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Pietro Dubolino, presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione e autorevole giurista, interviene su questo sito con ragionevoli proposte di modifica del codice di procedura penale, tese a limitare i danni derivanti dal potere di iniziativa del P.M., così come configurato dal rito processuale del 1989. Si tratta di suggerimenti la cui attuazione potrebbe costituire il punto di avvio per la de-strutturazione di quel ‘sistema’, descritto dal libro omonimo di Sallusti-Palamara.

1. Per individuare l’approccio più corretto alle problematiche poste dal  c.d. “sistema” delle nomine agli uffici giudiziari sulla base di accordi fra le varie correnti della magistratura associata, quale ampiamente illustrato nel famoso libro contenente l’intervista di  Alessandro Sallusti a Luca Palamara (per la finta meraviglia anche di quanti, in gran numero e da gran tempo, fra magistrati e politici, ne erano già perfettamente a conoscenza), occorre anzitutto guardarsi dall’illusione che quelle problematiche possano essere affrontate e risolte mediante interventi di riforma delle norme sull’elezione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura.  E’, infatti, nella ineliminabile natura delle cose che si formino accordi del genere anzidetto ogni qual volta si affidi ad un organo collegiale elettivo la gestione  della destinazione e della progressione in carriera di soggetti che, a loro volta, come appunto si verifica nel caso della magistratura, costituiscono il corpo elettorale dal quale quello stesso organo, nella sua componente togata  (che è quella maggioritaria),  viene espresso.

Né sembra ragionevolmente proponibile(come pure si fa da taluni) una designazione dei componenti togati del CSM mediante sorteggio. A parte, infatti, l’evidente pericolo dell’attribuzione di funzioni di rilievo costituzionale (quali sono appunto quelle del CSM) a soggetti del tutto inidonei ad assolverle, sarebbe comunque pressoché inevitabile la formazione, anche tra i sorteggiati, di diverse e potenzialmente contrapposte aggregazioni, sulla base delle affinità, anche politiche, successivamente emerse, per cui delle due l’una: o una di tali aggregazioni verrebbe a risultare maggioritaria, così da poter imporre alle altre la propria volontà, senza riguardo a criteri obiettivi di valutazione e giudizio nell’adozione dei singoli provvedimenti, oppure  si produrrebbe una situazione di sostanziale equilibrio; ed in questo caso si ritornerebbe fatalmente al sistema attuale degli accordi compromissori all’insegna della logica del “do ut des”. 

Del tutto irrealistica, nell’attuale situazione politica,  appare poi la prospettiva di una eventuale modifica delle norme costituzionali che regolano la composizione e le competenze del C.S.M.

2. Stando così le cose, non rimane quindi che affrontare il problema sotto una diversa angolatura, chiedendosi non come eliminare il “sistema” ma come eliminare o almeno ridurre il maggiore dei danni da esso prodotti: vale a dire quello costituito dal fatto che le correnti più politicizzate della magistratura possano efficacemente perseguire l’obiettivo di assumere, indirettamente, un ruolo attivo nella determinazione degli assetti politici locali o, talvolta, anche nazionali mediante la scelta, secondo le regole del “sistema”, di un soggetto piuttosto che un altro da destinare alla copertura di un determinato ufficio giudiziario; obiettivo, quello anzidetto, la cui realizzazione postula, ovviamente, un uso strumentale della funzione giudiziaria e, segnatamente, di quella del pubblico ministero, atteso il ruolo, per così dire, di “attacco”, proprio di tale ufficio, cui è affidato l’esercizio dell’azione penale previa acquisizione e valutazione della “notizia di reato”.

3. Per porre rimedio a tale stortura altro non sembra potersi fare, quindi, se non tentare di ridurre al massimo la possibilità che della funzione giudiziaria, soprattutto da parte degli uffici del pubblico ministero, venga fatto quell’“uso strumentale” di cui si è appena detto. E a tal fine sarebbe necessaria, in primo luogo e fondamentalmente, l’eliminazione  del potere-dovere che ha il pubblico ministero, in base all’attuale formulazione dell’art. 330 del codice di procedura penale, di ricercare ed acquisire le notizie di reato anche di sua sola iniziativa.

Il che, nell’assenza di ogni e qualsiasi norma che sottoponga l’esercizio di un tale potere-dovere a limiti o condizioni, si traduce nell’attribuzione allo stesso pubblico ministero di una sfera di larghissima ed incontrollata discrezionalità, inevitabilmente destinata, come di fatto è avvenuto, ad assumere di frequente anche connotazioni politiche, correlate agli orientamenti, spesso ampiamente pubblicizzati, dei singoli magistrati preposti alla direzione degli uffici di procura e, talvolta, anche di altri che, in un modo o nell’altro, siano in grado di incidere sulla determinazione delle loro linee d’indirizzo.

