La creazione del reato di femminicidio viola il principio di uguaglianza. Distinguere la pena in base al sesso è incostituzionale, anche a fronte di un presunto movente.
Andiamo subito alla sostanza delle cose. Con l’introduzione – ormai quasi certa, a seguito del voto unanime del Senato – dell’autonomo reato di femminicidio, punibile, a differenza del comune omicidio, con l’ergastolo, si lancia alla collettività dei cittadini un chiaro messaggio: quello, cioè, che uccidere un essere umano che sia di sesso femminile comporta, solo per questa ragione, il rischio di conseguenze giudiziarie più gravi di quelle cui ci si espone uccidendone uno di sesso maschile. Alla luce dei più elementari principi di civiltà giuridica, oltre che del chiaro dettato dell’art. 3, primo comma, della Costituzione (che, nell’elenco delle discriminazioni vietate, include anche quelle basate sul sesso), non dovrebbe occorrere altro per respingere “a priori”, nel modo più assoluto e categorico, l’idea stessa della nuova figura di reato, a prescindere da quella che possa, poi, essere la sua traduzione in uno specifico testo normativo. Il solo fatto, quindi, che quell’idea sia stata concepita e che occorra perciò prendersi la briga di contestarla (sia pure, ormai, senza grandi speranze) dimostra quale sia il grado di barbarie giuridica al quale il nostro tempo sembra essere regredito. [1]
Un qualche motivo di conforto può trarsi, tuttavia, dalle numerose e autorevoli voci che, in dottrina, hanno espresso una più o meno radicale contrarietà alla figura di reato in questione, tanto in linea di principio quanto con riguardo ai profili tecnici della sua formulazione. [2]E’ però da notare criticamente che le ragioni della contrarietà vengono prevalentemente individuate nella inidoneità di detta figura di reato a combattere il vero o presunto aumento dei “femminicidi”, nella nebulosità e difficoltà di prova degli elementi che dovrebbero caratterizzarla rispetto all’omicidio comune e, più in generale, nel suo apparire come ulteriore manifestazione di quella che viene prospettata come un’abnorme propensione dell’attuale maggioranza governativa ad una sorta di “panpenalismo” a sfondo populistico, che trova la sua realizzazione della creazione di sempre nuove fattispecie criminose. Rispetto a tali ragioni, parte delle quali largamente condivisibile, un’altra è, tuttavia, quella che dovrebbe assumere – e, per la verità, anche ad essa si è, talvolta, fatto cenno – carattere prioritario e, in fin de’ conti, esaustivo: vale a dire la macroscopica violazione del principio costituzionale di eguaglianza, insita (come già anticipato) nel fatto stesso che elemento determinante, ai fini della configurabilità del reato, sia quello costituito puramente e semplicemente dal sesso femminile del soggetto indicato nella norma incriminatrice come possibile vittima dell’ azione omicidiaria. [3]
La suddetta violazione potrebbe essere esclusa soltanto se le particolari motivazioni dell’azione omicidiaria che dovrebbero renderla qualificabile come “femminicidio” fossero tali, per loro natura, da essere concepibili soltanto da un uomo nei confronti di una donna. Ma così non è. Per rendersene conto basta leggere – tralasciando, per brevità, quella originaria contenuta nel disegno di legge governativo – la formulazione del reato di “femminicidio” nel testo approvato all’unanimità dal Senato e trasmesso, per la definitiva approvazione (salvo imprevisti), alla Camera dei deputati. Essa è la seguente: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali, è punito con la pena dell’ergastolo”. Ora, è del tutto evidente che chiunque, a prescindere dal suo sesso biologico come pure dalle sue inclinazioni e pratiche sessuali, può essere privato della vita per le ragioni sopra indicate, ivi comprese quelle costituite dal “controllo o possesso o dominio” che altri pretenda di esercitare su di lui, in quanto appartenente ad un determinato sesso, senza che questo debba essere necessariamente quello femminile. Se si ammette, infatti, che una donna, in quanto tale, possa essere oggetto di “controllo o possesso o dominio” non può ragionevolmente escludersi, se non sulla base di preconcetti ideologici o socio-politici dogmaticamente assunti come indiscutibili, che lo stesso possa avvenire, sia pure in casi statisticamente eccezionali, anche per un uomo, ad opera tanto di una donna quanto, nei rapporti, omosessuali, di un altro uomo. Così come, del resto, fermo restando il riferimento alla sola donna come possibile vittima del reato, nulla può escludere che di esso, anche per la specifica ragione in discorso – oltre che, ovviamente, per tutte le altre – si renda responsabile un’altra donna. [4]
