L’intreccio di alcune commedie di Plauto costituisce un punto di partenza per avviare una rilettura delle fonti giuridiche e letterarie, con l’intento di proporre una nuova e rinnovata riflessione, a proposito della compravendita. Nelle commedie Mostellaria e nel Curculo si attesterebbe il superamento, nella prassi, della necessità dell’atto traslativo ai fini dell’esecuzione della compravendita e alla conseguente sufficienza, per l’adempimento degli obblighi del venditore, del trasferimento al compratore non piú del dominium ma solo dell’habere licere della cosa venduta.
1. Nel III sec. d.C. Giulio Paolo[1] , al fine di distinguere la permutatio dall’emptio venditio, in un frammento tratto dal XXXII libro del suo commentario all’editto del pretore[2] , enumera le prestazioni a cui erano tenuti compratore e venditore nel contratto consensuale di compravendita:
Paul. 32 ad ed. D. 19.4.1 pr.: Sicut aliud est vendere, aliud emere, alius emptor, alius venditor, ita pretium aliud, aliud merx. At in permutatione discerni non potest, uter emptor vel uter venditor sit, multumque differunt praestationes. Emptor enim, nisi nummos accipientis fecerit, tenetur ex vendito, venditori sufficit ob evictionem se obligare possessionem tradere et purgari dolo malo, itaque, si evicta res non sit, nihil debet: in permutatione vero si utrumque pretium est, utriusque rem fieri oportet, si merx, neutrius. Sed cum debeat et res et pretium esse, non potest permutatio emptio venditio esse, quoniam non potest inveniri, quid eorum merx et quid pretium sit, nec ratio patitur, ut una eademque res et veneat et pretium sit emptionis[3] .
Secondo quanto scrive il giurista, per il venditor, a differenza di quanto era prescritto per l’emptor, nei confronti del quale gravava una prestazione che prevedeva il trasferimento della proprietà dei nummi, era sufficiente obbligarsi per l’evizione, trasferire il possesso ed essere esente da dolo malo (venditori sufficit ob evictionem se obligare possessionem tradere et purgari dolo malo). Il frammento di Paolo, in cui il giurista enumera, nella tripartizione delle obbligazioni del venditore, anche l’ob evictionem se obligare, rappresenta il punto d’arrivo della lunga evoluzione della garanzia per l’evizione nell’ambito dell’emptio venditio consensuale. L’obbligazione specifica del venditor, menzionata da Paolo con la significativa espressione ob evictionem se obligare, consisteva nell’assunzione della responsabilità per l’evizione mediante un’apposita verborum obligatio sanzionata con l’actio empti nel caso in cui il venditore si fosse rifiutato di prestarla.
L’individuazione dell’habere licere quale contenuto «sufficiente» dell’obbligazione del venditore rispondeva a un’esigenza particolare: quella di adeguare il contratto consensuale al sorgere e all’affermarsi di nuove istanze socio-economiche e alle nuove forme di appartenenza con le quali l’emptio venditio si era trovata costretta a misurarsi. La giurisprudenza aveva superato in questo modo il formalismo delle origini (la necessità, in particolare, della mancipatio, ancora attestata in Gai 4.131a2), così come il particolarismo dei soggetti e delle realtà di riferimento, elaborando un concetto di carattere generale che esprimeva sinteticamente tutte quelle situazioni di appartenenza caratterizzate dalla disponibilità assoluta di una cosa, tutelate nei confronti di qualsiasi terzo e che, a seconda della realtà di riferimento, erano ora dominium ex iure Quiritium, ora in bonis, ora possessio vel usufructus, ora la cd. proprietà peregrina.
2. Da una serie di passaggi di Plauto è possibile vedere, con riguardo dunque a un’età storica più risalente, una traccia significativa del processo attraverso il quale si giunse alla individuazione di quel contenuto «sufficiente» dell’obbligazione del venditore romano. Questi passaggi, in particolare, sembrano già testimoniare l’esistenza di un atteggiamento tendente all’abbandono del ricorso alla mancipatio, cui ancora si doveva fare luogo per l’esecuzione della compravendita di res mancipi[4].
