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La Cassazione è tornata ad occuparsi di PAS-Sindrome di alienazione parentale, ribadendo che i provvedimenti che incidono sulla vita dei minori non possono fondarsi su teorie – quali appunto la PAS – prive di fondamento scientifico (cf. il commento all’ordinanza del Giudice di legittimità https://www.centrostudilivatino.it/cassazione-nuovo-stop-allalienazione-parentale/). È compito dei giudici valutare in modo critico le osservazioni dei consulenti tecnici, al fine di individuare in concreto la migliore soluzione possibile per il singolo minore coinvolto nel procedimento. Le valutazioni dei giudici devono basarsi sull’esame delle condotte dei genitori, non sul loro modo di essere.

1. Sono  trascorsi un paio di mesi dalla pubblicazione dell’ordinanza n. 9691/2022 con cui la Suprema Corte, in linea con pronunce relative a casi analoghi, ha confermato la necessità che i provvedimenti giudiziari in materia di minori non siano basati su teorie prive di fondamento scientifico. In particolare, la Cassazione ha fatto riferimento alla c.d. Sindrome di alienazione parentale, o genitoriale, meglio nota come PAS.

Per anni, in dottrina e in giurisprudenza, dentro e fuori le aule giudiziarie, si è discusso sulla validità scientifica di questa teoria, spesso richiamata dai consulenti tecnici d’ufficio per motivare l’allontanamento di un minore da uno dei due genitori, quello indicato come “alienante” e ritenuto “colpevole” del rifiuto manifestato dal figlio di incontrare l’altro genitore (il c.d. “alienato”).

Dagli anni 1980, da quando iniziò a diffondersi questa teoria ideata dal discusso psichiatra americano Richard Gardner, si sono formati veri e propri schieramenti: da una parte i sostenitori della PAS – fra cui alcune associazioni di padri separati ‒ che hanno posto l’attenzione sulla necessità di interventi a tutela della figura paterna contro atteggiamenti ostruzionistici di alcune madri, volti a limitare la presenza dei padri nella vita dei figli dopo la separazione; dall’altra i contrari – fra essi, associazioni a tutela delle donne vittime di violenza ‒ all’applicazione nei processi di una teoria priva di fondamento scientifico, e peraltro punitiva soprattutto delle donne, tanto che la PAS è stata anche talvolta tradotta come “sindrome della madre malevola”, mentre non si è parlato allo stesso modo di “sindrome del padre malevolo”.

2. Nella comunità scientifica, malgrado non siano mancati consulenti tecnici favorevoli all’applicazione di questa teoria, tanto da giustificare sulla base della stessa, come si è detto, numerosi allontanamenti di bambini da uno dei genitori, per lo più la madre, la PAS non è mai stata riconosciuta come malattia, e non è stata neppure inserita nell’ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5). Nel 2020 è intervenuta sulla questione l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha escluso la possibilità di inserire la PAS nell’elenco delle patologie riconosciute (ICD 11, International Classification of Diseases). Nello stesso anno, il Ministro della Salute italiano, rispondendo a una interrogazione parlamentare (n. 4-02405), ha osservato che la PAS “ad oggi non è riconosciuta come disturbo psicopatologico dalla grande maggioranza della comunità scientifica e legale internazionale […] Detta “sindrome” non risulta inserita in alcuna delle classificazioni in uso”.

La Cassazione già nel 2013 (sentenza n. 7041/2013) aveva manifestato contrarietà all’uso della PAS nei procedimenti di affidamento dei figli, sottolineando che la tutela dei minori impone il rifiuto di teorie prive del necessario supporto scientifico. Da ultimo, con l’ordinanza n. 9691/2022, ha confermato questo orientamento basato a ben vedere sul principio di precauzione: in assenza di evidenze scientifiche, bisogna evitare di esporre i minori ai rischi derivanti dall’applicazione di teorie potenzialmente pregiudizievoli. Ciò ha suscitato reazioni contrastanti, proprio in ragione di quella dicotomia cui si è fatto cenno: i contrari alla PAS hanno manifestato soddisfazione per questa ulteriore conferma, mentre i sostenitori della discussa teoria hanno espresso il timore che in tal modo non vengano condannati i comportamenti ostruzionistici posti in essere da alcuni genitori ai danni dei figli, con riferimento alla violazione del diritto alla bigenitorialità.

3. Si tratta di preoccupazioni comprensibili, in quanto se è vero che la PAS non esiste come patologia, è però altrettanto vero che esistono genitori i quali – mossi dal rancore, dal dolore della separazione, dal sentimento di rivalsa, da fragilità personali ecc. ‒ più o meno consapevolmente attuano condotte lesive per la sana crescita dei figli, screditando ad esempio l’altro genitore, oppure ostacolando le visite.

