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1. Tra le città italiane più disposte a investire in politiche giovanili non c’è Napoli. Il capoluogo partenopeo è agli ultimi posti della classifica, con una spesa di soli 40 centesimi pro capite; l’ultima è Venezia con 5 centesimi, la prima è Messina con una spesa di 9,43 euro. Il dato emerge da una ricerca di Openpolis che ha analizzato la spesa pro capite per cassa riportata nelle voci di bilancio dei Comuni italiani con più di 200 mila abitanti.

Secondo i dati della ricerca aggiornati al 2018, a Napoli, con i suoi circa 970 mila abitanti, la spesa per politiche giovanili è stata di poco più di 380.000 euro, pari, come dicevamo, a 40 centesimi pro capite. Poco se paragonata alla spesa di Torino, che conta circa 880.000 abitanti e nel 2018 ha investito oltre 2 milioni e 680.000 euro, cioè 3,04 euro pro capite, o a Milano dove, a fronte di quasi un milione e 400.000 abitanti sono stati spesi quasi 2 milioni e 900.000 euro (2,1 euro pro capite).

Tutto questo va inquadrato nella realtà napoletana dove uno dei problemi emergenti è quello della criminalità giovanile. Maria De Luzenberger, procuratore della Repubblica per i minorenni a Napoli, mette in evidenza gli effetti collaterali della pandemia causata dal Covid: «la nostra è una realtà veramente difficile e temo che questa pandemia abbia determinato, e determini ancora, una battuta di arresto, un arretramento di quello che si è fatto in questi anni». Ci sono distanze che rischiano di ridimensionare, se non addirittura annullare, i risultati degli sforzi compiuti per il recupero di minori a rischio. Il controllo, a causa delle distanze, diventa più difficile: «negli ultimi anni sono stati compiuti sforzi enormi, abbiamo fatto tavoli in Prefettura per affrontare il problema dei minorenni napoletani e c’è stata grande coesione tra varie istituzioni», spiega. Ma questa pandemia ha messo sullo sfondo nuovi problemi: «c’è un senso di incertezza che crea condizionamenti non solo negli adulti ma anche nei ragazzi, i quali vivono questo nuovo cupo senso di pericolo[1]».

2. È scomparsa troppo presto dalle cronache la storia di Luigi Caiafa, il diciassettenne ucciso in via Duomo da un colpo di pistola esploso da un poliziotto intervenuto nel corso di una rapina, poco meno di due mesi fa. I minori a rischio a Napoli sono tantissimi; non è un fenomeno nuovo nel territorio del napoletano, e tuttavia si è sempre più strutturato.

Sono distinguibili tre forme: una criminalità “fisiologica”, fatta di condotte devianti occasionali, prevalentemente motivate da finalità predatorie, spesso generate dalla condizione di tossicodipendenza; una criminalità “patologica”, che include sia i casi di affiliazione di minori a consorterie tradizionali di camorra, sia la formazione di nuovi gruppi giovanili, con i caratteri tipici dei sodalizi camorristici; una criminalità “epidemica”, che si distingue per l’operare in gruppo degli autori dei reati, anche se fuori dei contesti di criminalità organizzata con elevato tasso di violenza utilizzato nei confronti delle vittime, sproporzionato rispetto al movente, spesso per beni di modesto valore, persino degradante a mero pretesto (quando vengono evocati atteggiamenti – anche solo sguardi – asseritamente provocatori)[2].

L’aspetto distintivo della camorra, rispetto a differenti organizzazioni, sta nel cospicuo numero di persone (giovani, soprattutto) coinvolte a vario titolo in imprese criminali organizzate, oltre che nella pervasività del fenomeno, che copre tutti i settori d’attività e di reddito e tutto il territorio metropolitano. In tali situazioni territoriali, il delitto e la delinquenza sono diventati aspetti più o meno tradizioni della vita sociale, e queste tradizioni delinquenziali sono trasmesse attraverso contatti personali e di gruppo. All’interno del gruppo, l’adolescente acquisisce la “cultura” della devianza, cioè quell’insieme di norme, stili di vita, modelli di comportamento, livelli di comprensione della realtà che diventeranno il bagaglio di convinzioni e certezze che ne orienteranno l’agire sociale.

3. La devianza minorile a Napoli può essere meglio compresa a partire dalle cause o facilitazioni che lo hanno generato e che si distinguono in:

– ambientali, con un contesto metropolitano caratterizzato da progressiva disgregazione sociale (situazioni abitative e di vita, lavoro nero, degrado delle strutture scolastiche, distorsioni che caratterizzano l’Amministrazione Pubblica, carenza di sbocchi occupazionali);

– culturali, con degrado economico, sfacelo urbanistico, incapacità della politica territoriale di far funzionare la macchina istituzionale;

– economiche e politiche: anche in questo caso esiste l’incapacità di dirigere e controllare quel complesso di modificazioni avvenute nella pubblica amministrazione con riferimento all’aumento delle competenze degli Enti locali per i programmi d’intervento e di spesa pubblica. La presenza sul territorio di organizzazioni criminali con radicati agganci a livello amministrativo ha favorito il moltiplicarsi degli intrecci.

