Scheda sul d.d.l. Scalfarotto
(appunti da una conversazione tenuta da Alfredo Mantovano nella Parrocchia romana di S. Maria della Mercede il 1° aprile 2014)
Sarebbe un errore ridurre la portata dell’attacco alla famiglia solo ai pochi commi che compongono la proposta di legge sull’omofobia “Scalfarotto”, dal nome del suo primo firmatario, che alla Camera ne è stato anche il relatore. Quei commi pesano, ma si coglie il senso della posta in gioco se quei commi vengono inseriti in un quadro di insieme, che non può sfuggire e che deve portare a identificare più attori sulla scena: lobby mediatiche e culturali, direttive e risoluzioni Ue, legislazione nazionale, azione di governo, decisioni da parte di regioni e di enti locali.
Partiamo da ciò che è già operativo, cioè dall’azione di governo. Nell’aprile 2013 l’allora ministro del Welfare prof.ssa Elsa Fornero, la cui delega includeva le Pari opportunità, vara la Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (2013-2015): un insieme di misure di carattere amministrativo indirizzate a varie articolazioni istituzionali. La scuola è uno dei principali terreni operativi di questa Strategia e si avvale dell’UNAR, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali; all’esito di una consultazione alla quale partecipano esclusivamente associazioni LGBT, l’UNAR, che fa capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimenti Integrazione e Pari Opportunità, in attuazione della Strategia, commissiona una trilogia di manuali dal titolo Educare alla diversità a scuola all’Istituto A. T. Beck: i testi, redatti da tale Istituto, sono rivolti uno per le scuole elementari, uno per la scuola media inferiore, uno per la scuola media superiore. Col pretesto di combattere presunte discriminazioni, di fatto si indottrinano i bambini e gli adolescenti destinatari della Strategia all’ideologia del gender; non è una campagna futura che va ancora discussa e approvata: è una campagna già avviata a partire dall’anno scolastico in corso, in tante scuole milanesi, romane, pugliesi, toscane…
È ciò che ha fatto parlare una persona equilibrata e aliena da toni esagerati come il cardinale Bagnasco, in apertura dei lavori dell’ultimo Consiglio permanente della Cei, il 24 marzo scorso, di “lettura ideologica del “genere” – una vera dittatura – che vuole appiattire le diversità, omologare tutto fino a trattare l’identità di uomo e donna come pure astrazioni.” Nella circostanza il cardinale ha aggiunto: “Viene da chiederci con amarezza se si vuol fare della scuola dei “campi di rieducazione”, di “indottrinamento”. Ma i genitori hanno ancora il diritto di educare i propri figli oppure sono stati esautorati? ”
Che questo giudizio sia adeguato alla realtà si ricava dalla lettura di alcuni passaggi dei tre volumi. Al loro interno, a proposito del matrimonio si afferma in modo apodittico: “Diversi studi condotti negli ultimi 30 anni hanno mostrato che i bambini cresciuti da genitori gay e lesbiche sono felici esattamente come i bambini cresciuti da famiglie eterosessuali”. L’unico danno che possono ricevere i bambini, secondo questi manuali, deriva dal fatto che i “genitori” non possono (ancora) “sposarsi”. I “nemici” vengono indicati espressamente in Dio, nella patria e nella famiglia; così nel testo: “Che tipo di educazione abbiamo ricevuto sull’omosessualità dalla famiglia, dalla Chiesa, dallo Stato, dai mass-media, dalla scuola? Non c’è mai stato un approccio neutrale all’omosessualità, che, al contrario, veniva considerata un ‘male’”. Il danno viene soprattutto dalla religione: “vi è un modello omofobo di tipo religioso, che considera l’omosessualità un peccato”.
Si trovano delle indicazioni specifiche. Mi fermo a qualche es. che riguarda le scuole elementari, e riporto senza commento dal testo: “Molti bambini trascorrono gli anni della scuola elementare senza accenni positivi alle persone LGBT. Gli anni delle elementari offrono, invece, una meravigliosa e importante opportunità di instillare [sic nel testo] (…) atteggiamenti positivi e rispettosi delle differenze (…), comprese quelle relative all’orientamento sessuale, all’identità e all’espressione di genere”. Ai maestri sono rivolti moniti per rifuggire da condotte che vengono definite “stereotipi basati sul genere”: per i “maschi ad esempio, guardare la Formula 1 o giocare ai videogiochi”, per le “femmine ad esempio, essere interessate alla cucina o allo shopping” (su quest’ultimo punto c’è da immaginare che sarà dura!). Ci sono pure i compiti per casa. Ecco una traccia per un problema di aritmetica: “Rosa e i suoi papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar. Se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”; al di là della difficoltà del calcolo, interessa il messaggio neanche tanto implicito: è tanto normale avere due papà, che li si ritrova anche in un problemino semplice semplice.