Tuttavia l’esclusione dell’utilizzabilità della PAS come teoria va proprio nella direzione di tutelare i minori in maniera più efficace. Non va infatti trascurato che tante volte il ricorso alla PAS è servito per screditare le donne vittima di violenza in famiglia e per far passare come infondate le loro richieste di limitazione delle visite dei figli con l’altro genitore o, ancora, come ritorsione nei confronti della controparte nei casi di alta conflittualità.

Il vero problema della PAS, dunque, sta nel fatto che con il tempo – proprio in ragione della sua mancanza di fondamento scientifico ‒ è diventato uno strumento di aggressione di un genitore verso l’altro, basato su illazioni relative al modo di essere del genitore indicato come “alienante”, piuttosto che su condotte concretamente pregiudizievoli per i figli.

4. La Cassazione, nel ribadire l’inutilizzabilità della PAS – e di tutte le altre teorie prive di fondamento scientifico ‒ nei procedimenti riguardanti i minori, ha dunque fatto chiarezza, ponendo l’attenzione su diversi aspetti concernenti i diritti dei minori e sulla loro effettiva tutela. Rifiutare la PAS come teoria non significa infatti rinunciare a condannare i comportamenti scorretti di taluni genitori, contrari all’interesse dei figli: significa semmai sgomberare il campo da elementi privi di valore probatorio, per dare risalto ai fatti e alla loro corretta valutazione, secondo le regole del processo.

La madre o il padre che ostacola gli incontri dei figli con l’altro genitore pone astrattamente in essere una condotta pregiudizievole per i minori, che per il loro sano ed equilibrato sviluppo psicofisico hanno il diritto di mantenere rapporti con entrambe le figure genitoriali. Tuttavia, qualsiasi decisione in merito deve basarsi sull’attenta valutazione del singolo caso concreto, tanto che la Cassazione ha precisato (da ultimo nell’ordinanza n. 9691/2022) che nel superiore interesse del minore può essere limitato anche il diritto alla bigenitorialità. Quando un minore rifiuta ad esempio di incontrare uno dei genitori, preferendo restare con l’altro, non si può automaticamente ricondurre detto rifiuto alla condotta del padre o della madre convivente: le ragioni possono essere tante ,e talvolta sono legate a inconsci meccanismi di protezione del figlio nei confronti del genitore percepito come più fragile. Elementi utili possono essere tratti dall’ascolto diretto del minore, laddove possibile.

5. I giudici sono chiamati a valutare i fatti: gli eventuali elementi offerti dalle consulenze tecniche, devono pertanto essere da loro recepiti in maniera critica. È questo un ulteriore aspetto, legato alla PAS ma non confinato a questa tematica, che riguarda il rapporto fra giudici e consulenti tecnici di ufficio. Non di rado, negli anni, è stato demandato a questi ultimi di pronunciarsi in ordine ad aspetti delle vicende familiari estranei alle loro specifiche competenze (si pensi ad esempio ai tempi di permanenza del minore presso ciascun genitore), così come non di rado sono confluite nelle sentenze le osservazioni dei consulenti tecnici senza un’adeguata valutazione critica da parte dei giudici.

Questo meccanismo ha portato a violazioni, anche gravi, dei diritti di bambini ed adolescenti, in quanto le decisioni assunte nei loro confronti, non essendo state il frutto di un’attenta valutazione dei fatti, quanto piuttosto la pedissequa adesione alle osservazioni peritali, non hanno realizzato pienamente il loro interesse e quindi non hanno attuato quella tutela che l’ordinamento ha l’obbligo di garantire ai minori.

Lo Stato, come affermato più volte dalla Corte EDU – che proprio per violazione dell’art. 8 della CEDU ha condannato in diverse occasioni l’Italia ‒ deve porre in essere tutte le misure necessarie per la costruzione o il mantenimento della relazione del minore con entrambe le figure genitoriali: l’autorità giudiziaria non può quindi limitarsi ad adottare passivamente provvedimenti “di prassi” ‒ come ad esempio le consulenze tecniche, il monitoraggio dei Servizi Sociali, il sostegno alla genitorialità ecc. ‒ dovendo piuttosto intervenire in maniera attiva e tempestiva al fine di salvaguardare i legami familiari del minore.

