Articolo di Pietro Dubolino, pubblicato sul quotidiano La Verità il 6 dicembre 2022.
“Non giudicate e non sarete giudicati. Non condannate e non sarete condannati. Perdonate e vi sarà perdonato”. Così si legge nel vangelo di Luca, cap. 6,37, e, con poche variazioni, in quello di Matteo, cap.7,1. Come conciliare questi precetti con il pur necessario esercizio della funzione giurisdizionale da parte dei soggetti che ad essa, in ogni ordinamento statuale, vengono preposti ? Ed è, questo, un interrogativo che non riguarda soltanto i giudici, ma anche tutti coloro che, in un modo o nell’altro, partecipano a quella funzione, ivi compresi gli organi dell’accusa e i difensori delle parti, dal momento che, come insegna un antico brocardo, “processus est actus trium personarum: actoris, rei, iudicis in iudicio contendentium” (il processo è un dibattito fra tre persone: attore, convenuto e giudice). Il che vale anche nel processo penale, in cui deve intendersi per “attore” il pubblico ministero e per “convenuto” l’imputato. Né può dimenticarsi, poi, che responsabile dell’instaurarsi del giudizio e dell’eventuale, successiva condanna, è in primo luogo colui che ricorre alla giustizia, civile o penale, per ottenere riparazione da un torto a lui subito ad opera di un altro; il che sembrerebbe in insanabile contrasto, oltre che con il precetto di perdonare, anche con quello di amare i propri nemici, che troviamo in Matteo, cap. 5,43, ed in Luca, cap. 6,27.
In realtà, andando per ordine, vi è però subito da dire che il divieto evangelico di giudicare e condannare non è mai stato ritenuto applicabile, fin dai primordi del cristianesimo, alla funzione giudiziaria esercitata dalle legittime autorità dello Stato. Già san Paolo, infatti, nella lettera ai Romani, cap. 13, ammoniva che “L’autorità è ministra di Dio per il tuo bene” e pertanto “deve punire chi opera il male”. Il divieto in questione, quindi, deve intendersi diretto soltanto ai singoli, essendo finalizzato, al pari di ogni altro consiglio o precetto evangelico, ad indicare a ciascun individuo la via per la propria salvezza eterna. Esso perciò comporta che il singolo non può mai ritenersi, in coscienza, autorizzato a sostituirsi alle legittime autorità dello Stato nel giudicare e condannare chi si sia reso responsabile di atti illeciti nel confronti suoi o di altri. Il che, peraltro, risulta in perfetta consonanza con le norme contenute nel codice penale italiano (artt. 392 e 393) che prevedono come reato (analogamente, del resto, a quanto avviene in molti altri paesi), l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, cioè l’impiego di minaccia o di violenza per farsi giustizia da sé medesimi, quando sarebbe possibile, per ottenere lo scopo, ricorrere al giudice. Ciò significa che, per converso, chi commette tale reato contravviene anche al vangelo.
Il divieto evangelico di giudicare e condannare ha, tuttavia, come oggetto principale, l’atteggiamento interiore da osservarsi nel valutare i comportamenti altrui. Esso impone quindi, in primo luogo, di astenersi dalla pretesa di conoscere ciò che per sua natura è inconoscibile, cioè le intime profondità dell’animo di colui dal quale quei comportamenti siano stati posti in essere. Illuminante, in proposito, appare il monito di sant’Agostino (discorso 61/a), secondo cui può giudicarsi solo di ciò che è manifesto, lasciando a Dio il giudizio su ciò che è nascosto. E ciò vale anche (e soprattutto) per quanti siano istituzionalmente preposti alla funzione di giudicare, i quali, pertanto, quando è richiesto dalla legge un giudizio sulla personalità degli accusati, debbono limitarsi solo a quanto sia desumibile, per comune esperienza, dalla materialità dei fatti ad essi addebitati.
Oltre al divieto di giudicare e condannare, però, come abbiamo, visto, vi è, nel Vangelo, anche il precetto di perdonare e di amare i propri nemici. L’osservanza di tale precetto, tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe, a prima vista, pensare, non è affatto incompatibile con la scelta, da parte di chi abbia subito un torto, di far ricorso alla giustizia, sempre che tale scelta non sia motivata da finalità di vendetta ma solo dall’intento di ottenere che il colpevole sia condannato alla giusta riparazione e, quando il fatto sia previsto dalla legge come reato, anche alla giusta pena, quale, fino a prova contraria, deve ritenersi quella prevista dalla legge. Il perdono, infatti, consiste essenzialmente nella rinuncia alla vendetta ed anche al desiderio della vendetta; non nella rinuncia alla giustizia, la quale verrebbe, anzi, ad essere offesa se colui che ha subito un torto consentisse al colpevole, solo per malintesa fedeltà al precetto evangelico, di farla franca, così incoraggiandolo, pur senza volerlo, a reiterare una condotta che, in quanto illecita, deve ritenersi, di norma, nociva agli interessi non solo dei singoli ma dell’intera collettività; principio, questo, a cui può farsi eccezione solo nel caso che la vittima dell’illecito nutra il ragionevole convincimento che il responsabile sia sinceramente pentito del malfatto e che si asterrà, quindi, dal ripeterlo. Quanto, poi, all’amore per il nemico, esso non può consistere nel “volergli bene”, cioè nel provare, per lui, un trasporto sentimentale che sarebbe del tutto contrario alla natura umana ed al comune buon senso, ma deve invece consistere nel “volere il suo bene”. E il suo vero bene, qualora egli abbia commesso un’ingiustizia, non può essere quello di rimanere impunito a goderne i frutti, perché ciò sarebbe facilmente di pregiudizio alla sua salvezza eterna che, in un’ottica cristiana, è da considerare il bene supremo. Il suo vero bene richiede invece che egli, anche mediante l’inflizione della giusta pena, sia indotto a pentirsi del suo operato ed a proporsi di non più ripeterlo. Ed ecco quindi che il precetto evangelico viene a trovarsi, anche stavolta, in consonanza con la legge dello Stato, rappresentata, in questo caso, dall’art. 27 della Costituzione in cui (quale che sia l’interpretazione che se ne voglia dare) è stabilito che la pena deve “tendere alla rieducazione del condannato”.