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Desta non poche perplessità il lavoro svolto dalla ‘Commissione indipendente’ voluta dalla Conferenza episcopale francese, sugli abusi sessuali commessi dal clero francese a partire dagli anni 1950 nei confronti di minori e soggetti vulnerabili. Il presidente emerito di sezione della Cassazione Pietro Dubolino sottopone a verifica i criteri della ‘stima’ quantitativa effettuata e dell’attendibilità dei risultati raggiunti; ma soprattutto pone in guardia dalla ‘raccomandazioni’ conclusive, che sconfinano nella potestà della Chiesa, e rischiano, fra l’altro, di incrinare il segreto della Confessione.

1.  Si legge nel vangelo secondo Matteo (cap. 10, vers. 16) che Gesù Cristo  esortò i suoi  discepoli ad essere non solo “semplici come colombe” ma anche “ prudenti  come serpenti”. Se la Conferenza episcopale francese (CEF) e la Conferenza dei religiosi e religiose di Francia (CORREF) avessero tenuto presente questa esortazione ci avrebbero, forse, riflettuto prima di promuovere la costituzione della  “Commissione  indipendente” che, presieduta dal  vice presidente onorario del Consilio di Stato Jean Marc Sauvè, avrebbe dovuto, secondo la lettera d’incarico: “far luce sugli abusi sessuali commessi su minori e persone vulnerabili” a partire dall’anno 1950; “studiare la maniera con la quale questi affari sono stati trattati, tenendo conto  del contesto delle epoche interessate”; “valutare le misure prese dalla CEF come pure dalla CORREF a partire dagli anni 2000 per fare tutte le raccomandazioni ritenute utili”.

La commissione ha riferito l’esito dei suoi lavori in un alluvionale rapporto, pubblicato nei primi giorni del corrente mese di ottobre e reperibile, nella sua interezza, su internet.  Da esso risulta – ed è il dato enfaticamente ed acriticamente messo in luce da quasi tutti i mezzi di informazione, ivi compresi  quelli di (sedicente) ispirazione cattolica – che il numero complessivo di minori vittime di aggressioni sessuali ad opera di sacerdoti, diaconi, religiosi o religiose nell’arco di tempo preso in considerazione  sarebbe stato di 216.000, così determinato sulla base di una “stima” effettuata dall’INSERM-Institut national de la santè et de la recherche médicale, all’esito di una indagine condotta, su incarico della stessa commissione, su un campione di 28.010 persone.

2. A fronte di tali risultanze, va anzitutto osservato che, trattandosi, come si è appena detto,  di una  “stima”, ci si sarebbe dovuti  chiedere  (ma ben pochi lo hanno fatto) se ed in quale misura essa fosse da ritenere attendibile. E la risposta avrebbe potuto essere una soltanto: quella, cioè, che la (ipoteticamente) ritenuta attendibilità della stima, allo stato attuale delle conoscenze, potrebbe riposare unicamente su di un puro e semplice atto di fede, dal momento che invano si cercherebbe, leggendo e rileggendo le 485 pagine del rapporto, più 19 allegati, un’adeguata illustrazione dei metodi con i quali è stata condotta l’indagine e dei criteri sulla base dei quali si è giunti alla formulazione del risultato finale. 

Vi è poi da dire che  risulta  generalmente passato sotto silenzio, da parte degli organi di informazione, il fatto che, comunque, secondo lo stesso rapporto, i responsabili  degli abusi in questione sarebbero stati non più del 3% dei circa 115.000 sacerdoti e religiosi operanti in Francia tra  il 1950 e il 2020; il che significa, se la matematica non è un’opinione, che ciascuno di essi, a conti fatti, avrebbe dovuto sottoporre ad abusi, in media, non meno di 60 persone; cosa, questa, che appare, all’evidenza, difficilmente credibile .

