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Fra Eurogruppo e Vertice UE del 23 aprile. Quali aiuti attendere dall’UE e quali fonti attivabili in autonomia?

  1. Per mantenere un certo tenore di vita servono risorse. Ciò vale tanto per le famiglie, quanto per lo Stato (locuzione con cui, per semplicità, si intenderà il coacervo di pubbliche amministrazioni statali, regionali, locali e non territoriali di cui si compone la Repubblica) in un sistema, come quello italiano, in cui esso è chiamato a intervenire per compensare i “fallimenti del mercato”, ossia tutti i casi in cui il libero sistema economico non è in grado di garantire il benessere minimo di cui si ritiene che tutti i cittadini debbano godere.
    Il coronavirus ha prodotto per lo Stato un effetto assimilabile a quello che produce in una famiglia la caduta in grave e lunga malattia di chi apporta reddito. Solo che, per lo Stato, non esistono salvagenti come sono per i privati le assicurazioni sanitarie e lavorative, in Italia fortunatamente obbligatorie, che consentono di curarsi e di integrare il reddito mentre la malattia impedisce di lavorare e, quindi, di guadagnare.
    Come per i privati, se si vuole mantenere un certo tenore di vita ma mancano i soldi le alternative sono essenzialmente (a) trovare nuove fonte di entrate, oppure (b) rivolgersi a parenti, amici o specialisti del credito per ottenere i soldi necessari. Se in nessun ambito si riescono a trovare i soldi necessari, occorre ridurre le spese e, quindi, il tenore di vita.

 

  1. Calandosi nel contesto dello Stato, e in particolare della situazione italiana attuale, riguardo a tali strategie si può affermare quanto segue.
    A) Per trovare nuove entrate, a parte i prestiti di cui si dirà nel successivo punto B), lo Stato può innanzitutto imporre nuovi tributi oppure vendere il proprio patrimonio.
    La prima strada appare inopportuna. In un Paese che già si contraddistingue per una delle pressioni fiscali più elevate al mondo e che si trova oggi in una condizione di prostrazione economica e morale a causa del coronavirus, l’aumento della pressione tributaria sarebbe soluzione, per un verso, di dubbia utilità (poiché ciò di cui oggi vi è bisogno è incentivare la produttività e la capacità di consumo, non farle oggetto di nuovi tributi che producono di natura un effetto disincentivante e di riduzione della liquidità disponibile), e per altro verso controproducente sotto tutti i profili.
    La seconda strada appare in parte improponibile, in altra parte scarsamente idonea a fronteggiare l’emergenza nell’immediato. Essa è improponibile nella misura in cui andasse a incidere su quella parte di patrimonio che riveste un significato per il Paese. Ma, se ancora si trovasse patrimonio pubblico ridondante pur dopo le tante campagne di dismissione realizzate negli ultimi anni, i tempi che la cessione o cartolarizzazione richiederebbe sarebbero lunghi e le procedure complesse. L’unica eccezione a quanto detto è rappresentata dalle riserve auree, che per l’Italia valgono circa 100 miliardi di euro, custoditi in naftalina: è oggi, forse, il momento di mettervi mano, anche solo in parte, ma con grande oculatezza e prudenza. Se è vero, infatti, che l’Italia ha una riserva aurea tra le più cospicue del mondo e che essa a oggi non risponde più alla funzione tradizionale di garantire la convertibilità in oro di una moneta nazionale, donde la possibilità di un utilizzo razionale ad altri fini; è anche vero che l’intervento sulle riserve auree – se operato in maniera disordinata e senza spiegare adeguatamente prima i motivi del ricorso a questa particolare risorsa, che può risultare ragionevole solo in una prospettiva di mero tamponamento delle esigenze più immediate di liquidità  provocate dalla crisi attuale (poiché anche l’intero ammontare delle riserve non sarebbe sufficiente per risolvere il problema nel medio-lungo termine) – potrebbe essere percepito dai mercati come ultima mossa di uno stato bancarottiero, provocando un drammatico effetto di ulteriore contrazione del credito, levitazione dello spread e danni economici consequenziali.
