È fuori ogni dubbio che Apuleio avesse a disposizione una vasta cultura giuridica da sfruttare in chiave letteraria. Studente di grammatica, oratoria e filosofia a Cartagine e Atene, la sua professionalità come avvocato traspare nelle Metamorfosi. Infatti, gli avvenimenti autobiografici del processo a Sabrata per crimen magiae sono ripresi diverse volte all’interno delle Metamorfosi, offrendo al lettore riferimenti giuridico-legali che mirano a rendere evidente la (s)corretta applicazione di pratiche e procedure giuridiche, dimostrando da parte di Apuleio un interesse storico nei riguardi delle istituzioni giuridiche in sé o della conoscenza delle stesse da parte del Madaurense o da parte dei suoi lettori.
Di Apuleio, il personaggio latino più affascinante della seconda sofistica, non conosciamo esattamente il prenome: alcuni codici antichi attestano Lucius, ma poiché questo coincide col nome del protagonista dell’Asino d’oro, tale attribuzione è per lo meno sospetta. Del resto le circostanze della sua vita di cui siamo a conoscenza derivano quasi tutte da informazioni desunte dalle sue opere.
Nacque a Madauro, ai confini tra Numidia e Getulia, verso il 125 d.C., da una famiglia molto facoltosa, compì i suoi studi a Cartagine, si perfezionò ad Atene, dove frequentò le scuole di filosofia e venne a contatto con il platonismo, le correnti mistiche, l’aristotelismo, poi fece numerosi viaggi e fu sicuramente anche a Roma. Tornato in Africa esercitò con successo l’avvocatura.
Proprio in Africa ebbe un’avventura che sarà determinante per lo svolgimento della sua vita futura: conobbe cioè Pudentilla, la madre di Ponziano, suo compagno di studi, e la sposò, sia pure senza troppo entusiasmo, per le insistenze dell’amico, che voleva salvaguardare in tal modo il patrimonio da altri pretendenti. Morto l’amico Ponziano, egli fu accusato dai parenti della donna di averla sedotta con arti magiche per impadronirsi della sua ricca eredità e nel 158 a Sabrata gli fu intentato un processo per magia: l’accusa era molto grave e se fosse stato riconosciuto colpevole avrebbe anche potuto essere condannato a morte.
Egli si difese da solo con un’orazione a noi pervenuta dal titolo Apologia o De magia, in cui rigettava l’accusa, dimostrando l’ignoranza e la malafede dei suoi accusatori e impostando la sua difesa sulla distinzione tra magia e filosofia. Egli si considerava filosofo platonico, ma i suoi interessi per le pratiche mediche e la sua aspirazione verso il misticismo gli conserveranno a lungo la fama di mago. Trascorse gli anni rimanenti della sua vita a Cartagine, apprezzato avvocato e taumaturgo, e morì presumibilmente non oltre il 170 d.C.
Delle numerose opere da lui scritte o a lui attribuite ci restano: Apologia, Metamorfosi (o Asinus aureus: questo titolo potrebbe essere stato dato all’opera perché non venisse confusa con le celebri Metamorfosi di Ovidio. L’aggettivo aureus sembra essergli stato aggiunto da sant’Agostino, o per voler sottolineare la preziosità dell’opera stessa – racconto di una “conversione”, e quindi vicino alla sensibilità del grande convertito – o semplicemente in riferimento al colore del mantello dell’asino), Florida, De Platone et de eius dogmata, De deo Socratis, De mundo, Apulei platonici pro se de magia (è il titolo dell’orazione pronunciata da Apuleio in sua difesa).
In questa sede a titolo esemplificativo esamineremo un lessema particolarmente significativo: hercisco.[1]
Dopo aver affrontato varie avventure, Lucio si trova adesso al seguito dei sacerdoti della dea Siria e, giunto insieme a loro in una locanda, apprende la prima “storia” d’adulterio; egli decide di raccontarla al lettore presentandola come una lepida fabula[2] de adulterio. Questa novella, avente per protagonista un povero faber, presenta al lettore il tema del libro IX. La trama risulta semplice e l’esito della vicenda è positivo: la moglie consuma l’adulterio, si fa beffa del marito e la tresca non viene scoperta.
