle fonti principali per la ricostruzione puntuale del conflitto tra Cesare e Pompeo. All’esaltazione del principato Lucano contrappone l’esaltazione degli ideali repubblicani, incarnati nelle figure di Pompeo, di Bruto e, soprattutto, di Catone Uticense.
L’indirizzo filosofico, che informa il Bellum civile, è, almeno in apparenza, lo Stoicismo, al cui studio Lucano era stato avviato dal suo maestro Anneo Cornuto e dallo zio Seneca: Pompeo, Bruto, Catone sono vere e proprie incarnazioni non solo dell’opposizione antimperiale, ma anche dell’ideale stoico; anzi, è spesso questa univocità, questa rigidezza a renderli personaggi sì monolitici, ma, al contempo, non di rado addirittura privi di umanità. Ma lo stoicismo lucaneo non è certo un modello di ortodossia: nel Bellum civile è la Tύχη, e non certo il Λόγoς, l’indiscussa sovrana delle vicende umane.
Nessun ente provvidenziale regola più le cose degli uomini: un pessimismo totale prende il sopravvento ed ogni avvenimento è soggetto ai capricci della Fortuna. La visione sostanzialmente ottimistica della filosofia stoica svanisce in un mondo, dove le guerre civili imperversano e dove il diritto e la giustizia sono schiacciate dalla violenza prevaricatrice.
Descrizioni orripilanti, spaventosi scenari naturali, macabre apparizioni sono il risultato non solo del gusto asiano dell’età giulioclaudia, ma anche l’inevitabile conseguenza della visione totalmente negativa, che Lucano ha di un mondo ormai irrimediabilmente avviato verso un destino di morte e di annichilimento.
Lucano decide di porre al centro della riflessione propria e della corte neroniana, cui questa grandiosa saga era destinata, non una battaglia ma una guerra che aveva cambiato un’intera epoca. Una guerra, per così dire, totale che senza mezze misure il poeta definirà come funus mundi, «funerale del mondo intero».[7]
Con rara lucidità, infatti, l’autore avverte la portata di un evento che sembra aver mutato inevitabilmente le sorti di Roma, costituendosi come un rigidissimo spartiacque. Ma cosa doveva essere per Lucano una guerra giusta? Non vi è alcun dubbio che un’interpretazione rigorosa del nesso bellum iustum rinviava, ancora in piena fase repubblicana, alle mitiche origini di Roma, ad uno dei tanti atti fondativi di riti e tradizioni smarriti nel labile confine tra mito e leggenda. La guerra definita giusta era quella articolata secondo la sequenza scandita dall’antico rito dei feziali.[8]
Numerose testimonianze confermano la vitalità dello ius fetiale nel pensiero giuridico e nella prassi militare, benché, com’è facile aspettarsi, sia possibile rinvenire molti contesti bellici in cui esso viene disatteso. da Tullo Ostilio, questo rito prevedeva un rigido protocollo fondato sulla necessità di rendere legittimo ogni aspetto riguardante, in particolar maniera, l’indizione del conflitto.[9]
Lucano denuncia tutto il proprio sdegno per la guerra plus quam civile, che considera come un male universale, talmente grande – lo si è già detto – da sconvolgere il mondo intero, il suo ordine cosmico (Bella per Emathios plus quam civilia campos iusque datum sceleri canimus populumque potentem in sua victrici conversum viscera dextra cognatasque acies et rupto foedere regni certatum totis concussi viribus orbis in commune nefas infestisque obvia signis signa, pares aquilas et pila minantia pilis., I 1-7)[10]. E forse, verrebbe da pensare, la natura profonda di quell’essere plus quam, fuori cioè da ogni termine di confronto e paragone poggia anche su questo, sulla sua pervasività totalizzante.
Nessun territorio, nessun popolo, nulla può dirsi esente dalla contaminazione infestante che questo bellum plus quam civile ha recato. Tuttavia, le motivazioni lucanee si spingono oltre, mostrando anche sul piano del diritto l’inutilità, la nullità anzi del conflitto. La guerra civile non avrebbe dovuto esistere e non solo perché essa ha comportato l’assunzione di un modello rovinoso come il delitto del proprio congiunto, valido e proficuo per una tragedia ma non certo per una pagina della storia romana dalle lunghe ricadute, ma perché altre guerre avrebbero meritato d’esser condotte.