Ma, in realtà, a dimostrazione della palese incostituzionalità della norma in discorso, per violazione del principio di uguaglianza, basterebbe fare riferimento a quella che, in pratica, sarebbe quasi sempre individuata, per la sua frequenza e per la sua facile riconoscibilità, come la causa determinante del “femminicidio”: vale a dire il puro e semplice “rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo”. Un identico rifiuto, infatti, può provenire da un uomo nei confronti del “partner” di un rapporto affettivo, sia esso una donna o un altro uomo, e può quindi essere causa di una reazione omicida ad opera dello stesso “partner”. Non si vede, quindi, come possa giustificarsi il fatto che, mentre quest’ultimo, nell’ipotesi ora data, andrebbe incontro ad una incriminazione per semplice omicidio, punibile con l’ergastolo solo in presenza di talune specifiche aggravanti da verificare di volta in volta, quando, invece, la reazione omicida al rifiuto del rapporto affettivo, “coeteris paribus”, sia posta in essere nei confronti di una donna, per questa sola ragione il responsabile dovrebbe essere automaticamente esposto alla pena dell’ergastolo.
Si è voluto, da taluni, sostenere che quello che potrebbe apparire come un contrasto del reato di “femminicidio” con il principio di uguaglianza affermato nel primo comma dell’art. 3 della Costituzione sarebbe, in realtà, da escludere alla luce del secondo comma dello stesso articolo. Ciò in quanto la previsione del suddetto reato risponderebbe alla finalità di promuovere la rimozione di quella che sarebbe, tuttora, la condizione di sistematica inferiorità della donna rispetto all’uomo, anche sotto il profilo della tutela dei suoi diritti fondamentali, ivi compreso quello alla vita.[5] Ragionamento, questo, che però, se accettato, dovrebbe portare, per logica, alla paradossale conseguenza che non solo per l’omicidio ma per quasi ogni altra ipotesi di reato dovrebbe crearsi, per il caso che l’illecito abbia avuto come vittima una donna, una fattispecie “gemella”, caratterizzata da maggiore severità sanzionatoria, o, quanto meno, dovrebbe rendersi applicabile un’apposita aggravante.
E che si tratti, in realtà, di un ragionamento al quale non possa prestarsi la benché minima adesione dovrebbe emergere, in primo luogo, dalla considerazione che – a parte la estrema opinabilità del presupposto di fatto che ne è posto alla base – esso postula che, contrariamente ai più elementari principi di civiltà giuridica affermatisi da secoli, possa ricomprendersi, tra i mezzi volti alla realizzazione delle finalità di cui al secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, anche quello di assegnare alla repressione penale una funzione di contrasto a vere o presunte ingiustizie riscontrabili nel vigente assetto, in generale, dei rapporti familiari o sociali e delle quali non possa dirsi personalmente responsabile l’autore dell’illecito ma piuttosto il “tipo” di umanità al quale egli appartiene e dal quale gli deriverebbero le ataviche pulsioni a porre in essere un certo tipo di condotte. In tal modo, oltre a stravolgere il vero significato da attribuirsi alla citata norma costituzionale, ci si scorda anche del principio, lapidariamente affermato nell’art. 27, primo comma, della stessa Costituzione, per il quale “la responsabilità penale è personale”. [6] Il che – ammessa e non concessa la configurabilità, in astratto, di “colpe collettive” – esclude, comunque, che di tali colpe possa essere in qualsiasi modo gravato il singolo autore del reato che si assuma ad esse riconducibile.
