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Stanno facendo discutere le sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 17 e n. 18 del 9 novembre 2021, in tema di concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative (spiagge, stabilimenti balneari, ma non solo). Taluni operatori del settore e taluni esponenti politici hanno evocato “diktat di Bruxelles”, “turismo in balia dei giudici”, e qualcuno ha addirittura parlato di “una sentenza da quarto mondo”. Si tratta veramente di pronunce abnormi, così rivoluzionarie? Davvero sono stati affermati principi inediti e inauditi? L’articolo che segue, costituente l’anticipazione di un più esteso contributo dello stesso Autore, che sarà pubblicato sul numero 2/2021 della rivista L-Jus, spiega perché non è così.

1.- I principi affermati. Quali principi ha affermato l’Ad. Plen. esercitando la sua funzione nomofilattica?

  1. Le leggi che hanno disposto, e che in futuro dovessero ancora disporre, la proroga automatica delle concessioni sono in contrasto con il diritto UE, in particolare con l’art. 49 e 56 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, e pertanto, non vanno applicate né dai giudici né dalla PA.
  2. A seguito della disapplicazione di queste leggi, gli atti di proroga già rilasciati dalla PA devono sempre ritenersi inefficaci, e dunque non attribuire alcun diritto alla prosecuzione del rapporto in capo ai concessionari.
  3. Tuttavia le concessioni già in essere continuano a essere efficaci fino al 31 dicembre 2023, allo scopo di scongiurare conseguenze socio-economiche pregiudizievoli, e tenuto conto dei tempi tecnici necessari alle PA per predisporre gli atti di gara, nonché «nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea». In ogni caso, decorso il 31/12/2023, le concessioni cesseranno di produrre effetti pur se non saranno state espletate le gare e se non sarà intervenuta una disciplina legislativa compiuta o, peggio, pur se vi saranno eventuali ulteriori proroghe legislative;: esse andrebbero considerate senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento UE.

In questo modo, l’Ad. Plen. ha risolto – forse – una vicenda tutta italiana.

2. Lo status quo. Nel nostro Paese da decenni privati concessionari hanno a disposizione un complesso di beni demaniali che, valutati unitariamente e complessivamente, costituiscono «uno dei patrimoni naturalistici più rinomati e attrattivi (e redditizi) del mondo». Quasi il 50% delle coste sabbiose è occupato da stabilimenti balneari, con picchi che in alcune Regioni arrivano quasi al 70%. Il giro d’affari stimato del settore è di 15 miliardi di € all’anno, a fronte dei quali però il proprietario di quelle spiagge, cioè tutti i cittadini italiani attraverso l’Erario, si vede riconosciuti canoni di concessione per poco più di 100 milioni di euro, che nemmeno incassa integralmente. Infatti, 21.581 delle 26.689 concessioni demaniali balneari pagano un canone medio di soli € 2.500 annui: la media è di poco superiore, € 3.700 l’anno, e la cosa si commenta da sè.

Ora, nonostante i trattati comunitari cui l’Italia ha aderito a partire dal 1957 vietino le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’UE, e nonostante nel 2006, 15 anni fa, sia entrata in vigore la direttiva 2006/123/CE, che impone procedure di evidenza pubblica e una durata limitata per queste concessioni, vietando espressamente rinnovi automatici e altri vantaggi, il legislatore italiano ha finora consolidato il regime di oligopolio, procedendo di proroga in proroga automatica delle concessioni già esistenti. L’ultima, con l’art. 1, commi 682 e 683, della legge n. 145/2018 ha disposto l’ulteriore proroga fino al 31/12/2033.

Una normativa volta a garantire la compatibilità con l’ordinamento europeo è stata sempre annunciata, anche per fare fronte alle procedure di infrazione nel frattempo aperte dalla Commissione europea, la prima nel 2008, l’ultima a dicembre 2020, ma non è mai intervenuta. A intervenire, invece, sono state più volte la Corte Costituzionale, e anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sempre per dichiarare illegittime le proroghe senza gara, e ribadire il principio della necessità di procedure di evidenza pubblica.

3. Una sentenza “da quarto mondo”? La questione è così finita all’Ad. Plen., la quale ha sancito che la legge italiana è incompatibile che con l’art. 49 e 56 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, e pertanto va disapplicata in favore della normativa comunitaria, non solo da parte dei giudici, bensì pure della PA, con la conseguenza che gli atti di proroga già rilasciati saranno privi di effetti. Si tratta dell’ennesima sottomissione ai “diktat dei burocrati di Bruxelles” in favore dei “soliti potentati economici” che vogliono annichilire l’impresa italiana?