Certo, lo studio anche di una sola commedia plautina è cosa complicata, perché costringe a interrogarsi su molte questioni. Tra queste, ha sempre costituito oggetto di vivace disputa nella letteratura di tutti i tempi quella della «fedeltà» di Plauto ai modelli greci[5] e quindi specularmente, della sua attendibilità ai fini della conoscenza del diritto romano. Così in dottrina, da un lato vi sono stati studiosi[6] che, seppure in diversa misura, hanno ricompreso il commediografo a pieno titolo tra le fonti di cognizione relative al periodo repubblicano, fino ad affermare – come ha fatto il Costa – che «… in ciascuna delle città greche, in cui si raffigura la scena delle commedie plautine, si trovano trasportate le magistrature, gli istituti e le costumanze di Roma, e perciò i rapporti giuridici vi si raffigurano allo stesso modo come sono di fatto regolati in Roma»
Plauto, com’è noto, ambienta le sue commedie in Grecia, svolgendo il dipanarsi dell’intreccio in una città greca della quale quasi sempre indica il nome. Spesso egli riferisce puntualmente quale sia l’autore (Menandro, Filemone, Difilo) e il titolo dell’opera dalla quale egli ha tratto l’argumentum della commedia. Sovente il testo si arricchisce di termini greci e di riferimenti ad usi greci. Appare da ciò evidente che nelle commedie del sarsinate l’inscenata «grecità» è volutamente ostentata. Indicazioni specifiche per comprendere le ragioni che indussero Plauto ad ambientare le sue commedie in Grecia, e comunque ad «imitare» apertamente i precedenti modelli attici, sono offerte proprio da Plauto nel prologo dei Menaechmi, dove il commediografo, ai versi 7-14, si preoccupa di precisare:
Atque hoc poetae faciunt in comoediis: omnis res gestas esse Athenis autumant, quo illud Graecum videatur magis; ego nusquam dicam nisi ubi factum dicitur …
Si tratta di un passaggio prezioso per la comprensione della regia scenica e della poetica del sarsinate. Nel passo riferito, Plauto (il prologo principia proprio con il noto Adporto vobis Plautum) sembra indicare esplicitamente quali sono i presupposti e «le tendenze» cui egli stesso e gli altri commediografi sembrerebbero aderire (poetae faciunt): i poeti – confessa il sarsinate –, quando si tratta di presentare una commedia, hanno l’abitudine di ambientarla ad Atene, perché illud Graecum vobis videatur magis. Il prologo dei Maenaechmi è, d’evidenza, testimonianza diretta della forte attrazione ed ammirazione che Roma ebbe per il mondo greco a partire dal III sec. a.C.; la grecità, in altri termini, è sentita e vissuta dal sarsinate come veicolo di poetica.
3. In merito alla esistenza di un obbligo di mancipare, scaturente dalla compravendita, meritano una particolare considerazione le testimonianze che ci sono fornite dalla Mostellaria e dal Curculio.
Cominciando dalla prima. Sullo sfondo, a determinare lo svolgersi degli eventi, è l’amore di un giovane scapestrato (Philolaches) che, con la complicità dello schiavo Tranio e durante l’assenza del padre (Theopropides), acquista la cortigiana da lui amata, prendendo a prestito del denaro. Sarà poi lo scaltro servo a inventare, al fine di celare l’effettiva ragione del prestito pecuniario, la storia che esso era servito per l’acquisto di una nuova casa (la vecchia, infatti, infestata dai fantasmi[7], era stata abbandonata), per la quale erano state versate a titolo d’arra quaranta mine.
