fbpx

Proviamo per un attimo a trasferire idealmente le nostre istituzioni e regole giuridiche al tempo in cui vennero scritti i Vangeli ed immaginiamo che il Sinedrio di Gerusalemme abbia sporto querela per diffamazione nei confronti di Levi di Alfeo, detto  Matteo,  accusandolo di aver falsamente affermato, nel suo Vangelo, che lo stesso Sinedrio aveva corrotto, con una forte somma di danaro, le guardie poste al sepolcro di Gesù perché, contrariamente al vero,  riferissero che, durante la notte, mentre esse dormivano, erano venuti i discepoli di Gesù e avevano portato via il suo corpo. Affermazione, quella anzidetta, che nell’intento dell’autore, avrebbe dovuto corroborare l’assunto secondo il quale, in realtà, il sepolcro sarebbe stato trovato vuoto, la mattina del giorno successivo al sabato, perché Gesù era risorto a nuova vita. E immaginiamo pure che, essendo stata ritenuta fondata l’accusa e pronunciata sentenza di condanna, avverso quest’ultima la difesa dell’imputato abbia proposto ricorso per cassazione, denunciando carenza ed illogicità di motivazione. Quella che segue è la decisione che presumibilmente, a giudizio di chi scrive (sulla base della sua ultraventennale esperienza di giudice di legittimità), la Cassazione avrebbe dovuto adottare.

 << Il ricorso appare meritevole di accoglimento. Va preliminarmente osservato che la ritenuta responsabilità dell’imputato in ordine al reato a lui ascritto si fonda essenzialmente sull’assunto che l’intero racconto della pretesa resurrezione, nel quale si colloca il frammento che vede a protagoniste le guardie asseritamente poste a sorveglianza del sepolcro, sarebbe frutto di fantasia. E ciò non solo per la sua intrinseca inverisimiglianza ma anche per il fatto che esso non collimerebbe con quanto riferito, in ordine al medesimo, asserito evento miracoloso, dagli autori (tali Marco, Luca e Giovanni), di altri “Vangeli”, nei quali ultimi, in particolare, non si fa cenno alcuno della presenza delle guardie al sepolcro e di quanto esse avrebbero poi riferito.

  In effetti tali rilievi rispondono a verità, ma la conclusione che da essi i giudici di merito hanno inteso trarre non può dirsi sostenuta da adeguato supporto logico.

  Anzitutto, infatti – come questa Corte ha avuto infinite volte modo di affermare – in presenza di una pluralità di fonti dichiarative o documentali aventi ad oggetto, fondamentalmente, un unico fatto (nella specie, quello  dell’asserita resurrezione), ben può avvenire che, ponendole doverosamente in raffronto tra loro, emergano difformità e discrasie, dalle quali, tuttavia, non può trarsi, “sic et simpliciter”, la conclusione della complessiva inattendibilità del narrato, nel suo nucleo essenziale, se non quando si dimostri la loro assoluta, reciproca inconciliabilità e, al tempo stesso, la loro decisiva rilevanza. E, nella specie, tale dimostrazione risulta del tutto assente, dovendosi in particolare rilevare, quanto alla seconda delle suddette condizioni, con specifico riguardo al ruolo attribuito dal solo Matteo alle guardie, che anche in mancanza di esso il racconto della pretesa resurrezione, in sé e per sé,  avrebbe potuto tranquillamente reggersi, così  come, di fatto, si regge negli altri c.d. “Vangeli”. Non può, quindi, in alcun modo sostenersi che il ricorrente si trovasse nella necessità di “inventarselo”, così esponendosi senza valida ragione al facile rischio di una smentita che avrebbe inevitabilmente nuociuto alla sua credibilità in generale.