In realtà, quanto affermato dall’Ad. Plen. non si discosta da quanto viene insegnato alle matricole di ogni facoltà di giurisprudenza da mezzo secolo: la norma interna contrastante con una norma comunitaria provvista di efficacia diretta non può essere applicata, ovvero deve essere disapplicata, con la conseguenza che il rapporto resta disciplinato dalla sola norma comunitaria.Quanto al principio per il quale non solo i giudici ma tutti gli organi dell’amministrazione sono tenuti ad applicare le fonti UE self-executing disapplicando le norme nazionali, anch’esso è stato affermato ben 32 anni fa (dalla Corte di giustizia con la Sentenza Fratelli Costanzo vs. Milano, 22 giugno 1989, C 103/88, e dalla Sentenza 389/1989 della Corte Costituzionale, alle quali si è poi allineato il Consiglio di Stato sin dalla Sentenza 452/1991). Non è ben chiaro che cosa si intenda per “quarto mondo”, quando ci si riferisce alla pronuncia dell’Ad. Plen., ma è un mondo abbastanza avanti con gli anni e tutt’altro che sconosciuto o inesplorato. È poi ben singolare che da un lato non si eccepisca sulla condanna del Parlamento europeo nei confronti della Polonia, per la sua resistenza a norme europee che non costituiscono applicazione dei Trattati e configgono con la Costituzione nazionale, e dall’altro ci si inalberi per un conclamato contrasto con disposizioni europee di diretta applicazione negli ordinamenti nazionali.

4.- La eccentrica proroga al 31.12.2023. Formale e stringente logica giuridica avrebbe voluto che la faccenda finisse lì, ovvero con la conseguente cessazione di tutti i rapporti concessori in atto. Invece, l’Ad. Plen. ha stabilito che le concessioni demaniali già in essere continuano a essere efficaci sino al 31/12/2023, lasciando spazio a valutazioni tutt’altro che giuridiche. È questo il punto realmente problematico delle pronunce dell’Ad. Plen., sia perché è discutibile una deroga alla retroattività modulando gli effetti temporali della propria decisione, sia perché fa emergere una incoerenza fra la censura della proroga automatica e generalizzata ex lege e la decisione di una proroga automatica e generalizzata al 31/12/2023 per sentenza, senza peraltro individuare il criterio di determinazione dell’intervallo temporale.

5.- I criteri per le gare. Da ultimo, l’Ad. Plen. evidenzia che il diritto UE fornisce i criteri per le gare e li enuncia: niente meccanismi di preferenza automatica per i concessionari uscenti, che di fatto precludano l’effettivo accesso a nuovi operatori, durata limitata delle concessioni, canoni che riflettano il reale valore economico e turistico del bene affidato. L’Alto consesso afferma, poi, che nelle procedure competitive potrà essere previsto il riconoscimento di un indennizzo in favore dei concessionari uscenti, finalizzato a tutelare l’affidamento degli stessi e ammortizzare gli investimenti da loro effettuati.

6.- Qualche considerazione. Sul piano strettamente giuridico pare improprio accusare, nel caso di specie, il massimo organo della giustizia amministrativa di aver svolto una funzione creativa: come si è detto, i giudici dell’Ad. Plen. hanno semplicemente ribadito il primato del diritto europeo derivante dall’adesione dello Stato italiano ai Trattati liberamente sottoscritti e richiamato noti e consolidati precedenti della Corte di Giustizia e dalla Corte Costituzionale; e se mai hanno ecceduto solo nel voler svolgere con l’ennesima dilazione una funzione propriamente politica. Postergare l’efficacia di una pronuncia giudiziale, derogando a quella retroattività che davvero assicura certezza del diritto, con le ragioni espresse (evitare conseguenze socio-economiche, attendere il legislatore, dare tempo alla PA), altro non è infatti se non esercizio di piena discrezionalità politica. L’Ad. Plen. avrebbe dovuto lasciare alla sfera della politica la responsabilità e l’onere di affrontare e risolvere le sciagure da essa stessa provocate.

A venire in discussione non sono la bontà e la fondatezza o meno delle intenzioni e delle ragioni espresse dal giudice: è, more solito, la questione se il giudice debba o possa farsi carico delle conseguenze socio-politiche delle sue decisioni entrando nel merito delle stesse. Senza trascurare a indurre il giudiziario ad occuparsi delle conseguenze socio-politiche delle proprie decisioni, ovvero di un ambito che non gli compete, è più che per altre vicende proprio il “Politico”.