Più in generale vi è, poi, da osservare che il suddetto ragionamento sembra fondarsi sull’implicito assunto che le finalità di realizzazione di una uguaglianza “sostanziale”, quali indicate nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, possano essere perseguite a scapito dell’uguaglianza giuridico-formale di tutti i cittadini davanti alla legge, imposta e garantita dal primo comma dello stesso articolo. Assunto da riguardarsi anch’esso come del tutto inaccettabile, in quanto implicherebbe che, per promuovere una determinata categoria di cittadini, ritenuta svantaggiata, se ne potrebbe “declassare”, per così dire, un’altra, ponendola in condizione di inferiorità rispetto alla prima. La corretta interpretazione dell’art. 3 Cost., nel suo complesso, non può che partire, invece, dalla intangibilità dell’uguaglianza giuridico-formale di tutti i cittadini, per aggiungervi, poi, quando necessario e per quanto possibile, quella sostanziale, solo “ad integrazione” [7] della prima.
E’, però, pressoché inutile dire, a questo punto, che, ad onta di quanto finora argomentato, l’introduzione nel codice penale del nuovo reato di “femminicidio”, nonostante quella che, nel testo licenziato dal Senato, appare la sua palese incostituzionalità, sarà, con ogni probabilità, trionfalmente approvata, in via definitiva, anche dalla Camera dei deputati. Rimane, quindi, solo da chiedersi se, una volta entrata in vigore la norma, un qualche giudice, presentandosene l’occasione, troverà il coraggio di sollevare la questione di costituzionalità e se la stessa Corte costituzionale troverà il coraggio di accoglierla. Ma la più elementare prudenza dovrebbe indurre a non nutrire, al riguardo, eccessive speranze.
Pietro Dubolino
- 1 Per fare un raffronto può ricordarsi, ad esempio, che nel codice penale del 1930, la norma che prevedeva il delitto d’onore (art. 587), pur se chiaramente concepita in adesione ad un costume sociale nel quale l’onore era inteso come prerogativa essenzialmente maschile, era tuttavia formulata in modo tale per cui essa, a parità di condizioni, poteva trovare applicazione anche in favore di una donna che, per motivi d’onore, uccidesse un uomo. Autore del delitto d’onore poteva essere, infatti, “chiunque” e vittima poteva esserne non necessariamente la moglie ma “il coniuge” di cui si scoprisse la “illegittima relazione carnale”. Non diversa, sotto questo profilo, era la formulazione dell’analoga figura di reato prevista nell’art. 377 del previgente codice penale Zanardelli. E, andando più indietro nel tempo, può osservarsi – sulla scorta di quanto affermato da Filippo Maria Renazzi, titolare, fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, della cattedra di “diritto criminale” nello Studium urbis, nei sui Elementa juris criminalis, lib. IV, cap. V, § II.– che, nella nozione di “parricidio”, originariamente riferibile alla sola soppressione del “paterfamilias”, era venuta, col tempo, a comprendersi, con conseguente equiparazione della risposta sanzionatoria, la soppressione di qualsiasi congiunto, indipendentemente dall’essere il medesimo di sesso maschile o femminile. Può legittimamente dedursene che, a quei tempi, almeno formalmente, su certe materie, tra cui, in primo luogo, il rispetto della vita umana, non potesse ammettersi distinzione alcuna a seconda che la vita sacrificata fosse quella di un uomo o di una donna.
- [2] Tra gli altri: Giovanni FIANDACA, Cari prof. di diritto penale, è ora di protestare contro il delitto di femminicidio, in “Il foglio”, 13 marzo 2025 e Sistema penale, 14 marzo 2025; Andrea FOLCARELLI, Note critiche sul ddl femminicidio, “Giustizia insieme”, 18 luglio 2025; Vincenzo MONGILLO, Diritto penale e ingegneria simbolica: i limiti della proposta di un nuovo delitto di femminicidio e le esigenze di tutela effettiva, in Sistema penale, 12 giugno 2025; Roberto BARTOLI, Il tornante del femminicidio: si compirà il passaggio dal populismo al sadismo penale?, in Sistema penale, 15 luglio 2025; Massimo DONINI, Perché non introdurre un reato di femminicidio che c’è già, in Sistema penale, 18 marzo 2025; Aldo Rocco VITALE e Daniele TRABUCCO, Femminicidio: un reato simbolo tra ipertrofia penale e deriva antiegualitaria, in Ticinolive, quotidiano della Svizzera italiana, 25 luglio 2025; Vittorio MANES, Perché il reato di femminicidio non sta in piedi. Parla il Prof. Manes, in il Foglio, 11 marzo 2025. Da notare, inoltre, il documento “Contro l’introduzione del delitto di femminicidio”, sottoscritto da oltre settanta professoresse, ricercatrici e studiose penaliste, pubblicato in Sistema penale, 28 maggio 2025. Tra i favorevoli, invece, all’introduzione della nuova figura di reato (sia pure, qua e là, con varie riserve) possono segnalarsi: Paola DI NICOLA TRAVAGLINI, Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, in Sistema penale, 2 maggio 2025; Francesco MENDITTO, Riflessioni sul delitto di femminicidio, Sistema penale, 2 aprile 2025; Claudia PECORELLA, Perché può essere utile una fattispecie di femminicidio, Sistema penale, 2 giugno 2025. Non contrario, in linea di principio, ma con proposte di radicali modifiche, risulta poi anche Gian Luigi GATTA, Il reato di femminicidio: una proposta da riformulare. Tra realpolitik e principi costituzionali, in Sistema penale, 20 giugno 2025.
