Il XIII capitolo della Lettera ai Romani costituisce un testo fondativo nella riflessione cristiana sul potere politico. San Paolo afferma che «non c’è potere se non da Dio», sottolineando come l’autorità sia voluta da Dio quale strumento ordinatore, senza tuttavia identificarla con la volontà divina.

I. Introduzione

San Paolo, nella Lettera ai Romani, invita i cristiani a riconoscere l’autorità costituita, poiché «quelle che esistono sono disposte da Dio» (Rm 13,1). Questa affermazione, di grande forza e radicalità, ha un duplice significato. Da un lato, esprime la convinzione che l’ordine politico non sia una creazione meramente umana, frutto di convenzioni storiche mutevoli, ma una realtà che si inserisce nel disegno provvidenziale di Dio. Il potere, dunque, non è un assoluto mondano, né un idolo da venerare, ma un’istituzione necessaria voluta da Dio per contenere il disordine, frenare la violenza, garantire la pace e la convivenza.

Dall’altro lato, però, la formulazione paolina non elimina ma apre una tensione che attraverserà tutta la storia della filosofia politica e della teologia cristiana: fino a che punto l’obbedienza all’autorità costituita è un dovere incondizionato? Paolo stesso, infatti, non identifica il potere politico con la volontà divina in senso pieno, bensì afferma che la sua esistenza rientra nel piano di Dio. Ciò significa che l’autorità ha un fondamento trascendente, ma non che ogni esercizio concreto del potere sia automaticamente giusto.

Qui nasce una questione destinata a segnare secoli di riflessione: se l’autorità deriva da Dio, allora obbedirle equivale sempre a obbedire a Dio? Oppure esistono limiti alla legittimità politica, tali per cui un potere ingiusto o tirannico non può più rivendicare la sua origine provvidenziale?

Agostino, nel distinguere tra la città terrena e la città celeste, riconosce che le istituzioni politiche sono necessarie per contenere il peccato, ma non per questo sono prive di colpa; Tommaso d’Aquino sottolinea che l’autorità perde legittimità quando non persegue il bene comune. Con la modernità, il quesito si sposta su un piano secolarizzato: Hobbes fonda l’obbedienza sulla necessità di evitare la guerra civile, Locke introduce il diritto di resistenza di fronte a un potere che viola i diritti naturali, Rousseau la rifonda sulla sovranità popolare.

Il dilemma paolino resta dunque vivo: il potere è voluto da Dio, ma proprio in quanto provvidenziale non può trasformarsi in dominio arbitrario. Per questo, l’invito all’obbedienza che Paolo rivolge ai cristiani non è cieco, bensì condizionato dal rispetto della giustizia e dalla funzione ordinatrice dell’autorità.

II. San Paolo e la teologia del potere

La prospettiva paolina non identifica ogni atto politico con la volontà divina: Dio non sancisce ogni regime, né benedice incondizionatamente ogni forma di governo, ma vuole che vi sia potere politico nel mondo. L’autorità non è, dunque, un assoluto, bensì una realtà necessaria e tuttavia condizionata. Necessaria, perché senza di essa regnerebbero il caos, la violenza e la legge del più forte; condizionata, perché non basta che un potere esista per essere giusto: esso deve mantenere la propria finalità ordinatrice e rispondere a criteri di giustizia.

È in questo quadro che i Padri e i grandi pensatori cristiani hanno elaborato una dottrina dell’autorità che introduce un discernimento qualitativo tra i diversi tipi di potere. Agostino, nella Città di Dio, interpreta i regni terreni come strumenti imperfetti, chiamati non a incarnare la perfezione divina, ma a contenere il peccato e a garantire una relativa stabilità in un mondo segnato dalla caduta. Il potere terreno, pur corrotto, è un “male necessario” che, se esercitato con moderazione, contribuisce a impedire il dilagare del disordine.

Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae, rielabora questa visione alla luce del diritto naturale e della filosofia aristotelica. Per lui, l’autorità deriva da Dio in quanto garante dell’ordine, ma la sua legittimità non è automatica: essa sussiste solo quando è ordinata al bene comune, inteso come la realizzazione della giustizia e della pace nella comunità. Quando, invece, il potere viene esercitato in modo tirannico, esso cessa di essere espressione della provvidenza: non è più potere legittimo, ma abuso. Da qui nasce la possibilità – e talvolta il dovere – di resistere al tiranno, poiché obbedire a un potere ingiusto significherebbe tradire il principio stesso della giustizia che fonda l’autorità.