    Oltre a ciò gli Stati possono, in generale, avere un’arma in più rispetto ai privati per trovare nuove risorse, ossia emettere moneta. Come si sa, l’Italia ha ceduto tale potestà all’Eurozona, per cui non può disporre direttamente di tale potere. All’emissione di moneta equivale, da un punto di vista dell’effetto economico immediato, cioè dell’immissione di nuova liquidità nel sistema economico, l’acquisto di debito pubblico da parte della banca centrale depositaria del potere di batter moneta: così, infatti, la banca centrale finanzia più o meno direttamente l’amministrazione dello Stato, concedendo a essa il denaro di cui ha bisogno e, quindi, immettendo in circolazione nuova liquidità. Ciò è quanto sta facendo la BCE acquistando buoni del tesoro italiani grazie al Quantitative Easing.
    La principale – e non certo trascurabile – differenza tra il collocamento del debito presso la banca centrale e la pura stampa di moneta è che il debito prevede una restituzione, mentre l’emissione di moneta no. La discrasia tra i due sistemi di finanziamento può avvenire soltanto laddove lo Stato eserciti il potere di consolidare o ristrutturare il debito verso la banca centrale, fino ad annullarlo unilateralmente. In tutti i casi, si tratta di operazioni particolarmente delicate. L’utilizzo della politica monetaria per finanziare la spesa pubblica deve essere attento, poiché genera per sua natura una svalutazione della moneta e, quindi, un fenomeno d’inflazione. L’inflazione non è un male in sé, ma va mantenuta entro certi limiti per non perderne il controllo, con i conseguenti effetti che ciò produce (anzitutto, la perdita di potere della moneta sui mercati internazionali, con conseguente difficoltà a importare dall’estero, perché più costosi, i beni non disponibili nel mercato interno).
    In questo, ha senso porre un limite all’acquisto di debito da parte della BCE, sebbene il limite attualmente praticato (e prospettato) appaia eccessivamente restrittivo e, come tale, meriti di essere allentato mostrando una maggiore disponibilità ad acquistare il debito degli Stati in difficoltà. L’intervento sulla restituzione del debito, poi, genera un evidente effetto dissuasivo nel concedere prestiti per il futuro, con la conseguenza che potrà essere ragionevolmente praticato soltanto quando lo Stato abbia raggiunto un equilibrio di bilancio tale da generare una situazione di costante accreditamento netto (ossia un saldo di conto economico stabilmente positivo, a sua volta derivante da una differenza stabilmente positiva tra entrate pubbliche, da un lato, e spese pubbliche incluse quelle per servizio del debito pubblico da restituire, dall’altro lato) e, quindi, da non aver più bisogno d’indebitarsi.
    B) Ciò che per una famiglia è rivolgersi a parenti, amici o specialisti del credito per ottenere i soldi necessari, per uno Stato è rivolgersi agli investitori (interni o stranieri) o ai partner internazionali. Ed è qui che sta il cuore del discorso relativo al rapporto tra l’Italia e l’Unione Europea.
    L’Italia si è oggi rivolta all’Unione Europea e agli Stati membri come ci si potrebbe rivolgere a dei fratelli: l’Italia, fondatrice del progetto europeo, entusiasta sostenitrice anche nei momenti più difficili, generosa e costante finanziatrice di esso e dei suoi membri in difficoltà, a cominciare dalla Germania (avendo l’Italia consentito all’Accordo di Londra con cui si condonava amplissima parte del debito di guerra tedesco e dei futuri debiti incorsi per la riunificazione delle Germanie), nel momento del bisogno ha giustamente atteso di essere trattata reciprocamente dall’Unione e dai suoi Stati Membri e di ottenere, così, sovvenzioni per fronteggiare le difficoltà del dramma attuale. Tali sovvenzioni, in particolare, possono avere carattere diretto o indiretto. Le sovvenzioni dirette sono gli aiuti in denaro, da non restituire: come richiedere una donazione al fratello, oggi ricco, che tanto si è sostenuto e aiutato in passato per uscire dalle proprie difficoltà e realizzarsi. Le sovvenzioni indirette sono l’assunzione di obbligazioni comuni, finalizzate a ottenere credito sul mercato a tassi di restituzione più bassi di quelli che si otterrebbero presentandosi da soli: come richiedere al fratello ricco di presentarsi insieme in banca per chiedere il mutuo. Strada, questa, che a sua volta può essere realizzata secondo diverse modalità.
