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Articolo di Pietro Dubolino, pubblicato sul quotidiano La Verità il 21 febbraio 2023.

A chi ti percuote una guancia porgi anche l’altra. A chi vuol toglierti il mantello, lascia anche la tunica. Non chiedere la restituzione delle tue cose a chi te le abbia sottratte.  Secondo quanto leggiamo in Luca, 6, 29-30 e, con poche varianti, in Matteo, 5, 39-40, queste sono le regole alle quali dovrebbe attenersi, secondo la parola di Gesù stesso, ogni buon cristiano. Ma queste regole si pongono, almeno ad una prima apparenza, in radicale contrasto con le esigenze minime di una ordinata convivenza sociale, alla cui salvaguardia è istituzionalmente preposta l’autorità dello Stato.  Potrebbe quindi ritenersi che siano contrarie  al Vangelo le norme che vietano e, in vario modo, sanzionano  le violenze, anche modiche, commesse in danno della persona, come pure i furti, le rapine e ogni altra violazione dell’altrui diritto di proprietà sulle cose, imponendo al responsabile anche l’obbligo della restituzione o, quando non sia più possibile, quello del risarcimento in favore della persona offesa.  E si tratta, peraltro, di norme che sono state sempre presenti anche negli ordinamenti  statuali dichiaratamente adesivi alla religione cristiana, quali sono stati, in sostanza, tutti gli ordinamenti europei, almeno fino alla rivoluzione francese (e, non di rado, anche oltre), a far tempo dall’editto teodosiano del 395 d.C. , che elevò il cristianesimo a religione ufficiale dell’Impero romano.

Il problema, ovviamente, non è nuovo, ma si è posto fin dai primi secoli dell’era cristiana, tanto da aver già trovato una risposta, ad esempio, in sant’Agostino, secondo il quale (de sermone Domini in monte, I, 20) le regole dettate dal Vangelo non vietano che i comportamenti ai quali il cristiano non dovrebbe opporsi siano tuttavia  punibili da parte delle pubbliche autorità, a condizione, però, che la punizione sia inflitta a solo fine correttivo e, quindi, per il bene di colui che deve  subirla. Il che – sia detto tra parentesi – dimostra come l’idea che la pena debba avere una funzione rieducativa non sia nata certo con l’art. 27 della Costituzione italiana.

Si tratta, però, di una risposta che non può dirsi completamente soddisfacente. In base ad essa, infatti, si dovrebbe ritenere che la pena, in un’ottica cristiana,  perda la sua legittimità quando sia inflitta allo scopo esclusivo o prevalente di conservare l’ordine sociale e la sicurezza collettiva, mediante la dimostrazione delle conseguenze negative alle quali si espone chi li abbia violati o posti in pericolo. Il che, però, non è mai stato sostenuto da alcuno tra i filosofi e i giuristi che, pur dichiaratamente aderenti al cristianesimo, hanno affrontato, nel corso dei secoli, il problema della legittimità della pena, essendo state sempre riconosciuto, invece, che essa potesse e dovesse avere, come sua primaria finalità, proprio quella di tutela della civile convivenza contro gli attentati ad essa portati dai malfattori. Esemplare, a  questo proposito, fra i tanti, il pensiero di Filippo Maria Renazzi, titolare, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo,  della cattedra di “diritto criminale” (come allora si chiamava) presso lo Studium urbis di Roma, secondo cui le “pene criminali” non possono avere altra finalità che non sia appunto quella sopraindicata, dovendosi riservare la diversa finalità dell’emenda  del reo  alle sole “pene correzionali”, identificate dall’A. essenzialmente in quelle previste dalle leggi canoniche nei confronti dei peccatori, per farli tornare sulla retta via (Elementa iuris criminalis, lib.II, cap.III, § 8).Il che ha una sua logica, dal momento che, a differenza delle leggi dello Stato, quelle della Chiesa hanno come loro scopo essenziale non quello della salvaguardia di un determinato ordinamento sociale ma quello della salvezza dell’anima di ogni singolo fedele.

La conclusione, a questo punto, potrebbe essere però quella che la pena, pur legittima, sia solo da tollerare come male necessario, dal momento che non può pretendersi, in nome della perfezione evangelica, riservata a pochi, che l’intera società rinunci alla propria autodifesa. Ma sarebbe una conclusione sbagliata, dovendosi invece considerare che proprio il fatto che la legge consenta  di opporre resistenza  a chi ponga in essere determinati comportamenti  e di invocare contro di lui la forza repressiva dello Stato rende virtuosa la libera scelta di chi, in nome di un ideale superiore, decida di non avvalersi di tale possibilità. Se lo Stato, per una malintesa finalità di adesione agli ideali cristiani,  si astenesse dal perseguire quei comportamenti,  si porrebbe invece in contrasto con quegli stessi ideali, perché costringerebbe tutti coloro che siano vittime di prepotenze e di violenze a sopportarle, senza per questo acquistare merito alcuno.  Una condotta, infatti, posta in essere sotto costrizione non può, “per la contraddizion che nol consente”, essere, al tempo stesso, considerata  come virtuosa, mancandole il requisito essenziale dell’essere frutto di una libera  scelta.  E risulterebbe così, paradossalmente,  frustrato  proprio lo scopo essenziale al quale tendono i precetti (o, se si vuole, i “consigli”) evangelici: quello, cioè di mostrare la strada per il conseguimento della salvezza eterna  mediante l’esercizio delle virtù.

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