Immagino le obiezioni: basta con questi pre-giudizi religiosi, basta col dato confessionale, è una questione di laicità. E poi, come la mettiamo con l’Ue? Queste obiezioni meritano una replica: non stiamo parlando di un fatto di carattere religioso, è un problema di libertà; e con l’Europa su questi temi vogliamo discutere: abbiamo gli argomenti per farlo!
È certamente un problema di libertà: se facciamo un gita in Spagna, e ci spostiamo a Malaga, scopriamo che il 6 febbraio scorso, nella bella città della costa iberica meridionale, un vescovo – che Papa Francesco ha appena nominato cardinale (ne è amico personale) – viene iscritto nel registro degli indagati per “omofobia”: si tratta di mons. Fernando Sebastián Aguilar, arcivescovo emerito di Pamplona, 84 anni, un teologo di cui il Papa si dichiara «alunno». Che cosa ha fatto di così grave il neo cardinale? Ha rilasciato un’intervista al quotidiano di Malaga Diario Sur lo scorso 20 gennaio: richiesto di commentare le dichiarazioni di Papa Francesco che invitano a non giudicare gli omosessuali, egli ha spiegato testualmente: «Il Papa accentua i gesti di rispetto e di stima a tutte le persone, ma non tradisce né modifica il Magistero tradizionale della Chiesa.” E ha aggiunto: “Una cosa è manifestare accoglienza e affetto a una persona omosessuale, un’altra è giustificare moralmente l’esercizio dell’omosessualità. A una persona posso dire che ha una deficienza, ma ciò non giustifica che io rinunci a stimarla e aiutarla».
Scatta l’allarme! il giornalista gli domanda: lei usa il termine “deficienza” dal punto di vista morale? «Sì. (…) – è la risposta del card. Sebastian – con tutto il rispetto dico che l’omosessualità è una maniera deficiente di manifestare la sessualità, perché questa (la sessualità) ha una struttura e un fine, che è quello della procreazione. L’omosessualità, in quanto non può raggiungere questo fine, sbaglia. Questo non è per niente un oltraggio. Nel nostro corpo abbiamo molte deficienze. Io ho l’ipertensione. Mi devo arrabbiare perché me lo dicono? È una deficienza che cerco di correggere come posso.». Apriti cielo! Gli attivivisti LGBT si scatenano contro il cardinale, lo accusano di aver detto che l’omosessualità è «una malattia», espressione che la giurisprudenza spagnola punisce in base alle leggi sull’omofobia. L’arcivescovo, però, sarà pure anziano ma non è sprovveduto, è stato bene attento a non usare la parola «malattia», come non ha usato la parola «guarigione» bensì «recupero». Adesso rischia la prigione per violazione della legge spagnola contro l’omofobia.
Replica alla seconda obiezione: come la mettiamo con l’Ue? Con l’Ue su questi temi pretendiamo di discutere! È vero: vi è una tendenza ormai consolidata in larga parte dell’Occidente, tesa a sanzionare penalmente i crimini c.d. di odio, e a identificare una sorta di piano inclinato secondo cui al primo livello vi sarebbe l’intolleranza – che richiama un dato culturale –, al secondo la discriminazione – che richiama un dato giuridico –, al terzo i crimini di odio. È evidente che la linea di confine rispetto ai crimini comuni non è la materialità della condotta – per es., colpire una persona con un pugno –, ma è la motivazione della condotta. Per essere ancora più chiaro, provo a fare un esempio: immaginiamo che una donna di colore, di fede cristiana e obesa vada al ristorante e non paghi il conto. Il proprietario del ristorante ha uno scatto d’ira e la riempie di botte: se lo fa perché non ha pagato il conto, non è un crimine di odio; saranno percosse, o lesioni, motivate dall’ira per un fatto ingiusto, certamente sanzionabili, ma che non chiamano in causa la circostanza che quella donna abbia la pelle nera, creda in Dio e le piaccia molto mangiare. Se però il conto lo ha pagato e viene caricata di botte o perché nera, o perché di colore, o perché obesa, o per tutte e tre tali qualità, allora c’è una motivazione maggiormente riprovevole, che – in base all’orientamento consolidato in Occidente – merita di essere sanzionata in modo più grave. Lo stesso discorso vale quando la vittima è una persona omosessuale.
