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Dopo l’intervento di ieri della d.ssa Perinu, in servizio alla Procura della Repubblica di Milano, proseguiamo oggi la riflessione critica sul c.d. processo “da remoto”, introdotto in sede di conversione in legge del decreto-legge n. 18/2020 c.d. Cura Italia. L’avv. Emanuele Fragasso, insigne penalista del Foro di Padova, ha autorizzato il Centro Studi Rosario Livatino a pubblicare sul proprio sito – con qualche minimo adattamento – il documento che egli ha inviato in data 21 aprile al Presidente della Camera Penale di Padova. Domani concluderà la serie Alfredo Mantovano. 

  1. Ho letto – con meraviglia, stupore e preoccupazione – le modifiche alle norme del codice di procedura penale, introdotte con i noti D.P.C.M., così formandomi la convinzione che essi vìolano sia le regole contenute nell’art. 77, co. 1 e 2 Cost. sui decreti del «Governo» e sui presupposti «di necessità e d’urgenza» (come sono stati definiti successivamente dalla Corte costituzionale), sia i cànoni del giusto processo penale, del diritto di difesa e dell’inviolabilità della libertà personale, stabiliti dalle ben note norme della Carta fondamentale.
    1.1. L’emergenza pandemica è stata trasformata in vero e proprio stato di eccezione, sebbene questo istituto – ben noto al diritto romano, soprattutto pre-imperiale – sia estraneo alle norme costituzionali italiane. L’attività giudiziaria penale è stata sospesa, con la contemporanea sospensione del decorso dei termini della custodia cautelare e della prescrizione del reato. È sovrano colui che può dichiarare lo stato di eccezione – scrisse Carl Schmitt – ed il P.C.M. lo ha fatto, ancorchè implicitamente ma contra legem, senza nemmeno rispettare la “competenza funzionale” del Presidente della Repubblica a emanare «i decreti aventi valore di legge» (giusta l’art. 87, co. 5 Cost.). Non ritengo, però, che la sospensione della giurisdizione rechi un vulnus letale allo Stato di diritto: il ditterio salus rei publicae suprema lex esto vale ancòra oggi e la sospensione dell’esercizio della giurisdizione (oltre che di molte altre attività) non ìmplica affatto alcuna anomia (come, invece, sostenuto da un filosofo del diritto). E ciò sanno tutti coloro che conoscono il diritto romano. Per di più, quest’ultimo esigeva un provvedimento formale del senato che è sì estraneo al nostro sistema costituzionale, ma aiuta a comprendere l’anomalia costituzionale dei D.P.C.M. Essi, inoltre, hanno congelato i termini suddetti, pur essendo gli imputati italiani innocenti della pandemia causata dalla “polmonite cinese”.
    1.2. Non v’è stata soltanto l’indebita “funzionalizzazione” della pur predicata a parole, inviolabilità della libertà personale degli imputati (presunti non colpevoli), in favore di non meglio individuate esigenze cautelari di tutela, forse, della collettività. A quella è stato aggiunto, in sede di conversione, il comma 12-bis dell’art. 83 del decreto legge n. 18 del 2020, che cancella in pochi, contorti righi, il rito processuale penale, l’unità di tempo, di luogo e di azione del giudizio penale. Invero il confinamento della difesa e il collegamento digitale contrastano i notissimi principî dell’oralità, dell’immutabilità del giudice (presente), dell’immediatezza della decisione etc. La notorietà di tutte le conseguenze del “processo a distanza” mi impone di fermarmi qui, allo scopo di manifestare alcune mie osservazioni, se pur a distanza.
    1.3. Non sappiamo se e quando si potrà ritornare alla vita sociale precedente e fisiologica. Infatti, la scienza non è ancòra in possesso delle conoscenze indispensabili per effettuare previsioni dotate, se non di certezza, quanto meno di elevata probabilità predittiva. Le singole discipline di ricerca sono compartimentate tra loro. Con l’ennesima prevalenza del riduzionismo sull’olismo, purtroppo. Ne consegue che non possiamo pronosticare seriamente la scadenza della pandemia e dei suoi pericoli per la salute di coloro che devono lavorare “in presenza” di altri esseri umani. Ciò significa che ciascuno di noi dovrà scegliere, una volta iniziata la cd. “fase 2”, come agire nel processo, stabilendo – responsabilmente – la tattica e la strategia processuale che riterrà conformi al giuramento prestato come Avvocato, oltre che alle regole costituzionali penali. Non faccio ulteriori riferimenti giuridici, perché appesantirei indebitamente questo intervento.

