Nel pomeriggio di oggi, a Roma, partendo da piazza della Repubblica per giungere a piazza San Giovanni in Laterano, si svolge la Manifestazione Nazionale “Scegliamo la Vita”. Decine di migliaia di famiglie sfileranno per le strade della Capitale “per celebrare la bellezza e la dignità della vita umana, dalla custodia della quale discendono tutti i diritti della nostra civiltà”, e per rilanciare “la sfida della speranza in un’epoca segnata dalla disperazione e dalla cultura mortifera dello scarto, che abbandona anziani, disabili, malati e mamme con gravidanze difficili”: in questi termini Massimo Gandolfini, uno dei portavoce, spiega gli obiettivi della Manifestazione, alla quale il Centro studi Rosario Livatino ha aderito con convinzione. L’intervento del presidente emerito di sezione della Cassazione Pietro Dubolino torna sul calo demografico, che è uno dei temi dell’iniziativa.
1. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire a proposito dei segni d’interesse che da qualche tempo hanno finalmente cominciato a manifestarsi da parte del mondo politico sul fenomeno del drammatico declino demografico che ormai da anni affligge l’Italia oltre che, in varia misura, anche l’intera Europa. Un declino che, accentuato nel 2020 per effetto della pandemia da Covid, aveva tuttavia già dato luogo, a partire dagli anni immediatamente precedenti, a un calo secco della popolazione residente in Italia, passata, secondo i dati ISTAT, dai 60.589.445 del 2017 ai 59.641.488 del 2020.
E’ quindi da apprezzare il fatto che sia stato introdotto, come è noto, l’assegno di natalità che, pur con i suoi limiti e con talune incongruenze (come ben messo in luce, tra gli altri, da Alfredo Mantovano nel discorso tenuto, da esterno, alla Conferenza programmatica di “Fratelli d’Italia, il 30 aprile u.s.; cf. https://www.centrostudilivatino.it/lo-spettro-dello-spread-demografico/), rappresenta pur sempre un sintomo dell’avvenuta, quanto meno, presa di coscienza del problema e lascia quindi sperare (moderatamente) in ulteriori e più decisi interventi che valgano, se non a risolverlo, quanto meno a fronteggiarlo con maggiore efficacia.
2. Ciò detto per amore di verità, va però subito aggiunto che occorre guardarsi dall’errore di dare per scontato che le cause della denatalità siano solo di natura socio-economica e possano quindi essere rimosse o sensibilmente attenuate con interventi di analoga natura. Accanto a quelle cause, infatti, e forse più di esse, operano altre cause, di diversa natura, che incidono negativamente sulla stessa propensione a procreare, indipendentemente dalla sussistenza o meno delle condizioni materiali che consentirebbero di farlo. Basti, a dimostrarlo, il solo fatto che nella fascia di popolazione che gode di un alto tenore di vita e che, quindi, non avrebbe problemi a mettere al mondo un maggior numero di figli, il tasso di natalità non è per nulla superiore ma, anzi, tende ad essere addirittura inferiore rispetto a quello, già bassissimo, riscontrabile nelle fasce economicamente inferiori.
La pura e semplice realtà è che alla base del fenomeno in questione non vi è soltanto l’atteggiamento che potremmo definire del “vorrei, ma non posso”, proprio di quanti si trovano nella obiettiva impossibilità o, almeno, nella estrema difficoltà di accudire e mantenere dei figli, dopo aver dato loro la vita. Vi è anche l’altro atteggiamento, molto più diffuso di quanto si voglia far credere, del “chi me lo fa fare?”, proprio di quanti non vedono per quale ragione dovrebbero assumersi, pur avendo la possibilità di farlo, gli oneri e le responsabilità che la procreazione inevitabilmente comporta, pur se in varia misura, anche per chi non ha problemi economici.