Per la verità nei 15 anni trascorsi dall’approvazione della Direttiva 123/2006 il legislatore non è rimasto indifferente e/o inerte, anzi è stato attivo nell’aggirare la direttiva e i Trattati, oltre che principi di libera iniziativa economica e di ragionevolezza affermati anche dalla nostra Costituzione. Sotto altra prospettiva, se il legislatore italiano, a differenza di quanto fatto in altri settori (ad es. le professioni) non avesse cercato di saltare il diritto UE per assecondare le rivendicazioni particolari di una parte – piccola ma ben rappresentata, del proprio bacino elettorale, per giunta con un congegno normativo precario e destinato prima o poi a soccombere, le conseguenze della applicazione del diritto UE sarebbero state di gran lunga ridotte: oggi si sarebbe da tempo in presenza di rapporti concessori stabili, con investimenti correttamente pianificati e certamente ammortizzati.

Del resto, è quanto accaduto in altri Stati membri, come la Spagna, la Francia e persino la Grecia,  che hanno per tempo adeguato le discipline interne rendendole conformi alla direttiva servizi, ovvero prevedendo procedure di selezione che garantiscono imparzialità e trasparenza, con la conseguenza che oggi i loro concessionari godono di una quadro stabile e consolidato. Se in Italia non è così, la colpa per una volta non è del diritto UE, ma di quella parte del mondo dell’impresa balneare e della politica italiana che per 15 anni si è rifiutata di guardare l’ordinamento complessivo, pensando di superare l’ostacolo con la sola della forza legge italiana.

7.- Un favore alle multinazionali e alle mafie? Nè paiono cogliere nel segno gli argomenti che paventano come le pronunce dell’Ad. Plen. spianerebbero la strada alle “multinazionali straniere” e alle “mafie”, le une e le altre ormai immancabilmente scomodate a prescindere nel discorso pubblico.

Con riferimento alle prime, posto che anche le imprese estere sono portatrici di capacità finanziarie ed economiche, tecniche e professionali, il tema cruciale è, semmai, valutare queste capacità, ovvero cercare un equilibrio, in sede legislativa e di lex specialis, che da una parte impedisca che il patrimonio costiero italiano rimanga nelle mani di pochi e in condizioni di privilegio, e dall’altra non ne faccia oggetto di svendita. Ma non è ammissibile sostenere che per evitare l’ingresso di investitori stranieri sgraditi debba perpetuarsi lo status quo.

Con riferimento al paventato rischio di infiltrazioni criminali nelle gare da svolgersi vanno fatte due considerazioni. La prima è che il settore, purtroppo, al pari di altri, già oggi non ne è certo esente, anzi. E’ un dato acquisito da tempo l’interesse della criminalità organizzata per spiagge e i litorali dovuto al ricchissimo business che esse generano ed alla facilità di riciclare denaro di provenienza illecita, anche grazie agli irrisori costi delle concessioni demaniali. Applicando le regole del mercato, della concorrenza e dell’evidenza pubblica non si aggiunge certo nulla sotto questo profilo. Anzi, potrebbe essere il contrario. La seconda osservazione da farsi, infatti, concerne la efficacia di tutto l’armamentario legislativo e amministrativo di verifiche e interdittive antimafia, protocolli di legalità, e via discorrendo: chi sostiene che le gare pubbliche favorirebbe la criminalità organizzata, vuol forse confessare l’inefficacia di questa strumentazione amministrativa? O dimentica l’esistenza di questi strumenti posti, nell’intenzione del legislatore, a presidio della legalità e della lotta al crimine?

Dopo queste pronunce risulta ancor più agevole predisporre con rapidità una disciplina legislativa conforme al diritto UE: la sua necessità e urgenza legittimerebbero anche il ricorso allo strumento del decreto legge. Inoltre, nulla vieta ai Comuni italiani di avviare già gli approfondimenti e gli iter necessari per svolgere le procedure di gara con i criteri di bilanciamento derivati dal diritto UE ed enunciati dall’Ad. Plen. Se davvero il “Politico” ha a cuore le sorti dei 26.689 concessionari e del relativo indotto, dovrebbe probabilmente occuparsi di questo piuttosto che abbaiare alla luna.

Francesco Cavallo

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