 

  1. Preferisco rivolgermi, piuttosto, ai «giovani», nonostante sia difficile delimitare con precisione questa fascia di età, particolarmente nei tempi di un diffuso “giovanilismo” che vorrebbe tutti giovani e sani, nel fisico, naturalmente, perché la mente non conta più, al pari del pensiero che essa produce. Permettetemi un riferimento personale: esso mi consentirà di esprimere ciò che penso, più brevemente e – spero – più chiaramente. Sono stato “giovane” anch’io e, in quel periodo, ho lavorato e studiato nel rispetto dei “vecchi” e – non stupitevi – anche dei “morti”. Gli avvocati con i capelli bianchi non venivano percepiti come inutili e “sorpassati”, ma erano sentiti e trattati – da tutti – come «esempi e modelli» di cultura, di arte oratoria e di metodo nella difesa penale. Devo anche a Loro l’entusiasmo per iniziare, il rigore per maturare e migliorare, la modestia per coltivare la capacità di riconoscere i miei errori.
    Vissi, dunque, le tappe della mia “giovinezza” di penalista, assolutamente immune dalla pseudo cultura del risentimento verso gli anziani, che oggi, invece, sembra diffondersi. I più frettolosi tra Voi potrebbero rispondermi: i “tempi” sono cambiati e con loro anche le “persone”. Ma, se posso giovarmi ancòra della Vostra pazienza, aggiungo una precisazione. Che il tempo corra e che non ci si bagni con la stessa acqua del medesimo fiume, già lo sappiamo sin da quando ci fu insegnato il pensiero di Eraclito, in prima liceo: tutto scorre, anche la giovinezza.
    La spiegazione non ce la offre il tempo che tutto modifica, ma il come si vuole vivere la professione di avvocato penalista: nella solitudine dell’eremita? Oppure insieme e dialetticamente contro altre persone, che, in ogni caso, hanno pari dignità, pure quelle che sono accusate di gravi crimini? Ritengo che il secondo corno del dilemma indichi la via che il penalista deve percorrere: vedere, ascoltare, “studiare” gli altri esseri umani che incarnano “i ruoli” stabiliti dalle norme processuali. Perché il giudizio penale (denominato “sacro cerchio” da Omero) è un’esperienza umana che è soltanto in parte disciplinata dalle norme ed in larga parte è governata dalle emozioni. Ecco il perché, da giovane, imparai molto dagli avvocati “vecchi”: perché li “studiavo” – con la mente ed i sensi – quando essi “agivano”, cioè per come parlavano o tacevano o abbozzavano un’espressione corporea. Tutto ciò poteva accadere – ecco il cuore del problema – poiché il processo penale rispettava, come nel passato remoto, le regole dell’unità di tempo, di luogo e di azione. Quanto ai “morti”, poi, ne apprendevo i pensieri scritti o i ricordi che venivano trasmessi dagli avvocati che li avevano conosciuti, visti o sentiti quando essi erano in vita. Così la tradizione si rinnovava. Ai saccenti sostenitori della supremazia e della sufficienza della tecnologia digitale, rispondo non con il mio debole pensiero, ma con alcuni versi di Little Gidding di Eliot:

    «E quello per cui i morti non trovano parole, da vivi,
    Ve lo possono dire da morti: essi comunicano
    Con lingue di fuoco al di là del linguaggio dei vivi.» 