Più complessa, invece, la vicenda della moglie del mugnaio[3], che si sviluppa in tre sequenze narrative Lucio, venduto ad un mugnaio dopo l’arresto dei sacerdoti, una volta giunto al mulino per lavorare alla macina, si procura l’odio della moglie del mugnaio; perciò, curioso di scoprire il motivo di tanta avversione, decide di indagare sull’indole della donna e di spiarla, sfruttando la sua stessa natura d’asino che gli permette di assistere ai fatti senza destare alcun sospetto. Lucio scopre così che fa spesso visita alla donna un giovane, che però Lucio non può vedere a causa di un panno che gli veniva spesso tenuto sulla testa. Tuttavia, proprio la trasformazione in asino si rivela in quella circostanza favorevole, in quanto, grazie alle sue grosse orecchie, Lucio riesce almeno a captare ogni sussurro (parr. 15,3-6).
Proprio grazie a questo udito eccezionale Lucio raccoglie una conversazione tra la padrona e la vecchia: quest’ultima propone alla donna di sostituire il suo amante con un altro, più bello e audace (per convincerla la ruffiana, nel passo omesso, racconterà una storia che riguarda il giovane da lei sostenuto).
Una situazione paradossale, il racconto convince la moglie del mugnaio ad accettare il nuovo amante, che le viene portato dalla vecchia per un incontro amoroso una sera in cui il marito è assente (par. 22,5). I due hanno appena iniziato a cenare quando, però, il mugnaio rientra prima del previsto; a quel punto la donna fa frettolosamente nascondere il giovane amante in casa e si fa spiegare dal marito la ragione di un ritorno tanto anticipato. L’ironia apuleiana si fa qui particolarmente evidente: il marito è rientrato prima del previsto perché disgustato dall’aver appreso le nefandezze di una moglie corrotta.
Ovviamente la donna vuole saperne di più e così il mugnaio si accinge a raccontare il guaio capitato in casa altrui, ignaro di quelli che accadono in casa propri.
L’asino decide allora di intervenire e, calpestando le dita all’amante nascosto, lo costringe a svelarsi. Ma il marito non si scompone ed escogita per l’adultero una punizione davvero originale: costringe infatti il giovane a passare la notte con lui.
Entrando nello specifico è proprio il discorso del mugnaio che possiede un’ampia conoscenza giuridica per risolvere e capovolgere – almeno per il momento – la situazione nella quale è rimasto vittima.
met. 9, 27 sed plane cum uxore mea partiario tractabo. Nec herciscundae familiae sed communi dividundo formula dimicabo, ut sine ulla controversia vel dissensione tribus nobis in uno conveniat lectulo. [4]
Il discorso contiene infatti una grande quantità di termini giuridici (partiarius, tracto, formula herciscundae familiae – communi dividundo, dimico, controversia).
L’effetto umoristico è suscitato dallo scarto tra il livello culturale e la posizione sociale del protagonista della novella e il suo linguaggio, più adatto per un avvocato o magistrato. Ma non solo: la terminologia giuridica viene sfruttata (anche a scapito della correttezza e coerenza per quel che riguarda gli aspetti tecnici) per fare un gioco di parole particolarmente scabroso sull’accezione osceno di dividere.
Infatti nello sfoggio di vari termini giuridici, il mugnaio contrappone due istituti giuridici: la actio herciscundae familiae che implicava la divisione di un’eredità tra coheredes, e la actio communi dividundo, che consisteva nella divisione di beni posseduti in comune sciogliendo un rapporto di società. In questo scenario il mugnaio trova a sua disposizione come “bene divisibile” l’amante della moglie e afferma quindi di voler condividere con sua moglie ogni bene, in riferimento all’amante. La menzione della formula communi dividundo è dunque da interpretare in senso osceno. Dividere in tale senso è infatti già attestato in Plauto e in Petronio[5].
Nella metafora giuridica del mugnaio, l’amante va a costituire il bene posseduto in comune, in teoria “ereditato” dopo la morte del primo proprietario, che dovrebbe trovarsi nella persona della moglie. Il mugnaio non vuole realizzare questa metafora, ma opta invece per la formula communi dividundo, per il doppio senso sessuale, ma anche perché l’actio communi dividundo era adatta per la divisione di beni posseduti in comune al momento dello scioglimento di una società.