4. Per la verità, alla stregua del letterale tenore del citato art. 330 c.p.p., quella che il pubblico ministero può acquisire anche di propria iniziativa dovrebbe essere comunque una  vera e propria “notizia”, già dotata, quindi, in partenza, dei requisiti di  specificità e di concretezza indispensabili per consentire la sua  inquadrabilità in una o più tra le figure di reato previste dalla legge, ferma restando, naturalmente, la necessità della successiva verifica circa la sua effettiva fondatezza o meno. 

Gli uffici del pubblico ministero, però, forzando la lettera della norma, hanno fin dall’inizio cominciato ad interpretarla  (e questo indirizzo appare ormai stabilmente ed irreversibilmente consolidato), nel senso che essa consentirebbe anche l’attività consistente nell’andare alla ricerca di reati di cui non si abbia ancora, in realtà, precisa notizia ma di cui venga soltanto astrattamente ipotizzata l’esistenza, scegliendo, inoltre, a totale discrezione degli stessi uffici, le materie e le situazioni che appaiano maggiormente degne d’interesse; cioè, in sostanza, scegliendo, tra gli infiniti, possibili, “terreni di caccia”,  quelli che offrano le migliori possibilità di cattura del tipo di selvaggina ritenuta preferibile rispetto ad altra, magari più abbondante ma, proprio per questo, da considerarsi meno pregiata. Fuor di metafora, dedicandosi, quindi, ad esempio, all’affannosa e spesso ardua ricerca di possibili reati da contestare a personaggi di spicco in ambito politico, economico o sociale piuttosto che al perseguimento di fenomeni di criminalità diffusa di cui siano vittime larghe fasce di comuni cittadini.

5. La cosa risulta poi ancora più grave ove si consideri che per l’effettuazione della detta attività di ricerca gli uffici possono avvalersi (e, di fatto, abitualmente si avvalgono) di tutti gli strumenti a loro disposizione, ivi compresi quelli, particolarmente invasivi, costituiti dai sequestri, dalle perquisizioni e dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, con conseguente, grave e irreparabile pregiudizio della sfera di riservatezza e, spesso, anche  della reputazione di soggetti che poi, frequentemente, risultano del tutto innocenti. Vero è che per  l’impiego di tali strumenti è necessario che nei relativi provvedimenti siano indicati i reati per i quali si procede, ma è altrettanto vero che la legge, salvo che nel  caso delle intercettazioni,  non richiede anche la condizione costituita dalla previa acquisizione di gravi indizi circa la loro  effettiva sussistenza.

Nulla impedisce, quindi, che l’indicazione dei reati  nei provvedimenti di perquisizione e sequestro adottati dal pubblico ministero o, su richiesta del medesimo, dal giudice per le indagini preliminari,  rappresenti  soltanto il riflesso di quelle che, al momento, possono essere soltanto delle mere e gratuite supposizioni dell’organo inquirente. Quanto poi alle intercettazioni, per le quali è invece richiesto, dall’art. 266 c.p.p., che siano stati acquisiti “gravi indizi” dei reati per i quali si procede, vale osservare che è molto facile, per il pubblico ministero, rappresentare al giudice per le indagini preliminari la ritenuta sussistenza di tale condizione, sulla base di elementi la cui oggettiva validità lo stesso giudice difficilmente è in grado di contestare, mancando la possibilità di una previa verifica nel contraddittorio delle parti; verifica che può aver luogo solo successivamente all’esecuzione delle operazioni, qualora i relativi risultati debbano essere utilizzati nell’eventuale prosecuzione del procedimento penale.

6. Dovrebbe apparire evidente, a questo punto, come una discrezionalità avente le connotazioni sopra descritte e  non accompagnata da  alcuna forma di responsabilità politica che ad essa faccia da contrappunto (a ciò ostando il principio di indipendenza della magistratura, della quale fanno parte a tutti gli effetti anche i magistrati del pubblico ministero), rappresenti una grave ed inaccettabile anomalia in quello che dovrebbe essere, nel disegno costituzionale, un ordinato ed armonico sistema di equilibrio e di bilanciamento dei poteri. A fronte di tale anomalia i rimedi potrebbero essere, in linea di principio, soltanto due: o la riduzione, per quanto possibile, della discrezionalità ad una sfera esclusivamente tecnica o l’introduzione, volendola mantenere inalterata, di una forma di responsabilità anche politica che valga ad escluderne l’attuale incontrollabilità.

Questa seconda soluzione richiederebbe, tuttavia, profonde modifiche costituzionali, per le quali difficilmente potrebbe trovarsi il necessario consenso politico. La prima, invece,  richiederebbe soltanto limitate modifiche di  norme ordinarie, a partire dal già ricordato art. 330 del codice di procedura penale, dal quale sarebbe sufficiente espungere la parte che prevede la ricerca e l’acquisizione delle notizie di reato ad iniziativa autonoma del pubblico ministero, imponendo invece a quest’ultimo, come condizione indispensabile per l’instaurazione di un procedimento penale a carico di chicchessia, quella che la notizia di reato gli sia fatta pervenire da parte di chi ne abbia obbligo o facoltà (organi di polizia, pubblici ufficiali o anche privati) sotto forma di denuncia, querela, istanza e simili.