6. Il consulente tecnico – laddove sia chiamato a osservare le dinamiche relazionali dei componenti del nucleo familiare ‒ ha la funzione di fornire al giudice il relativo quadro clinico. Compete poi al giudice esaminare gli elementi della vicenda processuale e operare un bilanciamento fra i diversi diritti, al fine di individuare la soluzione migliore per il singolo minore coinvolto, nel rispetto di quanto previsto anche dall’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

È evidente che la realizzazione di questo obiettivo presuppone non solo il rispetto delle differenti competenze, bensì pure la collaborazione di tutti i soggetti del procedimento: genitori, avvocati, consulenti tecnici, giudici, assistenti sociali. Tutti sono infatti chiamati a cooperare alla realizzazione del concreto interesse del minore.

I genitori hanno innanzitutto il dovere di rappresentare i fatti in maniera veritiera, in modo da fornire al giudice un quadro di indagine chiaro: una rappresentazione alterata della situazione non può che determinare una soluzione inadeguata perché basata su presupposti errati. La realizzazione del superiore interesse del minore esige inoltre l’impegno dei difensori – auspicato per inciso dalla Cassazione nell’ordinanza n. 9691/2022 ‒ a limitare il conflitto fra le parti, presupponendo una loro adeguata formazione in materia di diritto di famiglia e capacità di mediazione.

A tal ultimo proposito, giova considerare che talvolta la conflittualità delle parti nelle separazioni o nelle regolamentazioni dei rapporti genitoriali viene alimentata da opinabili strategie difensive, che antepongono al superiore interesse del minore il raggiungimento dell’obiettivo indicato dal proprio cliente, senza tener conto degli effetti pregiudizievoli che questo può comportare per i figli.

Come è stato efficacemente messo in evidenza in un’ordinanza del Tribunale di Milano di qualche anno fa (cfr. 23 marzo 2016 – est. G. Buffone), «nel processo di famiglia, l’avvocato è difensore del padre o della madre ma certamente è anche difensore del minore. Qualunque sia la sua posizione processuale […] In altri termini, nella doverosa assistenza del padre o della madre, l’avvocato deve sempre anteporre l’interesse primario del minore e, in virtù di esso, arginare la micro-conflittualità genitoriale, scoraggiare litigi strumentali al mero scontro moglie-marito, proteggere il bambino dalle conseguenze dannose della lite».

7. Gli avvocati hanno dunque un ruolo fondamentale nella gestione del conflitto genitoriale, e certamente si pone in contrasto con gli obiettivi sopra indicati una strategia difensiva volta a screditare la controparte e a sminuirne in maniera infondata le capacità genitoriali. Altrettanto pregiudizievoli per i minori ‒ in quanto ostacolano il giudice nella corretta valutazione dei fatti ‒ sono le false accuse e le denunce strumentali, che peraltro determinano un problema per l’organizzazione della giustizia, e in quanto tali andrebbero sanzionate laddove accertate, anche al fine di scoraggiare il ricorso allo strumento penale laddove non necessario.

Gli avvocati nei procedimenti di famiglia – ricorda ancora il Tribunale di Milano nella citata ordinanza ‒ devono assumere «una posizione comune a difesa del bambino, non assecondando diverbi fondati su situazioni prive di concreta rilevanza» in quanto «il contratto di patrocinio stipulato con un genitore per assisterlo in un procedimento minorile in cui sono coinvolti i figli, di fatto perviene alla conclusione di un contratto “ad effetti protettivi verso terzi” ove terzi sono i figli, secondo il modello negoziale collaudato in settori affini, come quello sanitario».

Compete di conseguenza agli avvocati suggerire ai propri assistiti la correzione di certi atteggiamenti lesivi dei diritti dei minori, secondo le indicazioni della “Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori” elaborata nel 2018 dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, che mette in rilievo l’importanza di non coinvolgere la prole nei conflitti parentali: talvolta i genitori coinvolti nei giudizi sono talmente concentrati su se stessi o in preda alle emozioni che non si rendono neppure conto degli effetti di certe condotte e del pregiudizio che le stesse possono recare ai figli.

8. In conclusione, l’aver ribadito che i provvedimenti riguardanti i minori non possono basarsi su teorie prive di fondamento è stato anche un modo per richiamare tutti gli operatori del settore a collaborare con impegno per l’effettiva tutela dei diritti di bambini e adolescenti, valutando con attenzione e prudenza ogni aspetto delle diverse vicende, senza la possibilità di “etichettare” persone e situazioni in maniera semplicistica.

Come osservato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nella premessa alle “Linee Guida per una giustizia a misura di minore” adottate il 17 novembre 2010, «la giustizia dovrebbe essere amica dei minori. Non dovrebbe camminare davanti a loro, perché potrebbero non seguirla. Non dovrebbe camminare dietro di loro, perché i minori non dovrebbero avere la responsabilità di scegliere il cammino. La giustizia dovrebbe camminare al loro fianco ed essere loro amica».

Daniela Bianchini

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