Nella commedia, la compravendita[8] della casa, millantata da Tranio, costituisce il cardine su cui ruota l’inganno a danno del povero Theopropides, determinando lo svolgersi dell’intreccio fino al suo epilogo, quando, scoperto il bluff, il padre chiede a Tranio precise spiegazioni, posto che il presunto venditore nega di conoscerlo, di aver ricevuto denaro, di aver venduto: Most. 1079 s. Th. Quia negat novisse vos. Tr. Negat? Th. Nec vos sibi nummum umquam argenti dedisse. Most. 1082 ss. Th. Immo edepol negat profecto, neque se hasce aedis Philolachi vendidisse. Tr. Eho, an negavit sibi datum argentum, obsecro? Th. Quin ius iurandum pollicitust dare se, si vellem, mihi, neque se hasce aedis vendidisse neque sibi argentum datum [est]
Consapevole di essere stato smascherato, nel tentativo estremo di difendersi, Tranio si mostra comunque sorpreso e, sempre facendo leva sull’avvenuta conclusione della compravendita e sulla dazione dell’argentum (a titolo d’arra), nel corso di un dialogo sempre piú serrato, ribatte: Most. 1090 s. Tr. Mihi hominem cedo: vel hominem iube aedis †mancipio poscere†41, invitando Theopropides a metterlo al cospetto dell’uomo (il presunto venditore) o a comandargli di aedis mancipio[9] poscere.
La lettura di quest’ultima espressione non è stata facile, perché in questo punto il manoscritto risulta parzialmente corrotto, anche se, come ha osservato l’Ernout, «le sens general ne fait pas de doute»[10]. Gli editori hanno ricostruito il verso leggendo in modo vario: «mancipio poscere», «mancupio poscere»,[11] «mancipare»[12]. L’espressione «mancipio poscere» – che è quella maggiormente accreditata – è stata intesa in vario modo, ma l’interpretazione che ci pare preferibile è quella offerta dal Gallo[13], il quale, proprio a proposito della locuzione mancipio poscere, ha scritto che essa è stata utilizzata da Plauto «nel senso di chiedere (di acquistare una cosa, o che la stessa cosa venga trasferita) con la mancipatio»[14].
4. Piú di recente, ancora, Bellocci al riguardo ha osservato: «che significato avrebbe potuto avere … l’ulteriore riferimento al ‘mancipium’ … se non quello di richiedere il compimento di un negozio[15], che consisteva in un semplice rituale astratto, formale e solenne, dal quale discendeva, tuttavia, la piú assoluta sicurezza e che una volta compiuto, proprio per i suoi caratteri produceva i suoi effetti in ogni caso, a prescindere dalla validità o meno della compravendita? È proprio perché ben conosce queste caratteristiche del ‘mancipium’ e gli effetti che da tale negozio discendono, che sono poi proprio quelli a cui mira il servo per tranquillizzare il padrone e salvare cosí la sua vita messa in pericolo dall’ira del vecchio che si sente gabbato, che … il servo stesso richiede astutamente il compimento di tale negozio»[16]. Poscere, del resto, «est petere aliquid tamquam sibi iure debitum, suum ius petere …». L’esortazione di Tranio rivolta a Theopropides non è che un invito a chiedere, una volta per tutte, che venga fatta la mancipatio: atto, questo, che viene dunque prospettato come dovuto sulla base di un obbligo precedentemente assunto.
