1. I risultati preliminari del referendum svoltosi qualche settimana fa in Nuova Zelanda sull’End of Life Choice Act sembrano confermare la vittoria del “sì” alla nuova legge favorevole per la scelta eutanasica. Il 65,2% degli elettori, infatti, ha sostenuto l’entrata in vigore della nuova legge, mentre il 33,8% avrebbe espresso un voto contrario. Anche se manca ancora lo spoglio di circa 480.000 voti speciali, il margine delle preferenze affermative espresse pare così grande da escludere la possibilità di ribaltamento. Alla luce di ciò l’End of Life Choice Act (Eolc) entrerà defintivamente in vigore il 6 novembre 2021: la Nuova Zelanda sarà così il settimo Paese al mondo a regolarizzare l’opzione eutanasica attiva dopo Olanda, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, Canada e Colombia.
L’eutanasia è stata finora illegale in Nuova Zelanda, come è illegale “aiutare e favorire il suicidio” ai sensi del New Zealand Crimes Act del 1961. In due precedenti occasioni i tentativi di legalizzare l’eutanasia nel Paese erano falliti: la proposta di legge sulla morte con dignità del 1995 (61 voti contrari e 29 a favore) e una successiva, quasi identica, proposta nel 2003 (60 contrari e 58 a favore). Una volta entrata in vigore, la legge renderà possibile l’accesso all’eutanasia per le persone maggiorenni, affette da malattia terminale o con prognosi pari o inferiore a sei mesi di vita, che si trovano in uno stato avanzato di declino irreversibile, sperimentando – afferma espressamente il testo – «una sofferenza insopportabile che non può essere alleviata in un modo che il malato considera tollerabile». Ovviamente, oltre alle restrizioni indicate, nel testo ne figurano delle altre: la condizione di disabilità, anche psichica, del candidato; il consenso espresso anticipatamente rispetto alla pratica; la possibilità per i medici di suggerirla ai pazienti.
È significativo che il testo della legge, come formulato, non contempli un obbligo per le istituzioni sanitarie di garantire i servizi di morte assistita. Tuttavia, una recente sentenza dell’Alta Corte neozelandese ha statuito che, sebbene le singole istituzioni ospedaliere possano scegliere di non fornire tali servizi, i medici saranno comunque tenuti ad adempiere ai loro obblighi ai sensi della legge, e dunque dovranno sempre essere messi in condizione di provvedere all’erogazione di detti servizi dalla struttura sanitaria di riferimento. Il testo della legge prevede, inoltre, l’istituzione di un Comitato di revisione sul fine vita, composto da un esperto di etica e da due operatori sanitari – uno dei quali esperto in materia di pratiche di fine vita -, chiamato a svolgere un ruolo fondamentale nel monitoraggio e nel reporting sul rispetto della legge. Riceverà, altresì, ed inoltrerà agli organi competenti tutti reclami relativi alla corretta applicazione della norma stessa.
2. Viviamo in una società “malata”, che non sa più praticare forme di prossimità responsabile e di dedizione empatica all’altro, divenuta “inesperta in umanità”, con ricadute sulla qualità dei rapporti interpersonali, la cui precarietà genera di continuo marginalità esistenziali. In questa temperie culturale la degradazione della dignità delle vite più fragili e bisognose, misurate con l’impostura del livello di qualità delle stesse, genera esistenze de-classate, alle quali si offre il solo orizzonte del “farla finita quanto prima, togliendo il disturbo in silenzio”.