Il problema da porsi a questo punto è il seguente: è proprio necessaria una legge antiomofobia per punire le offese recate a persone omosessuali in quanto omosessuali? per rispondere, va ricordato che non solo che nessuno ha mai abolito le disposizioni penali che sanzionano le diffamazioni, le percosse, le violenze – sì che tali disposizioni si applicano qualunque sia l’orientamento sessuale della vittima –, ma che, di più, le pene previste dal codice penale possono essere aggravate applicando norme che nel nostro ordinamento esistono da decenni. Non è una mia affermazione! Lo ricorda con chiarezza il parere reso dalla Commissione affari costituzionali della Camera all’inizio di agosto 2013 alla p.d.l. Scalfarotto, allorché richiama – come sufficiente rispetto all’esigenza di maggior tutela per questa particolare versione dei “crimini di odio” – l’articolo 61 n. 1 c.p.; tale disposizione stabilisce che “aggrava il reato (…) l’aver agito per motivi abietti o futili”: nella categoria della “abiezione” o della “futilità” rientra l’avere recato offesa a una persona omosessuale in quanto omosessuale. Il n. 5 dello stesso articolo 61 del codice penale aggiunge: “Aggrava il reato (…) l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona (…) tali da ostacolare la pubblica o la privata difesa”; è la c.d. “minorata difesa”. L’applicazione dell’una o l’altra aggravante ha l’effetto di incrementare fino a un terzo per ciascuna l’entità della pena; le lettere n. 1 e n. 5 dell’art. 61 cod. pen. comprendono più situazioni di debolezza e più tipologie di motivazioni abiette, dalla persona anziana al bambino, dalla donna incinta al disabile. Ma ciò non rappresenta un limite di quelle norma, la cui caratteristica è di essere generali e astratti: ciò che importa è che finora nessuno ha mai posti discussione che in quelle previsioni rientrino anche le ipotesi in cui la vittima è una persona omosessuale. La conclusione è che la previsione legislativa di maggior tutela, allorché l’odio si indirizza verso persone omosessuali, esiste e non necessita di integrazioni.
In che modo si inserisce in questa materia la “p.d.l. Scalfarotto”? una proposta – va ricordato – che è la sintesi di varie proposte presentate, che è stata approvata dall’aula della Camera il 19 settembre 2013, e che è attualmente all’esame della Commissione Giustizia del Senato. La p.d.l. è composta soltanto da due articoli, il primo dei quali contiene disposizioni penali: esse incidono sull’art. 3 della legge 13 ottobre 1975 n. 654, di ratifica della Convenzione di New York del 7 marzo 1966, contro le discriminazioni razziali; a sua volta, l’art. 3 di tale legge era stato sostituito dall’art. 1 del decreto legge 26 aprile 1993 n. 122, convertito nella legge n. 205/1993, quella che è nota come “legge Mancino”, dal nome del ministro dell’Interno dell’epoca. Nella sua attuale versione, l’art. 3 punisce con la reclusione fino a 18 mesi e con la multa “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi”, e con la reclusione fino a 4 anni “chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi”. Il nocciolo della “p.d.l. Scalfarotto” è l’inserimento, al termine di ciascuno dei due periodi riportati, delle parole “o fondati sull’omofobia o sulla transfobia”; in tal modo, l’art. 3 punirebbe con la reclusione fino a 18 mesi e con la multa “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi, o fondati sull’omofobia o sulla transfobia”, e con la reclusione fino a 4 anni “chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi o fondati sull’omofobia o sulla transfobia”.
