1) All’interno dell’emergenza sanitaria che riguarda l’Italia, v’è l’emergenza ancora più grave concernente la popolazione detenuta. La sottovalutazione di questa situazione costituirebbe un atto grave di irresponsabilità politica, che si aggiungerebbe alla inescusabile negligente trattazione del problema carcerario negli ultimi decenni da parte del Parlamento e del Governo italiano.
2) La Corte europea dei diritti umani ha affrontato il problema del sovraffollamento carcerario in Italia a partire dal caso Sulejmanovic del 2009. Con la sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013 la Corte ha condannato l’Italia dichiarando che nel nostro Paese la congestione delle carceri è un problema sistemico “risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario”.
La confusa attività di novellazione seguita alle due sentenze ha posto un rimedio temporaneo alla fase acuta del sovraffollamento, ma non ha assolutamente creato le basi per una soluzione razionale del problema. Il 2016 è stato un anno importante perché il Consiglio d’Europa l’8 marzo 2016 ha chiuso il caso Torreggiani, riconoscendo che l’Italia aveva adempiuto alle prescrizioni della Corte europea. Dal 2016, però, il numero dei detenuti è tornato a crescere a ritmi sostenuti rispetto alla capienza regolamentare, tanto da rendere chiaro che entro il 2020 il problema si sarebbe ripresentato con la medesima gravità del periodo precedente.
3) L’avvilente condizione in cui è venuto a trovarsi il nostro Paese, soprattutto per l’ingiusta violazione dei diritti dei detenuti, ma anche per il riflesso internazionale di inaffidabilità del nostro sistema di esecuzione della pena, dovrebbe essere affrontata con l’impiego di risorse economiche ingenti e con la riforma del sistema penitenziario, divenuto ormai estremamente complicato, denso di presunzioni e di eccezioni che ostacolano il razionale espletamento dell’attività della Magistratura di sorveglianza. Il Parlamento e il Governo, nel decennio che va dalla prima sentenza europea ad oggi, sono stati incapaci di agire seriamente su entrambi i versanti. Pochissimo è stato compiuto per l’implementazione e il rammodernamento dell’edilizia penitenziaria; ancor meno sul fronte della riforma dell’ordinamento penitenziario, arrestatasi a seguito delle elezioni politiche del marzo 2018 e dal cambio delle maggioranze parlamentari e dei governi succedutisi nel tempo.
4) Il dibattito politico si è concentrato in modo irragionevole sull’opportunità di mantenere in vita l’illiberale normativa “spazzacorrotti” (peraltro dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza 11-26 febbraio 2020, n. 32 con riferimento alla sua applicazione retroattiva) e sull’assurda esigenza di togliere rilievo all’istituto della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Si tratta di polemiche agitate a scopo propagandistico, allo scopo di dimostrare un’intenzione punitiva sempre più spietata, come se i gravissimi problemi della giustizia penale in Italia potessero risolversi con l’ulteriore implementazione della penalità, sia di quella minacciata che di quella eseguita.
5) In questo momento drammatico per il nostro Paese è necessario che si mettano da parte i toni allarmistici e demagogici e si affronti il problema carcerario alla luce dei princìpi congiunti di umanità e razionalità, non separati da un sano senso pratico, che non è pragmatismo utilitaristico, bensì attenzione vera a un’emergenza sanitaria di cui non siamo in grado ora di prevedere i possibili effetti di disastro sociale.
Occorre perciò comprendere seriamente: i) la intensità della sofferenza della popolazione detenuta e della vastissima cerchia dei familiari in relazione ai timori sulla diffusione del virus; ii) il problema oggettivo della eventuale diffusione massiva del virus all’interno delle carceri in una condizione oggettiva di sovraffollamento inaccettabile. Le violenze che si sono verificate qualche settimana fa in numerosi istituti penitenziari, se debbono essere represse con la giusta punizione dei responsabili, non debbono indurre lo Stato a una reazione emotiva che induca a dimenticare la dura realtà delle cose.