    Gli Stati membri e l’Unione Europea, al contrario, si sono rivolti all’Italia, non già come fratelli riconoscenti, ma come specialisti del credito. E infatti, dal comunicato stampa rilasciato all’esito del Consiglio Europeo del 9 aprile emerge che:
  • gli aggiustamenti del bilancio UE per tener conto dell’emergenza coronavirus dovrebbero consentire a “the hardest hit Member States” di accedere a un supporto finanziario che, per il 2020, non supererà 800 milioni di Euro (punto 9 del comunicato stampa): le modalità non vengono specificate, ma si tratta in ogni caso di somma estremamente ridotta rispetto alle esigenze dal momento, se appena si considera che la Germania ha messo a budget, per superare l’emergenza sanitaria e la conseguente crisi economica al proprio interno, circa 1 miliardo e 100 milioni di Euro;
  • i prestiti e le garanzie della BEI sono strumenti ordinari a disposizione delle imprese degli Stati membri e consistono tecnicamente in prestiti o garanzie bancari. Al riguardo, inoltre, va osservato che il monte di prestiti inserito nel pacchetto di misure per il coronavirus (che risulta a oggi circoscritto a 20 miliardi di euro per tutta l’Unione) e la possibilità di erogare garanzie fino a 25 miliardi totali (punto 15 del comunicato stampa) corrispondono per ogni Stato membro a meno di un miliardo di euro per prestiti e meno di un miliardo per garanzie. Somme, queste, manifestamente insufficienti, non soltanto a risolvere il problema della liquidità delle imprese, ma anche soltanto a dare una prima boccata d’ossigeno al Paese;
  • il SURE è un meccanismo temporaneo che prevede la concessione agli Stati membri di fondi per il finanziamento della cassa integrazione nazionale. Sennonché, allo stato attuale delle elaborazioni, ancora molto embrionali, sembra che: l’importo complessivo ammonti a 100 miliardi, da dividersi tra tutti i Paesi europei; per accedere ai fondi, gli Stati che ne beneficiano debbano rilasciare una importante garanzia; i fondi prestati agli Stati membri sulla base di criteri e tasso d’interesse ancora da definire (ma presumibilmente più basso rispetto a quello ottenibile sul mercato). In questo contesto, oltre a prevedere importi insufficienti, i meccanismi del SURE richiederebbero all’Italia di rilasciare una consistente garanzia (25 miliardi di euro, ossia una somma pari a quella stanziata dal decreto “cura Italia” e presumibilmente superiore a quella ottenibile dal SURE stesso), che di fatto difficilmente potrebbe essere conseguita se non emettendo altro debito pubblico. Il tutto per conseguire, semplicemente, un prestito a tasso d’interesse presumibilmente più basso a quello di mercato. Tasso d’interesse che, sia detto per inciso, finirebbe in questo caso da ultimo probabilmente nelle casse degli Stati membri con il PIL più elevato, ossia in primo luogo la Germania;
  • il MES è un meccanismo collaterale all’Unione Europea che prevede la concessione di fondi agli Stati aderenti che siano in crisi in cambio dell’adozione di drastiche misure di austerità, sul modello greco. Se si rivolgesse ad esso, l’Italia finirebbe per porre pressoché integralmente la propria sovranità nelle mani dei creditori stranieri, perché, di fatto, verrebbe commissariata. La circostanza che, per quanto necessario a finanziare le spese sanitarie sostenute per fronteggiare l’emergenza, l’accesso ai fondi del MES sia prospettato nel comunicato come temporaneamente subordinato a condizioni più elastiche (“standardised terms agreed in advance by the ESM Governing Bodies, reflecting the current challenges”: cfr. la prima parte del punto 16 del comunicato stampa) è un passo utile, sebbene l’importo a ciò destinato sia molto limitato (per l’Italia, si parla di un massimo di circa 36 miliardi di Euro, ossia – è bene sottolinearlo – importi ben inferiori a quanto l’Italia ha già versato e si è impegnata a versare per costituire il MES stesso), ma evidentemente insufficiente: inoltre, si tratta pur sempre di soldi da restituire (la prima parte del punto 16 del comunicato stampa parla di “credit line”) e, comunque, di un intervento diretto ad aspetti diversi dal sostegno alla ripresa economica;
  • il Recovery Fund, prospettato dalle poche righe del punto 17 del comunicato, non vede ancora neppure un accordo di massima degli Stati membri, ma soltanto un proposito di “work on [it]”. Esso dovrebbe comunque essere “temporary, targeted and commensurate with the extraordinary costs of the current crisis”. Fermo restando che la diplomazia italiana dovrà dare il massimo affinché tale fondo sia strutturato e finanziato in modalità e misura adeguate, non appare possibile allo stato esprimere considerazioni in merito, stante l’assoluta genericità e vaghezza del proposito contenuto nel comunicato stampa.