In questa prospettiva, il pensiero cristiano introduce una distinzione fondamentale che segnerà tutto il medioevo e oltre: non basta l’origine divina del potere a garantirne la legittimità; conta la sua finalità. Se il potere è ordinato al bene comune, esso può dirsi conforme alla volontà di Dio; se, al contrario, si riduce a dominio arbitrario, esso si auto-smentisce e perde ogni giustificazione provvidenziale. Questa dialettica tra necessità e limite costituirà la base su cui la modernità svilupperà le teorie del contratto sociale e del diritto di resistenza.

III. Dal teologico al politico: la modernità

Con la Riforma, Lutero insiste sull’obbedienza come dovere cristiano, accentuando la dimensione paolina secondo cui le autorità sono stabilite da Dio. In un contesto segnato dalle guerre contadine e dal timore del disordine sociale, il Riformatore esorta i credenti a sottomettersi ai principi secolari, considerandoli strumenti attraverso i quali Dio governa il mondo terreno. Tuttavia, questa posizione rischia di sacralizzare l’autorità secolare, attribuendo a ogni potere costituito una legittimità che può sfociare nell’accettazione passiva anche della tirannide. La forza di Lutero sta nell’aver riaffermato il valore paolino dell’ordine politico come voluto da Dio; la sua debolezza, nel non aver chiarito fino a che punto l’obbedienza possa essere vincolante quando il potere diventa oppressivo.

La modernità inaugura un cambio di paradigma, secolarizzando la questione dell’autorità. Hobbes, nel Leviatano, rompe con la giustificazione teologica e fonda la legittimità politica sull’auto-conservazione. Per lui, il potere nasce dal patto tra individui che, per sfuggire allo stato di natura – una condizione di guerra di tutti contro tutti – cedono la propria libertà a un sovrano assoluto. L’obbedienza non è più un dovere religioso, ma un imperativo razionale dettato dal timore della morte violenta. Il sovrano, in quanto prodotto del contratto, diventa fonte unica di legge e ordine: la sua autorità è assoluta, ma non più sacralizzata.

Locke, pur muovendosi nello stesso orizzonte contrattualista, recupera elementi della tradizione cristiana e tomista. Egli riconosce che l’autorità ha senso solo se orientata alla tutela dei diritti naturali (vita, libertà, proprietà). Quando il potere li viola, esso perde la sua legittimità e i sudditi hanno diritto alla resistenza. Qui si avverte un’eco della distinzione medievale tra autorità giusta e tirannide: la legittimità non è garantita dall’esistenza del potere, ma dal suo esercizio conforme alla legge naturale.

Rousseau radicalizza la rottura: nella sua prospettiva non vi è più alcun riferimento a un ordine provvidenziale o naturale che preceda la società politica. La sovranità risiede interamente nella volontà generale, che non deriva da Dio né da leggi naturali, ma dall’autonomia dei cittadini che, unendosi, creano un corpo politico indivisibile. Con Rousseau, l’obbedienza non è più un atto di sottomissione, bensì di auto-legislazione: ciascuno obbedisce solo a se stesso, in quanto parte del popolo sovrano.

Weber, infine, porta la riflessione sul potere in una dimensione definitivamente secolarizzata e sociologica. Nella sua tipologia delle forme di legittimità – tradizionale, carismatica e legale-razionale – il problema non è più la fondazione trascendente del potere, ma il riconoscimento empirico che esso riceve dai governati. L’autorità non si giustifica più richiamandosi a Dio o alla legge naturale, bensì attraverso strutture istituzionali, procedure giuridiche o la forza del carisma personale. Con Weber, il discorso sul potere si emancipa definitivamente dal quadro paolino e teologico, ma senza mai sciogliere del tutto la tensione originaria tra obbedienza e critica.