Del tutto ignorato, inoltre, risulta anche il fatto che, sempre secondo quanto risulta dal rapporto, delle decine di migliaia di presunte vittime di abusi sessuali ad opera di sacerdoti o religiosi che, statisticamente (presa per buona la stima di cui si è detto),  dovrebbero  essere ancora in vita, soltanto  6471 avrebbero risposto all’ “appello alla testimonianza” pubblicamente diffuso dalla commissione. Il che appare tanto più significativo in quanto  si consideri che la chiesa di Francia aveva già resa nota la sua disponibilità a corrispondere adeguati risarcimenti a quanti fosse risultato che avessero subito gli abusi in questione.

E tutto ciò senza  considerare che, comunque, quelle che sono state acquisite sono soltanto dichiarazioni accusatorie, più o meno dettagliate, rese al di fuori di ogni e qualsiasi carattere di ufficialità e delle quali, per quanto è dato sapere, non risulta in alcun modo verificato ed accertato l’oggettivo fondamento; cosa che, d’altra parte, in molti casi, a causa del tempo trascorso, sarebbe stata e resterebbe alquanto difficile, se non addirittura impossibile. Volendo dare un’idea di quale possa essere, verisimilmente, il rapporto tra casi denunciati e casi accertati, appare utile ricordare che , secondo un rapporto pubblicato nell’anno 2004 da un autorevole e indipendente orgnismo scientifico degli Stati Uniti, quale il John Jay College of Criminal Justice della City University of New York, su 1021 casi segnalati alla polizia di abusi sessuali ad opera di appartenenti al clero cattolico in un arco di tempo compreso tra il 1950 ed il 2002 (rispetto ai  circa 6.700 ritenuti  originariamente “credibili”), solo 384 avrebbero dato luogo a processi nei confronti dei presunti responsabili e di costoro solo 252 sarebbero stati riconosciuti colpevoli e condannati. Ciò è quanto si apprende dalla voce di Wikipedia “Casi di pedofilia all’interno della chiesa cattolica”, il cui orientamento, come è facile constatare dalla lettura integrale del testo, appare, in generale, tutt’altro che pregiudizialmente favorevole alla Chiesa.

3. Il rapporto della commissione Sauvè, però, oltre a contenere i dati numerici di cui si è detto, si caratterizza anche per una serie di spericolate e provocatorie incursioni che, con il pretesto di voler rispondere all’invito di “fare tutte le raccomandazioni ritenute utili”, investono taluni dei principi fondamentali  sui quali si basa l’assetto istituzionale e disciplinare della Chiesa cattolica; il che appare tanto più singolare in quanto si consideri che autore di siffatte  invasioni di campo è un organo i cui componenti sono, per la massima parte, come si attesta nel rapporto medesimo, “credenti di diverse religioni, agnostici o atei”.

Tra le suddette “raccomandazioni” possono segnalarsi, ad esempio:

  • quella di rimettere in discussione, per combattere il “clericalismo” (cui si vorrebbe far risalire la causa ultima degli abusi), la costituzione gerarchica della Chiesa cattolica, in dichiarata contrapposizione alla sua immutabile validità, quale ritenuta  (e lo si ricorda anche da parte della commissione), in una pronuncia della Congregazione per il clero adottata ancora sotto il pontificato di Benedetto XVI nel febbraio del 2015;
  • quella di modificare il diritto penale canonico nel senso che, quando si tratti di abusi sessuali in danno di minori o altri soggetti vulnerabili, debba venire in primo piano la finalità di tutela delle vittime e non quella dell’emenda del colpevole, dimenticando che tutto il diritto canonico è, per sua natura e per espressa affermazione del  legislatore, finalizzato alla salvaguardia del bene supremo costituito dalla salvezza delle anime (“salus animarum”), per cui l’emenda del colpevole, comunque conseguita o conseguibile, non può che assumere rilievo prioritario rispetto alle pur legittime aspettative risarcitorie delle persone eventualmente offese dal peccato, la cui soddisfazione, d’altra parte, quando il peccato sia anche un illecito civile o penale (come è nel caso, appunto, degli abusi sessuali), rientra fra i compiti precipui della giustizia statale e non di quella ecclesiale.