6) Alla luce di tale situazione le misure assunte dal Governo nel D.L 17.3.2020, n. 18 non offrono una risposta realisticamente adeguata alla situazione esistente e ai rischi che si possono ragionevolmente ipotizzare.
Il Centro Studi Rosario Livatino ha proposto la concessione dell’indulto nella misura di un anno con riferimento a tutti i detenuti che abbiano subito condanne per qualsiasi reato, ad esclusione di quelli previsti dall’art. 4 bis, co. 1 della legge di ordinamento penitenziario. La misura – che potrebbe essere assunta tramite una rapida pronuncia delle Camere all’unanimità per ragioni di umanità, in considerazione della gravità dell’epidemia che si sta diffondendo nel Paese – dovrebbe in breve diventare operativa con un Decreto del Presidente della Repubblica che motivasse la disposizione con la giusta attenzione che la comunità statuale riserva alla sofferenza in cui ciascun detenuto si trova per la preoccupazione della salute propria e dei propri familiari e conviventi.
7) Si tenga al riguardo presente che il D.L. 18/2020 ha aggravato in modo assai penoso l’esistenza carceraria. Il co. 16 dell’art. 83 ha previsto che i colloqui dei detenuti con i congiunti e con le altre persone cui hanno diritto si svolgano senza contatto personale, ma a distanza, ove possibile, ovvero mediante corrispondenza telefonica, eventualmente autorizzata oltre i limiti previsti dalla normativa attualmente in vigore. Inoltre il co. 17 del medesimo articolo prevede che la magistratura di sorveglianza possa sospendere, in relazione alle emergenze sanitarie, fino al 31 maggio 2020, la concessione dei permessi premio di cui all’art. 30-ter L. 26 luglio 1975, n. 354, nonché del regime di semilibertà previsto dalla medesima legge e dalla normativa successiva.
8) La concessione di un anno di indulto presenterebbe molteplici vantaggi: i) di introdurre una misura uguale per tutti, con esclusione soltanto della ristretta cerchia dei detenuti condannati per i reati gravissimi di cui all’art. 4 bis, co. 1 della legge sull’ordinamento penitenziario, e con esclusione di coloro che hanno partecipato alle rivolte in carcere l’8 marzo scorso. Al contrario, le misure di detenzione domiciliare trovano attuazione soltanto per la ristretta cerchia delle persone che si trovano nella fase degli ultimi 18 mesi di espiazione della pena. L’indulto apparirebbe – e sarebbe – una misura di giustizia a favore di tutti, peraltro offrendo un beneficio di libertà a persone prossime alla conclusione della pena loro inflitta; la previsione del D.L. sulla detenzione domiciliare apparirebbe – e sarebbe – un mero provvedimento utilitaristico di “svuotacarceri”; ii) di essere di immediata e automatica applicazione, senza necessità di una investigazione laboriosa da parte della magistratura di sorveglianza; iii) di far riacquisire immediatamente la libertà a un numero consistente, ma non eccessivo, di persone, tale da tamponare non soltanto l’inaccettabile sovraffollamento carcerario, ma anche di favorire un alleggerimento progressivo nel tempo della pressione del sovrabbondante numero di detenuti.
9) Eventuali proteste contro un provvedimento di clemenza sarebbero pretestuose e demagogiche. La giustizia deve sempre conciliarsi col senso di umanità. La prescrizione al riguardo è di ordine costituzionale; il divieto di trasformare la pena in trattamenti inumani o degradanti la dignità della persona è al centro dell’ordinamento repubblicano e non può essere violato con leggerezza in forza di richiami demagogici all’assolutezza della giustizia. Abbreviare o condonare la pena è stato in ogni tempo prerogativa del potere politico e dei suoi rappresentanti statuali: contrario alla giustizia è aggravare la pena oltre ciò che la legge del tempus commissi delicti prevede, come disponeva la “spazzacorrotti” per i reati commessi prima della sua entrata in vigore. E’ tempo che i governanti del nostro Paese – nonché gli oppositori del governo – abbandonino gli interessi di parte e riconoscano che la diffusione del COVID19 costituisce un grave motivo per derogare alla legge scritta e accedere all’istanza dell’equità.