- [3] In tal senso risulta essersi espressa, in particolare, la Commissione diritto e procedura penale costituita presso l’Associazione nazionale magistrati nel parere redatto il 15 maggio 2025 e riportato in Sistema penale, 30 maggio 2025; parere in cui, tra l’altro, si legge che “deve evidenziarsi come il principio di eguaglianza risulti leso dalla specificazione della persona offesa tutelata dall’art. 577-bis c.p. (collocazione assegnata, nel codice penale, al futuro reato di “femminicidio” -N.d.R.) non potendosi ammettere una diversa considerazione della gravità del reato per il fatto che colpisce la vita di una donna, anziché quella di un uomo”.
- [4] Il problema è stato visto anche da GATTA, op. cit., il quale, al dichiarato scopo di mettere la nuova figura di reato “al riparo da possibili rilievi di incostituzionalità per violazione del principio di uguaglianza” suggerisce di “modificare la rubrica in <<Femminicidio e uccisione per motivi di genere>> e intervenire altresì sulla descrizione della fattispecie facendo riferimento al cagionare la morte <<di una donna o di un’altra persona>>. Di una possibile violazione del principio di uguaglianza si preoccupa anche MONGILLO, op. cit., limitatamente, però, al fatto che il prevedere come possibili vittime del reato soltanto le donne comporterebbe “un’asimmetria nella protezione giuridica, che finisce per vestire di tutela penalistica rafforzata una sola categoria soggettiva, escludendo altri gruppi ugualmente vulnerabili”.
- [5] In tal senso, in particolare, Paola DI NICOLA TRAVAGLINI, op. cit., la quale evoca anche, a sostegno, fonti convenzionali, tra cui, in particolare, gli artt. 4 e 12 della Convenzione di Istambul dell’11 maggio 2011, ratificata dall’Italia con la legge n. 77/2013, e l’art. 5 della CEDAW (Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione delle donne), adottata dall’assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 e ratificata dall’Italia con la legge n. 132/1985. Fonti, quelle anzidette, dalle quali, peraltro – per come riportate dalla stessa A. – altro non emerge se non il generico impegno degli Stati sottoscrittori ad “assumere le misure specifiche necessarie per prevenire la violenza e proteggere le donne contro la violenza di genere” (con la specificazione che dette misure “non saranno considerate discriminatorie”) ed a “modificare le pratiche legali o consuetudinarie che favoriscono la persistenza e la tolleranza della violenza contro le donne”.
- [6] Si veda anche, in proposito, Roberto BARTOLI, op. cit., il quale si chiede se il secondo comma dell’art. 3 Cost. “possa essere utilizzato per incriminare a prescindere da vulnerabilità concrete della vittima, ma in termini di mera discriminazione culturale, muovendo dall’idea che il fatto offensivo sia espressione di una cultura discriminatoria”. A tale interrogativo egli dà risposta negativa, sulla scorta di un’articolata motivazione nella quale, tra l’altro, si mette in luce come, nell’opposto orientamento, possano scorgersi “i germi di una sorta di autoritarismo penale derivante non tanto dall’incriminazione di libertà, ma dall’imposizione socio-culturale dell’eguaglianza muovendo dall’idea che la nostra società manifesta un dislivello culturale divenuto strutturale tra uomo e donna”.
- [7] Così, testualmente, Costantino MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, 1962, p. 842.