Tutto qui? Tutto qui, ma non è poco. Intanto è un’integrazione non necessaria, per quel che si è detto prima. Di più, è una integrazione dannosa. Omofobia e transfobia sono parole generiche e ambigue, ordinariamente adoperate secondo una accezione differente da quella letterale: proprio perché si tratta di termini non giuridici, si prestano a interpretazioni differenti e discordanti, la cui estensione è alla fine lasciata al giudice. Quando una condotta può penalmente qualificarsi omofoba? L’esperienza di altri Stati occidentali nei quali esistono già leggi anti omofobia non è rassicurante: si è detto del caso del cardinale Sebastian in Spagna. In Francia, e in particolare a Parigi, hanno fatto scalpore gli arresti di persone il cui unico torto era quello di indossare magliette o felpe con il simbolo della Manif pour tous, e cioè il disegno di una famiglia composta da padre, madre e figli. In Canada è noto il caso di una università protestante alla periferia di Vancouver, la Trinity West University; agli studenti di quest’ateneo viene chiesto ordinariamente di sottoscrivere, al momento dell’ingresso, un codice di comportamento nel quale ci si impegna a non accedere a siti pornografici utilizzando il Wi-fi dell’università, a non assumere alcool nel campus e ad astenersi “da forme di intimità sessuale che violino la sacralità del matrimonio tra un uomo e una donna”. La Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Legge canadesi ha avviato un procedimento amministrativo contro la Trinity West University e ha chiesto agli Ordini degli Avvocati di non ammettere alla pratica forense i laureati di quell’ateneo perché “omofobi”. Dove starebbe l’omofobia in quel codice di comportamento? Nel riferimento alla “sacralità del matrimonio tra un uomo e una donna” e al fatto che sia menzionato solo questo matrimonio, e non quello fra omosessuali.
In ciascuno degli esempi appena riportati non ci si trova di fronte a crimini di odio. In tali vicende la sanzione penale è rivolta non contro offese a persone omosessuali in quanto omosessuali, bensì a impedire – e a impedire con la minaccia del carcere o (è il caso del Canada) con una arbitraria esclusione dal lavoro – che sia manifestata qualsiasi riserva verso le pratiche omosessuali. Serve a impedirmi di dire che per me è meglio che un bambino cresca in una famiglia composta da un uomo e una donna. È una differenza profonda rispetto ai crimini di odio; gli studiosi di diritto penale distinguono in proposito fra ciò che nella comunicazione ha un contenuto informativo o valutativo da ciò che invece è un evidente insulto. Se io incontro una persona omosessuale e gli rivolgo un’ingiuria collegata alla sua condizione, c’è ben poco di contenuto informativo: è giusto che intervenga prima la polizia e poi il giudice. Ma se io incontro una persona omosessuale che mi chiede che cosa penso delle pratiche omosessuali, è assurdo che io rischi il carcere se gli rispondo riferendogli, per es., quello che dice in proposito il Catechismo della Chiesa cattolica. Un ordinamento che contenga leggi di questo tipo è sulla strada del totalitarismo: quella che i Pontefici Benedetto XVI e Francesco hanno chiamato la “dittatura del relativismo”.
Si dirà: ma la “legge Mancino” finora non ha prodotto effetti palesemente persecutori. Rispondo: non li ha prodotti perché, pur nella genericità delle sue disposizioni, i motivi “razziali, etnici, nazionali o religiosi” hanno un tasso di estensibilità, e quindi di possibile arbitrarietà interpretativa, inferiore rispetto ai motivi “fondati sull’omofobia o sulla transfobia”. Non credo sia il caso di fare l’esperimento, considerato quello che accade in altri ordinamenti, a breve distanza da noi! Si dirà, ancora: ma nella p.d.l. Scalfarotto esiste una “clausola di salvaguardia” che dovrebbe tutelare dalla costruzione di un reato di opinione. Proviamo a leggerla; essa introduce nell’art. 3 della legge n. 654/1975 un comma 3 bis: “Ai sensi della presente legge, non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza, né le condotte conformi al diritto vigente (…)”. La quantità di parole non tranquillizza: si lascia al giudice la decisione di considerare una manifestazione di opinione quale “riconducibile al pluralismo delle idee” (quale è il significato giuridico di quest’inciso?), e soprattutto si fa riferimento alla conformità “al diritto vigente”, trascurando che, se venisse approvata la p.d.l. Scalfarotto, sarebbe anch’essa “diritto vigente”, e quindi criterio alla cui stregua interpretare l’esenzione da responsabilità; è sicuro che in tal modo si trasformano i tribunali in giudici dell’opinione, con criteri di valutazione tutt’altro che precisi.
C’è da aggiungere che, poiché le disposizioni della p.d.l. Scalfarotto entrano a pieno titolo nella “legge Mancino”, esse rendono applicabile a condotte che caso per caso saranno qualificate “omofobe” o “transofobe” anche:
- l’art. 5 della “Mancino”, che autorizza la perquisizione, il sequestro e la confisca “dell’immobile rispetto al quale sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che l’autore se ne sia avvalso come luogo di riunione (…) o per altre attività comunque connesse al reato”: visto che in Spagna un cardinale sta per essere processato per “omofobia” per le espressioni prima riportate, non è fuori luogo immaginare che tale disposizione in tesi sarebbe applicabile alle sale di una parrocchia al cui interno si insegni il Catechismo, per le valutazioni che esso rivolge alle pratiche omosessuali;
- l’art. 7 della “Mancino”, che giunge a prevedere la sospensione di associazioni che favoriscono i reati di cui all’art. 3 della legge n. 654/1975, e addirittura il loro scioglimento.