  1. Se i dettagli sono ancora estremamente vaghi su tutti i fronti, il quadro sembra tuttavia ormai delineato per ciò che attiene all’impostazione di fondo che l’Unione Europea e gli Stati membri hanno voluto dare ai rapporti con l’Italia nella vicenda coronavirus. Pur nell’auspicio che quanto meno nel fondo di solidarietà si riversino strumenti finalmente efficaci, possono quindi già formularsi alcune prime considerazioni.
    3.1. L’Unione Europea ha e mantiene la matrice di un mercato comune: come tale, le è sostanzialmente estranea la dimensione della solidarietà, della generosità, della gratuità. Continuare a parlare di casa comune europea, di prospettiva federale dell’Unione e simili, equivale a sperare che, invocando un concetto, esso si materializzi. Allo stato attuale, non ve ne sono le condizioni ed è difficile che esse si realizzino un domani se non vi sarà un salto di qualità sul piano dei valori su cui si fonda l’Unione. Conseguentemente, comportarsi verso l’Unione e verso gli Stati membri con la generosità con cui l’Italia lo ha fatto in passato, smantellando troppo superficialmente la propria sovranità, non è sempre saggio: gli interlocutori europei non sono fratelli di sangue, sono realtà economiche che, come tali, possono comportarsi da partner o competitor a seconda degli interessi in gioco. I trattati, i regolamenti e le direttive europee sono ricche di riserve poste volta per volta dagli Stati membri per tutelare adeguatamente i propri interessi nazionali: soltanto la casella italiana delle riserve e delle precisazioni è quasi sempre stata vuota. Ciò non è frutto soltanto della scarsa lungimiranza di una classa dirigente incapace di comprendere i rischi della cessione di sovranità e quindi di delimitarla con accortezza; è frutto anche di una visione dell’Europa ideologica e mitizzata, secondo cui tutto ciò che viene da essa è buono. Non è così ed è l’ora di rendersene conto.
    3.2. Il mercato comune europeo va valutato come tale. In questa prospettiva, l’Unione Europea funziona troppo e male:
  • funziona troppo, perché dal Trattato di Maastricht in poi l’Europa è stata caricata di competenze para-politiche e para-solidaristiche che strutturalmente non le si confanno, tanto che l’attuazione delle iniziative che intorno a esse ruotano devono sempre passare per il tramite decisionale e applicativo degli Stati membri e delle amministrazioni nazionali. Nell’illusione che gli Stati Europei fossero pronti a superarsi, si rischia così di compromettere anche un progetto economico razionale;
  • funziona male perché, quando si tratta di limitare la sovranità degli Stati, l’Europa fa di tutto per forzare le proprie competenze, aumentandole ben al di là di quanto consentito dai trattati. Si pensi alla spasmodica dilatazione delle competenze in materia di aiuti di Stato, strumento ormai abitualmente utilizzato per imporre illegittimi vincoli europei a settori (come imposte dirette e tributi locali) estranei alle competenze che gli Stati hanno affidato all’Unione tramite i Trattati istitutivi. Oppure si pensi alle scorribande del Parlamento di Strasburgo in materie eticamente sensibili, quanto di più estraneo vi è alle competenze dell’Unione. Quando, invece, si tratta di forzare le competenze per aiutare gli Stati, essa alza le mani appigliandosi ai limiti dei Trattati. Si tratta di un approccio “schizofrenico”, che mina la credibilità delle istituzioni europee e del progetto che esse dovrebbero realizzare;
  • inoltre, l’Unione Europea funziona male nel promuovere il mercato comune anche perché si concentra con gran pignoleria sui dettagli (regolamentare le quote latte, la dimensione delle uova, il divieto di giochi gonfiabili in spiaggia per bambini e accendini colorati), ma non si attiva per affrontare gli squilibri di sistema come, ad esempio, gli sbilanciamenti commerciali tra Stati che vivono una situazione di costante surplus della Germania nei conti con gli altri Stati membri.