Ma la più temeraria ed eclatante fra le “raccomandazioni” appare quella con la quale si propone, senza mezzi termini, che l’obbligo di conservare il più assoluto segreto su tutto quanto  appreso in confessione, al quale da sempre sono tenuti, sotto pena di scomunica, tutti i sacerdoti cattolici, dovrebbe  essere oggetto di deroga  in favore di quello “previsto dal codice penale e conforme, secondo la commissione, all’obbligo di diritto divino naturale di protezione della vita e della dignità della persona, di segnalare alle autorità giudiziarie ed amministrative i casi di violenze sessuali  inflitte ad un minore o ad una persona vulnerabile”. 

A fronte di una tale enormità  sarebbe forse stato legittimo aspettarsi una reazione un po’ più forte e decisa di quella espressa, in particolare, nell’intervista pubblicata su Avvenire del 9 ottobre 2021, dal presidente della Conferenza episcopale francese, mons. Eric De Moulins–Beaufort. Questi, invitato ad esprimere il suo pensiero sull’argomento, si è limitato a dire che “su questo punto occorre una particolare disponibilità di tutti al dialogo” e che dovrà quindi essere “spiegato” (non si specifica, però, a chi) “il valore del segreto della confessione” ( pur osservando che esso “non è mai stato messo in discussione dallo Stato francese”), come pure il fatto che “rispettare questo segreto significa rispettare pure la dignità della coscienza di ciascuno” e che, peraltro, la Conferenza episcopale francese “non rappresenta la totalità della Chiesa”, anche se – aggiunge – “rispondiamo tutti al diritto canonico”; affermazioni, queste ultime,  che appaiono, in verità, alquanto sibilline.

Alla ulteriore domanda, poi,  se questa posizione sarebbe stata mantenuta  anche nel  previsto colloquio con il ministro dell’Interno francese, l’intervistato ha risposto che questa sarebbe stata  “un’occasione per ribadire che il segreto della confessione non è un modo per aggirare le leggi” e che esso “può anzi rappresentare una prima occasione offerta  anche alle vittime per liberare la loro parola”.

Comprensibili  possono essere le ragioni  di opportunità  che hanno presumibilmente suggerito una tale prudenza, da ritenersi, d’altra parte, soltanto verbale, non potendosi certo nutrire dubbio alcuno che, nella sostanza, mons. De Moulins –Beaufort e, con lui, tutti i vescovi di Francia, siano fermamente decisi a difendere fino in fondo l’assoluta inderogabilità del segreto della confessione. Ci si potrebbe chiedere, tuttavia, se quelle ragioni sarebbero apprezzate da un san Giovanni  Nepomuceno, il quale, vissuto nel XIV secolo, fu elevato all’onore degli altari perché, essendosi  puramente e semplicemente rifiutato (senza ricorrere, per quanto se ne sa, ad argomentazioni di sorta), di accondiscendere alle insistenti  richieste di Venceslao, re di Boemia, di rivelargli quanto la moglie, da lui sospettata  di infedeltà, gli aveva detto in confessione, pagò questo rifiuto con la vita, avendo il re ordinato che, per  punizione, fosse gettato, mani e piedi legati, nel fiume Moldava. Ma erano altri tempi. 

Se fosse vissuto oggi il re Venceslao  avrebbe presumibilmente cercato di raggiungere il suo scopo  senza  ricorrere a minacce di morte ma promuovendo, per il tramite, se possibile, del vescovo locale, l’istituzione di un’apposita commissione che “raccomandasse”  all’ostinato Nepomuceno  di considerare come prevalente, rispetto all’obbligo di osservare il segreto della confessione, quello di  obbedire alla legittima autorità del sovrano.

                                                                                                                                 Pietro  Dubolino 

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