IV. La tensione paolina

Il nucleo del testo paolino si rivela in una tensione feconda tra due poli complementari. Da un lato, l’obbedienza al potere è presentata come necessaria, poiché l’autorità costituita non è un fatto meramente umano, ma un presidio voluto da Dio per contenere il disordine e garantire la convivenza civile. In questo senso, San Paolo non intende glorificare i regimi storici, ma affermare che l’ordine politico, come tale, è parte di una provvidenza superiore che guida il mondo verso una forma di giustizia e pace.

Dall’altro lato, proprio la collocazione teologica dell’autorità implica un limite radicale al potere stesso. Se l’autorità è voluta da Dio in quanto ordinatrice, essa perde la propria legittimità quando tradisce la sua funzione e diventa strumento di ingiustizia, oppressione o violenza. L’obbedienza, allora, non è mai cieca sottomissione, ma riconoscimento condizionato di un ordine che deve mantenersi conforme al bene. In questa tensione si apre la possibilità di una critica al potere che non nega l’istituzione, ma ne contesta gli abusi.

La grandezza del pensiero paolino sta proprio in questa dialettica: egli fonda l’autorità su Dio, senza per questo divinizzare le autorità concrete. Lungi dall’essere una giustificazione dell’assolutismo, il passo della Lettera ai Romani consegna al pensiero occidentale un principio di discernimento: l’obbedienza è un dovere, ma non un idolo; la politica è necessaria, ma non assoluta; il potere è provvidenziale, ma condizionato al perseguimento della giustizia.

Non è un caso che Agostino, Tommaso e i grandi pensatori della modernità abbiano riletto e discusso queste righe paoline come un punto di svolta, un nucleo originario da cui si è sviluppata la riflessione sull’autorità, sulla sua legittimità e sui suoi limiti. Ancora oggi, in un mondo attraversato da regimi autoritari, crisi di rappresentanza e tensioni tra libertà individuale e potere statale, la domanda paolina rimane viva: fino a che punto il potere merita obbedienza? E quando cessa di essere ordinamento giusto, non diventa forse dovere resistergli?

San Paolo, con la sua visione, continua a offrire una chiave interpretativa che non invecchia: riconoscere il potere come realtà necessaria e provvidenziale, ma sempre subordinata a una giustizia più alta che sola ne giustifica l’esistenza.

Conclusione: la scristianizzazione e la lezione paolina

Romani 13 mostra come San Paolo abbia posto le basi per una riflessione sull’origine, funzione e limite del potere politico. L’autorità è voluta da Dio, ma non assoluta: la sua legittimità deriva dalla giustizia e dal bene comune, non dalla forza. La modernità, secolarizzando il discorso, ha mantenuto la tensione paolina tra obbedienza e critica, ma l’ha privata del suo fondamento trascendente.

La scristianizzazione della politica ha prodotto strumenti concettuali efficaci, ma ha anche rischiato di trasformare il potere in puro fatto tecnico o in imposizione arbitraria, privo di misura superiore. In un’epoca segnata da crisi di legittimità, tecnocrazia e concentrazione globale del potere, il messaggio di San Paolo resta un monito imprescindibile: l’autorità è necessaria, ma subordinata a un principio di giustizia superiore. Tornare a Paolo significa recuperare il senso originario dell’autorità: essa esiste per il bene comune, non per sé stessa, e la sua legittimità è sempre condizionata dal rispetto di un ordine morale e trascendente.

Daniele Onori

Bibliografia essenziale

  • Fonti bibliche:
    • Lettera ai Romani, in La Sacra Bibbia, CEI, 2008.
  • Tradizione cristiana:
    • Agostino, La città di Dio, a cura di D. Gentili, Città Nuova, Roma 2010.
    • Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, ed. Leonina, Roma 1888-1906.
    • M. Lutero, Scritti politici, a cura di P. Prodi, Laterza, Roma-Bari 1991.
  • Filosofia politica moderna:
    • T. Hobbes, Leviatano, a cura di C. Galli, Laterza, Roma-Bari 2000.
    • J. Locke, Secondo trattato sul governo, a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 1971.
    • J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, a cura di G. Solinas, Laterza, Roma-Bari 2001.
  • Riflessione contemporanea:
    • M. Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano 1999.
    • C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, Adelphi, Milano 2011.
    • H. Arendt, Sulla violenza, Guanda, Parma 1996.

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