La società ipotetica a cui si riferisce sarebbe proprio il matrimonio, e infatti, dopo aver approfittato dell’amante, il mugnaio caccia via la moglie. Ma il racconto del mugnaio ancora non è finito, quando la storia prende una piega spaventosa in Met. 9, 29-30.
La moglie si rivela una strega e per vendicarsi manda al marito il fantasma di una donna morta ammazzata, e il mugnaio viene ritrovato impiccato.
Alla fine sarà proprio lui il defunto necessario per poter attuare la formula herciscundae familiae. [6]
Uno studio del romanzo apuleiano, dunque, non può prescindere dal considerare l’interazione tra tutti questi elementi; nello stesso tempo non deve mai perdere di vista lo scopo principale del testo stesso. Apuleio si avvale del linguaggio giuridico non per semplice pedanteria o per denunciare le ingiustizie del mondo provinciale, ma piuttosto per donarci il piacere delle sue ‘acrobazie’ linguistiche, come indica lui stesso nell’incipit: iam haec equidem ipsa vocis immutatio desultoriae scientiae stilo quem accessimus respondet; e avverte, poi, lector intende: laetaberis.[7]
Daniele Onori
[1] Nella quasi totalità delle sue attestazioni (h)ercisco si trova come gerundivo in varie iuncturae di tipo tecnico: actio/causa/formula (h)erciscundae familiae (patrimonii, rei familiaris, hereditatis), che indicano l’azione giuridica finalizzata a dividere una proprietà ereditata tra coheredes. In queste formule la prima parte della iunctura indica il patrimonio ereditario e il gerundivo si presenta con il suo normale valore di necessità al passivo di “che deve essere diviso, da dividersi”: cfr. ad esempio Cic. Caecin. 19 nomine heredis arbitrum familiae herciscundae postulavit; Cic. de orat. 1, 237 idcirco qui, quibus verbis erctum cieri oporteat, nesciat, idem herciscundae familiae causam agere non possit29; CIL XI, 1146 (Lex Rubr. 2, 55)30 de familia<> erceiscunda deividunda iudicium; Prob. litt. sing. gramm. IV 276, 61 F. E. familiae erciscundae; Apul. met. 9, 27 herciscundae familiae. In iunctura insolita in Apul. met. 6, 29 viae herciscundae.
[2] Il termine fabula designa non soltanto i racconti di carattere novellistico ma anche la performance teatrale (vd. ThLL s.v. 28, 20 ss.). È da notare, dunque, che notevoli sono i punti di contatto, dal punto di vista del lessico e della struttura, tra le fabulae del IX libro e il teatro (palliata e mimo). Sul tema cfr. May 2006, 10-15; Papaioannou 2002, 29-41
[3] Met. IX, 14-31. Anche in questo caso Boccaccio rielabora la novella apuleiana inserendo nel Decameron (V, 10) la novella di Pietro di Vinciolo narrata da Dioneo. Il racconto del Boccaccio comprende sia la vicenda del mugnaio sia quella del tintore (poiché lo sviluppo della prima vicenda dipende dalla seconda) ma la conclusione è ben diversa rispetto al modello: Pietro di Vinciolo non soltanto perdona la moglie ma giace con lei e con l’amante in un vero e proprio ménage à trois.
[4] Trad: «E intraprenderò un’azione legale, non per la separazione dei beni, ma piuttosto per un’equa divisione della proprietà comune, in modo che senza divergenze e senza contrasti noi tre possiamo venirci incontro su uno stesso… letto»:
[5] Plaut. Aul. 285 s. bellum et pudicum vero prostibulum popli / Post si quis vellet, te haud non velles dividi; Petron. 11, 4 Sic dividere cum fratre nolito e 79, 12 nunc et puerum dividamus
[6] E. Masu, Il linguaggio giuridico nelle Metamorfosi di Apuleio, Saggio di ricerca, 2015/016
[7] Trad: Del resto questa varietà del mio linguaggio ben si adatta alle storie bizzarre che ho deciso di raccontarti… Stammi a sentire, lettore, ti divertirai.