Una conferma dell’esistenza di un obbligo di mancipare legato alla compravendita sembra potersi riscontrare anche nel Curculio[17]. L’intreccio di questa commedia può riassumersi brevemente nei seguenti termini. Il giovane Phaedromus, non disponendo del denaro necessario per l’acquisto della sua amata Planesium, schiava del lenone Cappadox, decide di avvalersi dell’aiuto del parassita Curculio, che egli invia in Caria alla ricerca di denaro. Qui avviene l’incontro con il soldato Therapontigonus, il quale ha già comprato. Planesium da Cappadox, ma non ha ancora pagato il prezzo. Il denaro, infatti, è stato depositato presso il banchiere Lyco, il quale si è impegnato a consegnarlo al lenone, non appena riceverà una lettera contrassegnata con il sigillo del soldato, e a far avere la fanciulla al latore della lettera. Conosciuti questi particolari della vicenda, Curculio s’impossessa del sigillo del soldato e, tornato in patria, redige una lettera con quel contrassegno che consegna, fingendosi liberto di Therapontigonus, al banchiere Lyco. Questi, riconosciuto il sigillo, dà il denaro al lenone Cappadox permettendo, cosí, a Curculio di avere la fanciulla. Ai nostri fini rileva in particolare il verso 494: Ca. Memini et mancupio tibi dabo.
5. Per comprenderne l’esatto valore, occorre allargare il campo d’osservazione, considerando il dialogo che si svolge tra i protagonisti nei versi 488 ss., che immediatamente precedono. Il banchiere Lyco aveva ricevuto da Curculio la lettera contraffatta. In essa, come risulta dai versi 432 ss., si fa riferimento all’accordo precedentemente intervenuto (iam scis ut convenerit), in virtú del quale Lyco si era impegnato a consegnare il denaro al lenone e questi a consegnare virginem … et aurum et vestem al latore della lettera: Curc. 432 ss. Ly. Tecum oro et quaeso, qui has tabellas adferet tibi, ut ei detur quam istic emi virginem, quod te praesente isti egi teque interprete, et aurum et vestem. Iam scis ut convenerit: argentum des lenoni, huic det virginem–
Nei versi 488-489 Curculio, rivolgendosi a Cappadox, gli ricorda, per l’appunto, che al compratore spettavano, oltre che la schiava, anche i monili e le vesti: Cu. Et aurum et vestem omnem suam esse aiebat quam haec haberet. Ca. Nemo it infitias. Cu. At tamen meliusculum est monere.
E Lyco, di rincalzo, ricorda al lenone l’altro obbligo assunto, quello cioè di restituire il denaro riscosso, nel caso in cui quisquam hanc liberali caussa manu adsereret: Ly. Memento promisisse te, si quisquam hanc liberali causa manu adsereret, mihi omne argentum redditum iri, minas triginta. Ca. Meminero, de istoc quietus esto. Et nunc idem dico. Cu. Et quidem meminisse ego haec volam te.
Ad entrambe le sollecitazioni Cappadox risponde riconoscendo quei precedenti impegni (489: nemo it infitias; 492 s.: meminero, de istoc quietus esto; et nunc idem dico). È proprio a questo punto che, in stretta dipendenza con quanto detto prima, Cappadox afferma che eseguirà la mancipatio: Curc. 494. Ca. Memini et mancupio tibi dabo.
Il lenone, con tutta evidenza, ben consapevole di quelli che sono gli obblighi da lui assunti, rassicura che egli li adempirà tutti: compreso quello, perciò, di compiere, per l’appunto, l’atto traslativo.
Nel tempo di Plauto sembrerebbe dunque, in conclusione, se non già affermato, almeno già avviato quel processo che piú tardi avrebbe portato al superamento, nella prassi, della necessità dell’atto traslativo ai fini dell’esecuzione della compravendita e alla conseguente sufficienza, per l’adempimento degli obblighi del venditore, del trasferimento al compratore non piú del dominium ma solo dell’habere licere della cosa venduta.
Daniele Onori
[1] In generale, al fine di delineare la figura di Giulio Paolo, del suo contributo all’interpretazione giuridica e del contesto storico in cui operò come giureconsulto, rinvio, fra tutti, a C.A. MASCHI, La conclusione della giurisprudenza classica all’età dei Severi. Iulius Paulus, in ANRW II.15, Berlin-New York, 1976, 667 ss., da leggere con la recensione di M. TALAMANCA, Per la storia della giurisprudenza romana, in BIDR, LXXX, 1977, 221 ss. Del giurista si occupa anche il saggio di A. MANTELLO, Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo, in BIDR, XCIV-XCV, 1991-1992, 349 ss.