Virgilio (e sulla sua scia successivamente Livio) esprime il sentimento collettivo dei Romani ritenendo che dopo le guerre civili Roma sembra nascere ad una nuova grandezza. La guerra, la guerra giusta, rientra su un piano di costruzione di senso, fa parte di un progetto. Non così la guerra civile. Affermazione che conduce al discorso paradossale di pervenire al bellum civile come ultima risorsa solo dopo avere piegato ogni angolo del mondo alle leggi di Roma (vv. 20-23): Tunc, si tantus amor belli tibi, Roma, nefandi, totum sub Latias leges cum miseris orbem, in te verte manus, nondum tibi defuit hostis[11]
Di qui l’idea che i versi di Lucano manifestino al di là di ogni dubbio o convenzione di genere un pensiero politico, magari non del tutto maturo ma tuttavia significativo. Con lo spostamento dei fuochi che si è realizzato scegliendo di passare da un nemico esterno ad uno interno si è compiuto un evidente segno dell’imminente crollo di Roma: la città eterna avrebbe dovuto continuare a conquistare il mondo “espandendo” civiltà e invece crolla su sé stessa, combattendo guerre destinate a restare senza trionfi.
Bene ha fatto allora Catone, scegliendo la via della repubblica, tentando di mantenere le proprie mani pure dalle contaminazioni del bellum civile. [12]
Per gli altri, per il poeta in particolare, ciò che rimane è il lamento accorato, destinato a restare senza ascolto.
Daniele Onori
[1] Si ricordano anzitutto Iliacon (sc. libri), un’opera che aveva per argomento l’episodio della morte di Ettore, il riscatto del corpo dell’eroe troiano da parte del padre Priamo, l’incendio e la caduta di Troia. Di questo poema ci dà notizia anche Papinio Stazio , il quale specifica che esso fu composto teneris adhuc in annis.
[2] La vita di Marco Anneo Lucano ci è nota attraverso tre biografie antiche: la prima, appartenente al De viris illustribus di Svetonio, è costituita da una parte superstite del De poetis; la seconda, attribuita a un tal Vacca, risale molto probabilmente ai secoli V-VI; la terza, tràdita nel cod. Voss. lat. f. 63, comprende una serie di notizie spesso immaginose e perciò poco attendibili. Le due biografie principali forniscono dati nel complesso concordi sulla vita del poeta, sebbene il giudizio sul suo comportamento risulti divergente e, spesso, diametralmente antitetico.
[3] A. Rostagni, op. cit., p. 146; vita di Svetonio: si quidem aegre ferens (sc. Lucanus), quod Nero se recitante subito ac nulla nisi refrigerandi sui causa indicto senatu recessisset, neque verbis adversus principem neque factis excitantibus post haec temperavit.
[4] Vita di Svetonio: Ad extremum paene signifer Pisonianae coniurationis exstitit.
[5] Tac., Ann., XV, 70: Is (sc. Lucanus) profluente sanguine ubi frigescere pedes manusque et paulatim ab extremis cedere spiritum fervido adhuc et compote mentis Pectore intellegit, recordatus carmen a se compositum, quo volneratum militem per eius modi mortis imaginem obisse tradiderat, versus ipsos rettulit eaque illi suprema vox fuit.
[6] A. E. Housman (nella sua ediz. del poema lucaneo, Oxonii 1927 2 , comm. ad l.) ritiene, a ragione, che l’espressione Pharsalia nostra vada interpretata come «guerra da te (sc. Cesare) combattuta e da me cantata».
