Dall’aborto al fine vita. Articolo di Alfredo Mantovano, pubblicato su Tempi Mensile del febbraio 2022.
A volte ritornano. Il mostro che riemerge in questa fine di legislatura è quello della legge n. 194, che dal 1978 ha reso ‘legale’ l’aborto a richiesta. Riemerge non all’inizio della vita – su quel fronte esso non è mai scomparso – bensì al termine dell’esistenza. Il testo unificato sull’eutanasia (d’ora in avanti t.u.), approvato in commissione, relatore l’on Bazoli, pervenuto a dicembre scorso nell’aula della Camera, altro non è che una 194 che, invece che al concepito, ha nel mirino l’ammalato, il disabile, l’anziano non autosufficiente. Della 194 il t.u. mutua la forma, la struttura, la dinamica, in taluni passaggi perfino la lettera.
La forma: come nessun articolo della 194 menziona l’aborto, pur rendendolo praticabile, dando spazio all’espressione ‘interruzione volontaria della gravidanza’, o più asetticamente ivg, così nel t.u. non troverete mai la parola ‘eutanasia’, bensì l’espressione ‘morte volontaria medicalmente assistita’, anche qui sincopata in mvma.
La struttura. L’art. 1 della 194 assicura ai suoi primi due commi che “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”, e che “L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite”. E all’art. 5 co. 1 mostra una presa in carico della gestante in difficoltà, allorché impone al consultorio “di esaminare con la donna (…) le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”. L’art. 2 co. 3 del t.u. prescrive al Servizio sanitario nazionale il “rispetto dei seguenti principi fondamentali: a) tutela della dignità e dell’autonomia del malato; b) tutela della qualità della vita fino al suo termine; c) adeguato sostegno sanitario, psicologico e socio-assistenziale alla persona malata e alla famiglia”.
Come i principi sanciti dal primo articolo della 194, alla segua di 44 anni di applicazione, non hanno avuto seguito, allo stesso modo accadrà per i principi sanciti dal secondo articolo del t.u. Resteranno fuffa per due ragioni: la prima è che in entrambi i casi gli interventi a sostegno sono privi di copertura finanziaria, e in tal modo restano delle declamazioni. Quale consultorio ha mai finora, in assenza di risorse mirate, aiutato durante la gravidanza e dopo il parto la gestante in difficoltà? E perché, a parità di disposizioni, cioè con zero investimenti, dovrebbe andare diversamente alla frontiera della fine dell’esistenza? La seconda ragione è che la procedura abortiva si è sempre esaurita, dopo la richiesta da parte della donna, nel rilascio da parte del medico, o del consultorio, del certificato per l’ivg., che da solo garantisce l’aborto.
La dinamica. Analogamente avviene nel t.u.: la norma chiave è qui l’art. 5 co. 8, secondo cui, nella remota eventualità che il medico cui sia presentata la richiesta di fine vita non ravvisi la sussistenza dei presupposti per cagionare la mvma, ovvero nell’altrettanto remota ipotesi che il Comitato per la valutazione clinica esprima parere contrario, comunque l’interessato possa adire, nel termine di sessanta giorni dal parere stesso, “il giudice territorialmente competente”. Il che vuol dire, come per l’aborto, riconoscere all’eutanasia connotato di diritto esigibile, quale logico effetto della formale previsione del ricorso al giudice ordinario, cui corrisponde il dovere del SSN di conferire la morte. Vuol dire anche sancire un pesante condizionamento per il medico e per il Comitato, poiché l’accoglimento del ricorso da parte del giudice, rendendo infondato il pregresso diniego, rappresenta titolo per un risarcimento dei danni da mvma non tempestivamente garantita.
La lettera. Provate a mettere a fianco la disciplina dell’obiezione di coscienza prevista dall’art. 9 della 194 e quella recata dall’art. 6 del t.u.: sono sovrapponibili, a conferma della riemersione del mostro, come prima si diceva, alla fine della vita.
La 194 proclama d’avvio che “L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite”; gli oltre 7 milioni di aborti ‘legali’ effettuati in Italia confermano nei decenni che quell’affermazione costituisce una excusatio non petita. Analogamente, l’insistenza che il t.u. pone sulla volontarietà e consapevolezza dell’atto di chiedere la fine della propria vita, unitamente ai richiami alla dignità e alla qualità del vivere, mascherano la chiusura del cerchio realizzata dalla legge sull’eutanasia. Quella, come ricordava profeticamente Lucien Israel, della “rottura del legame simbolico tra le generazioni. Figli, nipoti e, oramai, pronipoti, visto che stiamo per diventare una società a quattro generazioni, sapranno che ci si può sbarazzare dei vecchi. (…) Quando i ‘vecchi’ non serviranno più, che siano depressi o che ancora non abbiano trovato il reparto medico in grado di non farli soffrire, si deciderà che è tanto semplice, e persino più caritatevole, sbarazzarsene”.
Ecco, fra i ‘miglioramenti’ che l’eventuale seguito del lavoro parlamentare sul t.u. potrebbe aggiungere è un proclama del tipo “la morte volontaria medicalmente assistita, di cui alla presente legge, non è strumento per il controllo della spesa pubblica”. Perché invece sarà proprio questo.