[2] I frammenti tratti dal commentario di Paolo Ad edictum, sono stati raccolti e ordinati da O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae, 1889, 966 s., frr. 83-849. In merito al contenuto dei frammenti superstiti, sarà bene evidenziare che quelli ricompresi nei libri dal I al LXXVII, riguardano sempre il commento all’editto del pretore (frr. 83-831), mentre quelli risalenti ai libri LXXIX e LXXX (frr. 832-842) attengono al commentario del giurista all’editto degli edili curuli. Per i frammenti delle altre opere del giurista cfr. anche PH. HUSCHKE – E. SECKEL – B. KÜBLER, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae6 , II, Lipsiae, 1908, 4 ss. Si veda, in particolare, tra i Pauli fragmenta minora, quelli Ex libro XXXII ad edictum (163).
[3] O. LENEL, Palingenesia iuris civilis, I, cit., coll. 1034 s., fr. 502. Nella ricostruzione palingenetica dei Libri ad edictum di Paolo, lo studioso tedesco inserisce il testo di Paolo, 32 ad ed. D. 19.4.1, tra i frammenti del libro 33 ad edictum, nello specifico in sequenza dopo quello 33 ad ed. D. 18.1.1 pr.-1 che tratta delle origini della compravendita. Il Lenel giustifica tale collocazione scrivendo quanto segue: «Paulus libro trigesimo secundo inscr. F. Sed et ex continuatione sententiae et ex eo, quod extrema fragmenti praecedentis verba – (18.1)1 § 1 – huius fragmenti initio repetuntur, falsam esse apparet hanc inscriptionem totumque hunc tractatum subiungendum esse fragmento paecedenti»
[4] A tal proposito, già G. Pugliese, Compravendita e trasferimento della proprietà in diritto romano, in Vendita e trasferimento della proprietà nella prospettiva storico-comparatistica. Materiali per un corso di diritto romano, cur. L. Vacca (Torino 1997) 60, aveva osservato che «non si passò … dalla libertà di non mancipare all’obbligo di mancipare, derivante da un patto ritenuto tacitamente inserito nell’emptio venditio, bensí dall’obbligo di mancipare, normalmente osservato e fatto osservare, a una sua piú frequente inosservanza pratica». E, sulla scia del Pugliese, anche a giudizio di L. Vacca, Annotazioni in tema di vendita e trasferimento della proprietà, in Vendita e trasferimento della proprietà cit. 137, «a un dato momento» sarebbe divenuta «frequente la prassi di rinunciare al compimento della mancipatio»
[5] Sulla controversa questione, piú in generale, v. F. Leo, Lectiones Plautinae, in Hermes 18 (1883) 558 ss.; H.W. Prescott, The interpretation of roman comedy, in Class. Phil. 11 (1916) 125 ss.; P.J. Enk, Quelques observations sur la manière dont Plaute s’est comporté envers se originaux, in Revue de Philologie 12 (1938) 289 ss.; A. Rostagni, La letteratura di Roma repubblicana ed augustea (Bologna 1939) 83 ss.; G. Vitelli, G. Mazzoni, Manuale della letteratura latina (Firenze 1942) 16 ss.; E. Bignone, Storia della letteratura latina (Firenze 1945) 211 ss.; E. Marmorale, Storia della letteratura latina dalle origini al VI sec. (Napoli 1945) 22 ss.; F. Della Corte, Da Sarsina a Roma (Genova 1952) 15 ss.; G.E. Duckworth, The nature of roman comedy. A study in popular entertainment (Princeton 1952) 384 ss.; R. Perna, L’originalità di Plauto (Bari 1955) 1 ss.; Th. Mommsen, Storia di Roma antica I2 (rist. ed. 1960, Piacenza 2001) 1096 ss.; U.E. Paoli, Comici latini e diritto attico (Milano 1962) 1 ss.; F. Treves Franchetti, s.v. «Plauto», in NNDI. XIII (Torino 1966) 129; E. Paratore, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea(Firenze-Milano 1969) 39;