Due requisiti contemplati dalla legge neozelandese meritano particolare attenzione: quello soggettivo, ovvero la formulazione di una volontà consapevole e libera dell’interessato; quello oggettivo, ossia la presenza di una “malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a sei mesi”. Ebbene, la presenza di una malattia invalidante, che non offra possibilità di guarigione e che sia causa di sofferenze fisiche, perché non dovrebbe potersi accompagnare, in costanza di una volontà espressa del malato, alla facoltà di esercitare un diritto a morire come e quando lo si desideri? Numerosi studi confermano la stretta connessione tra: a) la presenza di un disagio psichico, come potrebbe essere la depressione, non necessariamente legata ad una patologia di tipo fisico; b) la possibilità di accedere legalmente all’eutanasia; c) il numero di persone che effettivamente scelgono di sottoporvisi. Quella richiesta, cui l’ordinamento vorrebbe assicurare protezione giuridica, è quasi sempre una decisione non veramente libera, bensì condizionata, pesantemente, da una percezione di sé auto-indotta che nulla ha a che fare con il consenso libero e informato che la legge considera primario requisito di accesso all’opzione eutanasica. Una legge che, come in questo caso, la disciplinasse finisce solamente e fatalmente col favorire.
3. Vi è poi l’argomento, non secondario, del pendio scivoloso. Come essere certi che l’entrata in vigore della legge, seppure con le restrizioni prospettate in apertura, non dia l’abbrivio ad una serie di ulteriori decisioni, legislative o più probabilmente giurisdizionali, che nel nome dei principi di libertà ed uguaglianza, costituzionalmente sanciti, amplino ulteriormente le maglie di accesso alla morte medicalmente assistita, consentendola anche verso i minori, come già accaduto in Olanda, o verso le persone con squilibri psichici non conclamati, o a pazienti con prognosi ben superiori a sei mesi, a fronte di una prospettiva di vita comunque limitata, o alle prese con sofferenze fisiche gestibili per mezzo dell’analgesia? Questo è del resto quanto già accaduto in Belgio, Olanda e Canada, dove i paletti messi a presidio dell’accesso al trattamento eutanasico, sono stati miseramente travolti nel breve volgere di qualche anno.
Come sottolineato dal dottor John Kleinsman, direttore del “Centro di bioetica Nathaniel”, facente capo alla Conferenza episcopale locale, l’Eolc «mette le persone vulnerabili in difficoltà e in pericolo» perché «la presenza dell’opzione eutanasica metterà pressione su molti malati e sulle loro famiglie». Dunque, la legge si rivelerà al di là di ogni ragionevole dubbio, non più umana o più compassionevole, come la narrazione corrente si sforza di veicolare mediaticamente, ma solamente più rischiosa proprio per le persone più vulnerabili e bisognose di aiuto.
Nella legge, infine, non vi è cenno alcuno né alle cure palliative – a quel novero, cioè, di soluzioni terapeutiche ed assistenziali volte a migliorare la qualità di vita del paziente, applicabili precocemente, insieme alle terapie vere e proprie, col fine di prolungarne la vita, trattando al meglio le complicanze cliniche che causano la sofferenza fisica –, a ragione considerate oggi come la vera frontiera di un approccio autenticamente umano e dignitoso al malato e alla sua patologia, né al all’obiezione di coscienza, quando invece sappiamo che, qualora il medico si imbattesse in richieste del paziente contrarie alle convinzioni dettate dalla sua coscienza morale, quale potrebbe essere appunto la richiesta di un atto eutanasico, obiettare verrebbe a configurare più che un diritto, un preciso dovere morale. Quello all’obiezione di coscienza, è bene ricordarlo ancora una volta, configura un diritto riconosciuto, al livello nazionale ed internazionale, e anche in assenza di un suo riconoscimento ordinamentale esplicito, residua pur sempre lo spazio per una disobbedienza nei confronti della legge ingiusta, quale si profila essere la legge neozelandese appunto. Come chiarito nell’ultimo documento della Congregazione per la Dottrina delle Fede su questi temi, la Samaritanus Bonus, «non esiste il diritto al suicidio né quello all’eutanasia: il diritto esiste per tutelare la vita e la co-esistenza tra gli uomini, non per causare la morte. […]. L’unico vero diritto è quello del malato di essere accompagnato e curato con umanità. Solo così si custodisce la sua dignità fino al sopraggiungere della morte naturale» (Ivi, V, 9).
Antonio Casciano