  A ben vedere, anzi, egli avrebbe avuto tutto l’interesse a non farne menzione alcuna, così come non ne hanno fatto menzione gli autori degli altri “Vangeli”. Risulta infatti pacifico, in atti, che il Vangelo di Matteo, a differenza degli altri, era essenzialmente rivolto agli Ebrei della Palestina, tanto che la sua prima redazione era stata in lingua aramaica (che era quella da essi comunemente parlata) e non – come invece era avvenuto per gli altri – in lingua greca. E nello stesso Vangelo si afferma che, a seguito di quanto riferito dalle guardie, a ciò istigate dal Sinedrio, si era diffusa tra i Giudei, fino al tempo presente, la “diceria” dell’avvenuto trafugamento del corpo ad opera dei discepoli di Gesù. Ora, è evidente che dell’esistenza di una tale “diceria”, siccome potenzialmente idonea  ad instillare dubbi nei destinatari del messaggio evangelico circa il fatto dell’avvenuta resurrezione, Matteo, al pari degli altri evangelisti, non avrebbe avuto alcun interesse a far cenno. Se lo ha fatto, è quindi da ritenersi che si sia sentito in obbligo di farlo, perché altrimenti sarebbe stato facilmente accusato, “ex adverso”, di aver volutamente ed in mala fede sottaciuto qualcosa che, nello specifico ambiente nel quale il suo scritto era destinato a circolare, era universalmente noto.

  Ciò posto, e data quindi per indubitabile l’oggettiva esistenza della “diceria” in questione, i giudici di merito avrebbero, allora, dovuto porsi l’interrogativo circa quella che avrebbe potuto essere la sua origine, partendo dall’ovvia considerazione che essa mai e poi mai sarebbe potuta nascere se nulla di straordinario fosse avvenuto e, cioè, se la tomba nella quale il corpo del Nazareno era stato riposto fosse rimasta, com’era logico aspettarsi, chiusa ed intatta.  Di qui la grave lacuna riscontrabile nella motivazione dell’impugnata sentenza, essendosi in essa dato apoditticamente per scontato che, come si è già detto, l’intero racconto della pretesa resurrezione fosse privo di qualsivoglia base fattuale, laddove una tale base sarebbe stata, invece, da ravvisare nella oggettiva, indubitabile esistenza di un “qualcosa” di anomalo che, nei giorni successivi alla sepoltura del Nazareno, doveva necessariamente essersi verificato. Ciò significa che, pur volendosi escludere, da parte dei giudici di merito, siccome legittimamente ritenuta inverisimile, l’ipotesi della miracolosa resurrezione del morto, essi avrebbero comunque dovuto chiedersi, anzitutto,  quale fosse stato o potesse essere stato il “fatto anomalo” che aveva dato luogo alla “diceria”. Dopodiché, qualora gli stessi giudici avessero ritenuto di identificarlo nell’avvenuto trafugamento del corpo del Nazareno ad opera di quelli che, in vita, lo avevano considerato come loro maestro, avrebbero dovuto spiegare come e perché i medesimi, contro ogni logica, potessero essersi indotti a porre in essere una condotta non  certo priva di gravi rischi, qual’ era quella della profanazione di una tomba, nella chimerica speranza che la sparizione del cadavere che vi si trovava bastasse a far credere ad una moltitudine di persone un fatto non credibile quale l’avvenuta resurrezione di un morto che poi, agli occhi di quella stessa moltitudine, sarebbe rimasto comunque invisibile.

  A questo punto deve, peraltro, riconoscersi che la suindicata lacuna motivazionale non potrebbe comunque essere colmata in un ipotetico giudizio di rinvio, attesa l’insuperabile assenza di oggettivi elementi di prova dai quali trarre la certezza che la riferita subornazione delle guardie da parte del Sinedrio, della cui asserita falsità quest’ultimo ha inteso dolersi, sia effettivamente priva di riscontro nella realtà o, al contrario, sia rispondente al vero. Ne consegue che, risultando esclusa la possibilità di affermare la responsabilità dell’imputato in ordine al contestato delitto di diffamazione “al di là di ogni ragionevole dubbio”, come prescritto dall’art. 533 c.p.p., ma dovendosi, al contrario, ritenere, per quanto in precedenza illustrato, non priva di verisimiglianza l’ipotesi che, sul punto in questione, egli abbia detto la verità e non abbia, quindi, indebitamente leso la reputazione del Sinedrio, questa Corte non può che concludere per l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza perché il fatto-reato  addebitato al ricorrente non sussiste>>.

                                                                                                                          Pietro  Dubolino

Share