4. L’intervento educativo nei confronti dei questi ragazzi è una vera e propria sfida. Ci si trova di fronte a minori che hanno ricevuto una specifica “formazione” da parte della criminalità organizzata, che ha dato risposte soddisfacenti a molti dei loro bisogni. Nelle loro imprese delinquenziali essi hanno ricevuto e continuano a ricevere l’approvazione e l’appoggio di un ambiente, a cominciare dal contesto familiare. Di conseguenza i ragazzi di camorra non riconoscono il ruolo delle istituzioni di riferimento, con le quali instaurare una relazione significativa: si sentono già adulti, e comunque hanno altri riferimenti forti.

Hanno alle spalle – nella maggior parte dei casi – una famiglia che non collabora, o è apertamente ostile alle istituzioni. Studi clinici[3] mostrano come nelle sottoculture mafiose le forme di devianza sono facilmente condizionate da modelli antisociali. L’identificazione con modelli devianti e oppositivi creano una diversa percezione sociale delle leggi e delle regole, l’assimilazione di codici “etici” della subcultura di appartenenza, inducono a valutare come corretti dei comportamenti che la legge definisce crimini.

L’esperienza delle aule di giustizia dimostra che l’intervento che si realizza nei confronti del minore nel processo penale – per quanto il più possibile individualizzato, beneficiando del bagaglio informativo sulla personalità del minorenne e sulle sue risorse personali, familiari, sociali e ambientali, acquisite ex art. 9 D.P.R. 448/88 – spesso non sortisce effetti dissuasivi. Ciò in quanto il livello di radicamento in logiche di vita delinquenziali del contesto familiare e sociale di provenienza è talmente forte che, all’esito del processo e dell’intervento rieducativo in esso apprestato, il minore, rientrando in siffatto contesto, non trova le condizioni che gli consentano la ripresa o, addirittura, l’avvio di quel percorso formativo che dovrebbe caratterizzare l’età evolutiva.

5. In tale direzione si è mosso il Tribunale per i Minorenni adottando una serie di provvedimenti, volti ad allontanare i ragazzi dal contesto di appartenenza tutte le volte in cui è stato accertato che il metodo educativo mafioso poteva, nel caso concreto, arrecare un reale pregiudizio allo sviluppo psicofisico del minore. La strada percorsa è quella dei provvedimenti di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale quindi con affido del minore ai servizi sociali e con collocamento in comunità o in famiglie fuori dalla propria realtà territoriale[4].

Nel pieno rispetto dei diritti-doveri dei genitori occorre ribadire il principio cardine legittimante l’adozione delle richiamate misure: la famiglia mafiosa, agendo in spregio ai propri doveri di educazione e salvaguardia del minore, finisce per essere una “famiglia maltrattante”, nei cui confronti deve essere operata una vera e propria censura, nello stesso modo con cui si interviene nei confronti dei genitori che sono diversamente maltrattanti (alcolisti o tossicodipendenti).

Non va poi dimenticato il ruolo della scuola: l’educazione tout-court, valore incontestabile e onnicomprensivo delle più svariate sfaccettature. Si educa la volontà, la capacità di ascolto, il pensiero critico, si educa alla libertà, a saper gestire il conflitto, ai sentimenti, alla legalità, alla religiosità. L’attenzione della scuola, per questa via, coniuga il mondo dei saperi con la dimensione umana della persona dell’alunno, badando non soltanto che egli apprenda i contenuti disciplinari ma li sappia elaborare a livello critico trasformandoli in canoni esistenziali; occorre agire, cioè, al “di dentro” della sua personalità. Educare, non distruggere, un giovane “difficile”.

Daniele Onori


[1]Vedi: https://www.ilriformista.it/dopo-la-pandemia-la-criminalita-minorile-e-fuori-controllo-parla-la-procuratrice-luzenberger-166013/

[2] Vedi https://www.lastampa.it/topnews/tempi-moderni/2020/03/03/news/criminalita-m

[3] M. Grimoldi, Le caratteristiche psicologiche come causa efficiente della devianza minorile, in-o, 4, 2011, pag. 150 e ss.

[4] F. Vacca, La devianza criminale minorile la tutela dei figli di mafia tra diritto civile e penale: i rapporti tra i provvedimenti civilistici de potestate e la pena accessoria della decadenza dalla responsabilità genitoriale., in www.diritto.it

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