7.  Si tratterebbe, in sostanza, di riportare il pubblico ministero alle caratteristiche che esso aveva prima dell’introduzione, nel 1988, del nuovo codice di procedura penale, e cioè quelle di essere un organo  essenzialmente preposto non alla ricerca ma alla sola ricezione delle notizie di reato, per valutarne quindi, in primo luogo, la credibilità e la fondatezza  giuridica e poi passare, dopo l’esito positivo di questo primo vaglio, alla ricerca delle prove ed infine, a seconda del risultato, alle conseguenti determinazioni circa l’esercizio o meno dell’azione penale. Ed era certamente questo il modello che i padri costituenti ebbero presente quando stabilirono, con l’art. 112 della Costituzione, che il pubblico ministero avesse l’obbligo di esercitare l’azione penale; il che altro non significava se non costituzionalizzare una norma già contenuta nel decreto luogotenenziale n. 288 del 1944, con la quale era stato tolto al pubblico ministero il potere, attribuitogli durante il regime fascista, di c.d. “cestinazione” delle notizie di reato, cioè la possibilità di non dar loro seguito senza in alcun modo sottoporle al vaglio di un giudice che quanto meno ne verificasse l’eventuale, effettiva  infondatezza.

Di qui l’ulteriore considerazione che, a sostegno delle estemporanee iniziative degli uffici di procura nella ricerca di pseudo “notizie di reato” non può in alcun modo invocarsi (come, invece, non di rado si tenta di fare), il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Tale principio, infatti, come si è visto, si fonda sul presupposto che il pubblico ministero sia già venuto in possesso di un qualcosa  che possa propriamente definirsi come una vera e propria  “notizia di reato” e non un semplice “sospetto” o una “ipotesi” di reato. Esso, quindi, non può in alcun modo trovare applicazione con riguardo  ad  un’attività  caratterizzata, invece,  proprio dall’assenza di quel medesimo presupposto.

Va da sé, naturalmente, che un margine di discrezionalità, per così dire, “politica”, non potrebbe non sopravvivere anche nella gestione, da parte di ogni singolo magistrato del pubblico ministero, delle notizie di reato da lui ritualmente ricevute. Ma ciò non toglie nulla all’utilità che comunque avrebbe, se non altro come “segnale” di un mutamento d’indirizzo, la qui auspicata soppressione dell’attuale assetto normativo,  essendo questo caratterizzato da una discrezionalità a 360 gradi nella quale le scelte politiche possono liberamente ed incondizionatamente esprimersi già nella instaurazione, prima ancora che nella gestione, dei procedimenti penali.

8. Facile e scontata appare a questo punto l’obiezione che, escludendo i poteri di iniziativa del pubblico ministero nella ricerca e nell’acquisizione delle notizie di reato, potrebbe risultare impedita la scoperta di un certo numero di reati, anche di notevole gravità, soprattutto del genere di quelli che costituiscono espressione di malcostume politico, sociale ed economico e danneggiano quindi fortemente gli interessi della collettività. A tale obiezione  può facilmente rispondersi, però, che la libertà d’iniziativa di cui si sono avvalsi finora gli uffici del pubblico ministero ha anche portato all’instaurazione di un gran numero di procedimenti per presunti reati del genere anzidetto, poi finiti, come è universalmente noto, con pronunce pienamente assolutorie  giunte dopo anni di sofferenze  per  gli imputati ingiustamente accusati.

D’altra parte, vi è da dire che un’analoga obiezione era quella a suo tempo portata avanti dai molti che, da una sponda ritenuta “conservatrice”, si opponevano all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, improntato al sistema accusatorio, sostenendo che tale sistema, basato sul principio della formazione della prova solo nel contraddittorio delle parti e della conseguente inutilizzabilità, salvo eccezioni, delle prove che pur legalmente fossero state acquisite dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, avrebbe comportato, in molti casi, l’impunità di soggetti chiaramente colpevoli dei reati loro addebitati.

Non può certo dirsi che si trattasse di una preoccupazione del tutto priva di un qualche oggettivo fondamento. Eppure essa non ha impedito che i fautori del “novum” avessero, alla fine, partita vinta, all’insegna del principio che la riforma della procedura penale nel senso da essi auspicato costituiva una ineludibile “scelta di civiltà”, a fronte della quale l’inconveniente rappresentato dagli oppositori poteva essere considerato come un “giusto prezzo da pagare”.  Non si vede, quindi, perché lo stesso principio non possa essere invocato anche ai fini che qui interessano, sempre che si abbia l’onestà intellettuale di ammettere che nessuno ha il monopolio della definizione di ciò che debba intendersi per “scelta di civiltà” e che la civiltà, nel suo cammino, non sempre percorre le stesse strade.

                                                                                                 Pietro  Dubolino

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