    3.3. Da quanto sopra possono trarsi alcune conclusioni.
    A) La prima è che l’Italia deve valutare l’opportunità di avvalersi degli strumenti posti a disposizione dall’Unione Europea, e sopra sinteticamente elencati nel par. 2, punto (B), libera da condizionamenti ideologici, ma sulla base degli interessi della comunità nazionale, che non sono egoismi, ma tessere di bene comune troppo spesso dimenticate. L’Europa chiede molto agli Italiani, sia in termini finanziari, sia in termini di limitazioni della sovranità, ossia della possibilità di dettare norme liberamente decise per adeguarsi al meglio alla comunità nazionale. Nel momento in cui ciò che essa chiede è superiore a ciò che essa è capace di dare, specialmente quando si è nel bisogno, l’apertura a riflessioni più ampie non è un’eresia, ma può essere anzi un’occasione di crescita per tutti. Ed è naturale che, in tali riflessioni, tutte le variabili siano da soppesare con ragionevolezza, tenendo conto, pertanto, anche che agli insufficienti strumenti per fronteggiare l’emergenza sopra ricordati devono essere idealmente sommati i benefici sistematici che l’appartenenza all’Eurozona permette in termini di accesso a un mercato ampio (e, quindi, di potenziale sbocco per i beni e servizi prodotti nel Paese, con conseguente funzione di stimolo della crescita economica) senza necessità di svalutazione della moneta (e, quindi, in un contesto capace di tutelare il potere d’acquisto dei risparmi senza incorrere in spirali inflattive).
    B) La seconda conclusione è che bisogna tornare a confidare di più sulle forze che provengono dall’interno del Paese, fino ad oggi troppo trascurate e sottovalutate. In questa emergenza coronavirus, gli Italiani hanno dimostrato una solidarietà straordinaria, anche sotto il profilo economico. Lo Stato deve razionalizzarla, anzitutto facendo appello agli Italiani affinché finanzino spontaneamente lo Stato stesso in questo momento di bisogno. A giudicare da quanto avvenuto in questi giorni, non vi è dubbio che gli Italiani lo faranno. E’ quindi davvero auspicabile l’emissione di titoli di debito pubblico ad hoc, come potrebbero essere dei Buoni del Tesoro di Solidarietà Nazionale: (1) vincolati nella destinazione allo specifico fine di fronteggiare l’emergenza sanitaria ed economica causata dal coronavirus; (2) a scadenza pluridecennale (si potrebbe partire con titoli ventennali, per soddisfare le esigenze di risorse più immediate, per giungere anche a una scadenza cinquantennale, per soddisfare le esigenze di medio-lungo termine, soprattutto post-coronavirus); (3) sottoscrivibili, previa adeguata informativa pubblica e bancaria, in deroga agli ordinari schemi bancari di profilatura di propensione al rischio basati sulle direttive “MIFID”; (4) liberamente trasferibili, così da permettere, se si crea un mercato in ragione dei tassi di interesse offerti, l’eventuale smobilizzo in tutto o in parte; (5) con un tasso di interesse calmierato ed esente da imposizioni, circostanza, quest’ultima, che permette già di essere competitivi sul fronte del rendimento effettivo.
    Al rispetto di condizioni di questo genere è legato il successo dell’iniziativa, prospettata dall’aggiornamento alle linee guida della gestione del debito pubblico divulgato dal Dipartimento del Tesoro per l’Aprile 2020, di emettere un “nuovo strumento di tipo nominale (…) specificatamente dedicato agli investitori retail”. In questa prospettiva, per motivare gli Italiani (o chiunque abbia a cuore la ripresa del Paese) a convogliare nei titoli la propria generosità, non appare sufficiente annunciare che “esplicito obiettivo sarà quello di contribuire alla copertura dei provvedimenti già varati e ancora da varare da parte del Governo per fronteggiare la crisi sanitaria ed economico-finanziaria prodotta dalla diffusione del virus Covid-19”, ma occorre vincolare giuridicamente le somme raccolte tramite i buoni di solidarietà all’utilizzo per tali finalità. Ciò che dovrà esser fatto, derogando al principio di unità del bilancio, mediante creazione di appositi vincoli di destinazione delle entrate derivanti dai prestiti ai capitoli di spesa maggiormente interessati dall’emergenza coronavirus: solo così gli Italiani potranno avere la certezza giuridica che le somme prestate non finiscano nel calderone di una spesa pubblica spesso improduttiva e potranno senza remore incaricare lo Stato di raccogliere e gestire le espressioni di generosità, nella prospettiva di toccare con mano (e verificare, anche in prospettiva di responsabilità politica) il beneficio che da esse la comunità nazionale potrà godere.
