Con l’esplosione della pandemia e la pressione senza precedenti esercitata sul sistema sanitario, hanno ricominciato a soffiare i venti del riaccentramento delle competenze in materia sanitaria. I fautori di tale anacronistica tesi sembrano trascurare che l’art. 117 annovera la “tutela della salute” – espressione che ha sostituito la vecchia e circoscritta “assistenza sanitaria e ospedaliera” – tra le competenze concorrenti: la conseguenza è che le Regioni possono intervenire attraverso le proprie norme di dettaglio, ma sempre nel rispetto dei principi fondamentali statali. Non solo: lo Stato gode della competenza esclusiva, e trasversale, in materia di livelli essenziali delle prestazioni sui diritti civili e sociali da assicurare su tutto il territorio nazionale. Tra questi ultimi si collocano i livelli di assistenza sanitaria, aggiornati nel 2017, cioè quell’insieme di prestazioni che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro il pagamento di una quota di partecipazione (il ticket), e con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (cioè le tasse). Si tratta di diritti che costano, soprattutto perché occorre garantirli in modo uniforme ed equo; e sono finanziati dalla collettività, perché costituiscono beni collettivi.
Prima dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale, nel 1978 con la legge n. 833, le prestazioni di rilievo sanitario venivano erogate essenzialmente a livello comunale, tramite le unità sanitarie locali, strutture operative dei Comuni. Con la riforma del 1992, c.d. riforma-bis, si è tentato di porre al centro dello scenario la Regione, cui sono state attribuite maggiori funzioni programmatorie, organizzative e finanziarie; inoltre, le USL sono state trasformate in Aziende con personalità giuridica pubblica, e hanno cessato di essere enti strumentali dei Comuni, diventando enti strumentali delle Regioni. Il processo di regionalizzazione del sistema è stato completato con la riforma-ter del 1999, che ha devoluto al livello regionale, in un’ottica di sussidiarietà, la generalità delle funzioni in materia sanitaria, valorizzando il ruolo delle Regioni nell’elaborazione del Piano Sanitario Nazionale. Infine, è stato rafforzato il ruolo dei Comuni e la partecipazione dei cittadini all’attività di programmazione.
In tale quadro, soltanto grazie alla differenziazione alcune Regioni hanno potuto dimostrare la bontà delle soluzioni gestionali adottate: il che è stato possibile proprio grazie alla regionalizzazione della sanità, che ha consentito di devolvere al livello regionale le competenze in materia di organizzazione dei sistemi per l’erogazione delle prestazioni. Ciò che deve sempre restare al centro – e per la verità lo è già – è la garanzia del diritto alla tutela della salute, che è inalienabile, intrasmissibile, indisponibile e irrinunciabile, prescinde dallo status di cittadino, e deve essere uniformemente assicurato sull’intero territorio nazionale. Ma, come si diceva, lo Stato dispone già della leva del riaccentramento in caso di necessità, potendo predisporre i menzionati livelli essenziali delle prestazioni, con l’obiettivo di garantire un migliore livello qualitativo di servizi e salute.
In conclusione, l’unico effetto di un governo della sanità dal centro sarebbe quello di condurre a un generale livellamento verso il basso del diritto alla tutela della salute, già fin troppo vessata da quarant’anni di tagli indiscriminati. Va piuttosto considerato come porre rimedio alle carenze di tipo strutturale che la pandemia ha portato a galla, e va fatto tesoro dell’esperienza che ha dimostrato come, in alcuni casi, una gestione dell’emergenza alternativa e preventiva rispetto all’ospedalizzazione garantisca una più efficiente ed efficace risposta del sistema sanitario.
Alessandro Candido
Avvocato, professore a contratto nell’Università degli Studi di Milano Bicocca e dottore di ricerca in Istituzioni di diritto pubblico nell’Università Cattolica