    Non a caso, quindi, la libertà di manifestazione del pensiero, ex art. 21 Cost., è stata definita, successivamente, come il dialogo dei vivi con i vivi e dei vivi con i morti. Oggi – nel tempo della “polmonite cinese” – il piano ordito ed attuato dal PDCM e dal Ministero della Giustizia (che si avvale, tra i suoi volenterosi funzionarî, di “consulenti” che non sono avvocati, ma appartenenti ad un altro «ordine») mira a dividere, a rompere – proprio in modo demoniaco – questa comunicazione e, soprattutto, quello stare assieme che costituisce l’essenza del processo penale. Sciascia, come sempre geniale, comprese il significato profondo di questa caratteristica, giungendo ad estenderla ai brigatisti rossi che stavano a guardia di Aldo Moro, sequestrato, e che lo processavano: «in quella difficile, terribile familiarità quotidiana che inevitabilmente si stabilisce».
    Ovviamente, il pensiero – fluido e morbido assai – dei nostri governanti non conosce e non intende la intuizione espressa limpidamente da Sciascia e dissolve la familiarità quotidiana dei processi penali, separando il difensore – precettato a stare nel suo studio, a distanza giusta – ed applicando al “rito penale” gli idola della tecnologia. Con il risultato ulteriore che le comunicazioni durante le udienze penali saranno condizionate dall’affidabilità dello strumento informatico (della “piattaforma”, come dicono i caporali della milizia telematica) e dall’annuncio lanciato da Verdone: «c’ho solo dù tacche» (copy-right di Gian Domenico Caiazza).
    Alcuni potrebbero pensare che la migliore attitudine tecnologica dei “giovani” eliminerà i “vecchi avvocati” (simmetricamente a ciò che è accaduto per le migliaia di malati, transitati “a miglior vita” a causa della predetta polmonite). Gli aspiranti e festanti becchini stiano tranquilli: la morte viene per tutti.
    Quanto a Voi, giovani Avvocati penalisti, Vi rivolgo un sincero ed accorato appello. La sopravvivenza della Difesa penale è subordinata anche alla Vostra determinazione nell’opporVi alla moda telematica. Quest’ultima darebbe il colpo di grazia non soltanto ai “vecchi”, ma a tutti gli Avvocati, compresi Voi.    L’alternativa è la caduta nel dirupo dell’intero gregge, causata dalla fuga impaurita di poche pecore alle quali si accodano tutte le altre. Il giusto processo esige la contemporanea presenza, nello stesso luogo, del giudice, dell’accusatore, e del difensore e delle “fonti” di prova, che devono vedersi, sentirsi e controllarsi a vicenda, come si evince, tra l’altro, dalle regole dettate nella norma Cenerentola che garantisce la partecipazione del sordo o del muto ad atti del procedimento. E come si comprende dai silenti gesti del Comandante del Caine – impersonato dal bravissimo Bogart – durante il suo controesame da parte della difesa, dinanzi alla Corte marziale. Siamo proprio certi che sarà possibile vedere tutto e dappertutto, comprese le piccole biglie nevroticamente, ma con gesti minimi, maneggiate dal Comandante del Caine?
    Se, a breve o medio termine, questa condizione fosse impossibile, sarebbe illegittimo sostituire un’imitazione per difetto, rispetto al modello disegnato dalla Costituzione e dalle Convenzioni, pena – in tal caso – una fictio giuridica, basata esclusivamente sull’auctoritas del potere, anziché sulla veritas che deve generare il giudizio, dall’inizio alla fine. La sospensione dei termini di custodia cautelare e della prescrizione è tuttora vigente, nonostante il Parlamento, posto fuori gioco con la “fiducia”. Se fosse necessario, dunque, ritengo preferibile la proroga di quella sospensione, piuttosto che la farisaica finzione del compimento di un  giudizio che, in realtà, sarebbe il contrario di ciò che dovrebbe essere, a norma delle Convenzioni e della Costituzione. In questa direzione muoverò la mia attività difensiva, anche eccependo la illegittimità costituzionale delle norme in esame.                                   Ringrazio tutti Voi per la cortese attenzione e mi auguro che i valori giuridici e gli ideali – metodologici ed epistemologici – del giusto processo prevalgano sull’adulazione e sulla interessata amicizia verso il potere, da parte di alcuni. L’una e l’altra – ammonì Leopardi –  «non guadagnano altro se non di essere escluse dalla misericordia che le generazioni future porteranno all’età e generazioni loro.»  In alto i cuori e, più in alto ancòra, la ragione che è l’anima del diritto di difesa.

 

Emanuele Fragasso
Avvocato

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