    Nel caso in cui fossero richieste risorse aggiuntive rispetto a quelle ritratte dalla contribuzione spontanea, anziché consegnarsi a un commissariamento internazionale, la soluzione migliore è quella di imporre la sottoscrizione di tali titoli, a condizioni analoghe, in una certa percentuale (per ipotesi, compresa tra il 2 e il 5 per cento) per giacenze finanziarie in Italia e all’estero che superino una soglia considerabile di vera ricchezza (ossia nell’ordine di almeno un milione di euro, al netto dell’importo dei buoni di solidarietà già sottoscritti spontaneamente e delle imposte patrimoniali sul risparmio già pagate in Italia negli ultimi anni). Si tratterebbe, sì, di un intervento coattivo, assumendo le vesti di un “prestito forzoso”, ma evidentemente più “morbido” e accettabile dall’opinione pubblica rispetto all’introduzione di nuove imposte patrimoniali, anche una tantum, o all’inasprimento di quelle esistenti, già percepite come eccessivamente gravose, oltre che caratterizzato per sua natura da prospettive di remunerazione (che limitano gli effetti depressivi sulla propensione al consumo e al risparmio) e di rientro delle somme versate (se del caso, scaglionabile nel tempo, ad esempio in tranche decennali di quote progressivamente crescenti) che, invece, sono assenti per i prelievi propriamente impositivi. Il meccanismo del prestito forzoso, inoltre, si presta a stimolare ciascuno dei sottoscrittori a impegnarsi al massimo affinché i prestiti possano essere restituiti (senza trasformarsi in un prelievo patrimoniale a tempo differito) e, quindi, affinché l’economia nazionale possa ripartire: così, magari, ottenendo anche l’effetto di invogliare a far rientrare in Italia eventuali attività finanziarie o produttive attualmente dislocate all’estero.
    C) In terzo luogo, la permanenza nell’Unione Europea non deve rallentare l’attività del Governo nel cercare partner internazionali anche al di fuori dell’Unione stessa. In questa prospettiva, il memorandum firmato dal Presidente degli Stati Uniti il 10 aprile “Providing COVID-19 Assistance to the Italian Republic” e che prevede, nella sezione 6, aiuti finanziari all’Italia in questa fase d’emergenza “to support the recovery of the Italian economy” deve essere coltivato con la massima serietà da parte dell’Italia, per molti motivi. Esso proviene da un Paese che, diversamente da molti Stati membri dell’Unione, si è dimostrato capace di vera solidarietà verso gli Europei grazie al piano Marshall. La contropartita per la solidarietà USA non richiede azzardati ricollocamenti geopolitici, che pur all’Italia vengono più o meno esplicitamente proposti in queste settimane, ma il rafforzamento di un’alleanza storica e ben radicata. Il sostegno proveniente da fuori Bruxelles ha anche, come effetto indiretto, quello di aumentare concretamente il potere negoziale dell’Italia in Europa, evitando ad essa il ruolo sterile di innamorata sedotta, abbandonata e impermalita.

 

Per l’Italia, le possibilità di uscire dalla crisi e far rinascere l’economia esistono e sono molteplici. Basta guardarsi dentro, guardarsi intorno e agire con intelligenza avendo sempre di fronte l’interesse della comunità nazionale, senza indulgere a visioni idealistiche della realtà internazionale. L’Unione Europea è un possibile tassello di tali soluzioni, ma le sorti dell’Italia non dipendono integralmente da essa.

Prof. Avv. Angelo Contrino
Professore Ordinario di Diritto Tributario nell’Università “Bocconi” di Milano

Avv. Francesco Farri
Dottore di ricerca in Diritto dell’Economia e dell’Impresa nell’Università “La Sapienza” di Roma

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