[6] Nella direzione della utilizzabilità di Plauto ai fini della ricostruzione del diritto romano, sebbene con varietà di posizioni, si sono mossi E.I. Bekker, De emptione et venditione quae Plauti fabuli fuisse probetur (Berolini 1853); Id., Die Aktionen des römischen Privatrechts I (Berlin 1871) 311 ss.; Id., Die römischen Komiker als Rechtszeugen, in ZSS. 13 (1892) 53 ss.; G. Demelius, Plautinische Studien, in ZSS. 2 (1863) 177 ss.; Id., Der vindex bei in ius vocatio, in ZSS. 15 (1881) 5 ss.; M. Wlassak, Zur Geschichte der Negotiorum Gestio (Leipzig 1879) 174 nt. 135; M. Berceanu, La vente consensuelle dans les comedies de Plaute (Paris 1907) 129;
[7] La casa sarebbe infestata da uno spirito di nome Diaponzio, il fantasma di un tale ucciso mentre vi era ospitato. L’assassino sarebbe stato il vecchio proprietario della casa
[8] Il problema, particolarmente rilevante, che la dottrina si è trovata ad affrontare afferisce alla natura giuridica della compera della casa, cosí come prospettata nella commedia. Una parte considerevole della dottrina ha creduto di poter inquadrare la vicenda appena delineata nell’àmbito della vendita arrale di tipo greco
[9] Plauto utilizza indifferentemente mancipio/mancupio (sul punto v. infra nt. 80); riteniamo, pertanto, che, l’accoglimento dell’una o dell’altra ricostruzione non incida sul reale significato del verso
[10] A. Ernout, Plaute cit. 85 nt. 1. Si v. supra nt. 41. 45 Per tutti, v. l’ed. di W.M. Lindsay II (Oxonii 1940), dove si legge «vel hominem aedis iube mancupio poscere»
[11] Per tutti, v. l’ed. di W.M. Lindsay II (Oxonii 1940), dove si legge «vel hominem aedis iube mancupio poscere».
[12] J.L. Ussing, Commentarius in Plauti Comoedias II (rist. ed. 1883-1892, Hildesheim 1972) 168, osserva: «Verum etiam mancipio poscere nec usquam dicitur nec dici posse puto. Mancipio res tradi et accipi potest, posci vix potest. Sine dubio mancipare scribendum est». Anche nella ricostruzione di R. Ritschl, F. Schoell (nell’ed. teubneriana del 1893) si legge, invece di mancipio poscere, mancipare (testo che non ci è stato possibile consultare e su cui v. L. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà I cit. 307 nt. 39; N. Bellocci, La struttura del negozio della fiducia nell’epoca repubblicana [Napoli 1979] 79 nt. 83)
[13] F. Gallo, Studi sulla distinzione fra res mancipi e nec mancipi (Torino 1958) 178 ss
[14] F. Gallo, Studi sulla distinzione cit. 183.
[15] Cosí appena prima la Bellocci, La struttura del negozio della fiducia cit. 80, riassumendo la trama della commedia, nella parte che a noi qui piú interessa, scrive che il servo «propone di far venire il vero padrone della casa per smascherarlo attraverso un confronto, o, meglio ancora che per costringerlo a trasferire la casa mediante mancipatio».
[16] N. Bellocci, La struttura del negozio della fiducia cit. 81
[17] Una puntuale trattazione della trama della commedia, degli aspetti filologici, dei rapporti con il modello greco in G. Monaco, Teatro di Plauto I. Il Curculio (Roma 1963) 25 ss