3. In passato un forte incentivo alla procreazione era quello costituito dalla diffusa sensazione (pur non avvertita, in molti casi, a livello cosciente), che il mettere al mondo dei figli rispondesse a una nobile finalità, che era quella di assicurare la perpetuazione della propria etnia e dei valori sui quali essa fondava la coscienza collettiva della propria identità; il che presupponeva che l’appartenenza a tale etnia fosse generalmente avvertita come motivo di legittimo orgoglio, pur senza per questo dar luogo necessariamente al disprezzo di altre e diverse etnie. Di qui la maggiore disponibilità, rispetto a quanto avviene attualmente, ad affrontare le difficoltà ed i sacrifici che anche allora (e forse ancor più di adesso) potevano presentarsi come di ostacolo alla scelta della procreazione; disponibilità favorita anche dalla consapevolezza dell’apprezzamento che la società, nel suo complesso, generalmente mostrava nei confronti di quanti a quella scelta si fossero determinati.
Tutto ciò è oggi completamente venuto meno non solo e non tanto per un aumento della tendenza (sempre presente, in realtà, nella natura umana) di ciascun individuo alla ricerca prioritaria del proprio benessere a scapito di ogni altra finalità, ma anche e soprattutto per la diffusione, nella società italiana e di tutto il mondo occidentale, di un assurdo senso di colpa che in essa è stato instillato, a far tempo dagli anni della decolonizzazione, con costanza e determinazione degne di miglior causa, dal “mainstream” della c.d. intellettualità (in parte, purtroppo, anche di matrice cattolica), secondo cui la storia dell’Occidente, specie nelle fasi di espansione, altro non è stata se non un seguito di sopraffazioni, violenze e ruberie nei confronti di tutti i popoli con i quali gli europei e gli americani di origine europea sono venuti a contatto. Senso di colpa dal quale è nato quello che Benedetto XVI, nel libro “Senza radici” di cui è stato autore, con Marcello Pera, ha giustamente definito come “odio di sé dell’Occidente”, il quale “della sua storia vede ormai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro”.
4. Come se non bastasse, all’“odio di sé” in quanto occidentali, si è aggiunto, negli ultimi anni, anche un “odio di sé” in quanto, addirittura, esseri umani, cioè appartenenti a quella specie di esseri viventi che, secondo certe frange estremiste del pensiero ecologista (poco numerose, forse, ma assai rumorose e determinate), rappresenta né più e né meno che una sorta di “cancro del pianeta”; ragion per cui, in questa visione, mettere al mondo un figlio altro non sarebbe se non un irresponsabile, se non anche criminale, contributo al proliferare delle cellule tumorali, mentre, per converso, sarebbe sempre e comunque un atto meritevole di approvazione quello di interrompere, in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione, una gravidanza e financo quello, secondo alcuni, di sopprimere un bambino subito dopo la nascita. E si tratta di un messaggio che, manco a dirlo, ha trovato e trova ascolto, paradossalmente, solo ed esclusivamente nel mondo occidentale, nel quale la natalità, per altre ragioni, aveva già subito la maggiore riduzione, tanto da non assicurare più, in molte nazioni (compresa l’Italia), neppure il ricambio generazionale.
Ora, è di tutta evidenza che una società che odia sé stessa non può certamente nutrire il desiderio della propria perpetuazione ma nutre, semmai, più o meno consapevolmente, quello della propria estinzione, e si comporta in modo conseguenziale. Ben vengano, dunque, tutte le provvidenze economiche possibili ed immaginabili a favore della procreazione, ma non ci si illuda che esse possano bastare a invertire la tendenza alla denatalità se non vengono affiancate da una vera e propria “rivoluzione culturale”, che rifiuti totalmente ogni e qualsiasi senso di colpa, comunque motivato, e restituisca non solo agl’Italiani ma a tutti i popoli dell’Occidente il sano, naturale e legittimo orgoglio dell’appartenenza, oltre che alla specie umana, in genere, anche a quella parte di essa che ha dato origine e splendore ad una civiltà, quale è quella europea, dalla quale sono derivati al mondo intero benefici incomparabilmente superiori ai danni che, in taluni casi, essa può aver prodotto.
Pietro Dubolino