[7] All’interno del colloquio tra Bruto e Catone si parlerà invece di una mundi ruina (II 253), in cui ognuno agisce seguendo interessi personali (quemque suae rapiunt scelerata in proelia causae:/ hos polluta domus legesque in pace timendae, / hos ferro fugienda fames mundique ruinae / permiscenda fides, 251-254). Più in generale, sulle immagini di dissoluzione universale che campeggiano ossessivamente nella Pharsalia, si veda C. Salemme, Lucano: la storia verso la rovina, Napoli 2002, in special modo 9 ss. È tornato di recente a discutere delle problematiche connesse al dialogo tra Bruto e Catone F. Stok, Le passioni di Catone, in L. Landolfi – P. Monella (a cura di), Doctus Lucanus. Aspetti dell’erudizione nella Pharsalia di Lucano, Bologna 2007, 151-167.
[8] Contributi specifici sull’argomento sono: G. Dumézil, La religion romaine archaïque, Paris 19742, 106 ss.; J. Scheid, La religion des Romains, Paris 1998, 90 ss.; L. Loreto, Il ‘bellum iustum’ e i suoi equivoci, Napoli 2001; M. Sordi, Bellum iustum ac pium, in Ead. (a cura di), Guerra e diritto nel mondo greco e romano, Milano 2002, 3-11; A. Calore, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, Milano 2003, F. Zuccotti, Bellum iustum o del buon uso del diritto romano, «RDR» IV (2004), 1-63; Id. (a cura di), «Guerra giusta»? Le metamorfosi di un concetto antico, Milano 2003. Ampia trattazione adesso in F. Santangelo, The Fetials and their ius, «BICS» LVI (2008), 63-93. è adoperato in un contesto preciso (significativo il poliptoto iusta iuste) per indicare la guerra che viene condotta secondo regole consolidate.
[9] Si veda a titolo d’esempio un passo di Livio (XLII 47) riguardante un episodio della terza guerra macedonica, di cui sono protagonisti alcuni legati romani che, di ritorno dalla Macedonia, dichiararono di avere ingannato il re proponendogli una falsa tregua grazie alla quale l’esercito romano avrebbe avuto il tempo di riorganizzare l’esercito in vista dello scontro (decepto per indutias et spe pacis rege). Da notare in proposito il giudizio pesantemente moralistico di Livio, il quale disapprova il compiacimento complessivo del senato per la saggia decisione, segnalando le voci dissonanti di alcuni tra i membri più vecchi memori degli antichi costumi (vicit tamen ea pars senatus cui potior utilis quam honesti cura erat) e attribuendo tale abbrivio alla astuzie dei cartaginesi e dei greci, per i quali fallere hostem quam vi superare gloriosius fuerit. Del passo, come caso esemplare di mancato rispetto dello ius fetiale, si è occupata M. Sordi, Bellum iustum, cit.
[10] Trad: Cantiamo guerre più atroci di quelle civili 1 , combattute sui campi d’Emazia, e il delitto divenuto legalità e un popolo potente che si è rivolto contro le sue stesse viscere con la destra vittoriosa e i contrapposti eserciti appartenenti allo stesso sangue e — infranto il patto della tirannia — tutte le energie del mondo sconvolto che lottano per un comune misfatto e le insegne che vanno contro quelle avversarie e le aquile contrarie alle aquile e i giavellotti minacciosi contro i giavellotti.
[11] Trad: Allora, o Roma, se brami tanto una guerra empia — una volta che avrai sottomesso l’orbe intero alle leggi latine — rivolgi la mano contro te stessa: fino ad ora non ti sono mancati i nemici.
[12] Cfr. ad es. quanto affermato da Seneca in prov. II 10 a proposito della spada di Catone: ferrum istud, etiam civili bello purum et innoxium, bonas tandem ac nobiles edet operas. Sul “mito” del personaggio Catone nella letteratura della prima età imperiale utile tuttora P. Pecchiura, La figura di Catone Uticense nella letteratura latina, Torino 1965; si veda anche R. Goar, The legend of Cato Uticensis from the first century B.C. to the fifth century A.D., Bruxelles 1987. Sul passo del de providentia, molto analizzato dalla critica, è tornata di recente R. Degl’Innocenti Pierini, Dedalo, Catone e un’eco ovidiana (met. 8, 185 s.) in Seneca (prov. 2, 10), «Maia» Alfredo Casamento, Guerra giusta e guerra ingiusta nella Pharsalia di Lucano | 18