Dunque, la p.d.l. Scalfarotto pone a serio rischio la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa, e anche la libertà di ricerca. Sulle prime due non vi è nulla da aggiungere. Sulla terza, invito a farsi raccontare le difficoltà che oggi incontra ogni psicologo serio nell’esercizio della sua professione: se in momenti particolari dello sviluppo di un adolescente, con tutta la delicatezza e la particolare competenza imposta dalle circostanze, chi svolge questo lavoro può affrontare situazioni di disagio, e magari superarle con l’aiuto della famiglia del ragazzo, l’introduzione di quelle norme rischia di far leggere come “omofobi” alcuni profili dell’intervento dello psicologo; il quale eviterà anche di iniziare a trattare questa tipologia di casi, oppure cambierà mestiere. E il danno non sarà solo per un bravo psicologo che decide di non proseguire il suo lavoro, ma per tante vicende critiche adolescenziali che potrebbero essere risolte, e che invece vengono cristallizzate.
Ma – concludo come ho iniziato – la p.d.l. Scalfarotto è solo l’aspetto + evidente di una manovra che è più articolata e complessa. A proposito dell’attività di governo, ricordavo prima le applicazioni della Strategia Fornero; non ci si è fermati lì: il 13 dicembre 2013 è sempre l’UNAR-Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali a varare, d’intesa con l’Ordine nazionale dei giornalisti, una ulteriore direttiva, dal titolo Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT: non sono consigli, sono precetti per i giornalisti, e si collegano esplicitamente alla Carta dei doveri del giornalista, al Codice sul trattamento dei dati personali e a una direttiva europea sulle attività televisive, recepita in Italia nel 2010. E’ in causa la deontologia: il procedimento disciplina è dietro l’angolo. Queste linee guida sono una sorta di “dieci comandamenti” per i giornalisti, chiamati a essere gendericamente corretti.
Rinviando per l’intero testo al sito UNAR, qualche saggio merita di essere dato. Il “primo comandamento” impone di non confondere il “sesso biologico”, che riguarda i cromosomi e la fisiologia degli apparati genitali, con l’identità di genere, che viene definita come “il senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e di donna, ovvero ciò che permette a un individuo di dire ‘io sono un uomo, io sono una donna’, indipendentemente dal sesso anatomico di nascita”. Come per il Decalogo vero, anche per quello delle linee-guida ha una certa importanza il “sesto comandamento”: viene detto, travolgendo secoli di sana antropologia, che «il matrimonio non esiste in natura, mentre in natura esiste l’omosessualità». Ora, tutto questo già crea difficoltà per qualunque giornalista che per avventura sia d’accordo col Magistero della Chiesa, o anche solo col diritto naturale.
Maggiori difficoltà vengono dall’“ottavo comandamento”, che in tema di adozioni vieta di sostenere che il bambino «ha bisogno di una figura maschile e di una femminile come condizione fondamentale per la completezza dell’equilibrio psicologico». Il giornalista che sostenga questa tesi si renderebbe responsabile della propagazione di un «luogo comune», smentito dalla «letteratura scientifica». Altrettanto vietato è parlare di «utero in affitto»: tale espressione è qualificata «dispregiativa», e va sostituita con l’espressione «gestazione di sostegno» (!). Ce ne è anche per i fotografi. Il “decimo comandamento” li invita a fare attenzione a che cosa fotografano nei gay pride: devono evitare le immagini di persone «luccicanti e svestite». Obiezione: ma chi partecipa ai gay pride non fa prima a non svestirsi e a non indossare lustrini se proprio non vuol correre il rischio di essere fotografato nudo? No! per le linee-guida le foto non vanno riportate perché altrimenti le immagini mettono in secondo piano “il tema dei diritti”.
Con tutto questo credo si debba essere grati all’UNAR e al governo, sotto la cui egida l’UNAR opera, per questo documento: rendono, forse a loro insaputa, un enorme servizio; spiegano esattamente, nero su bianco, che cosa sarà davvero vietato dalla legge contro l’omofobia. Sarà difficile, nel momento in cui si cercherà un contenuto per i termini “omofobia” o “transfobia”, prescindere da quanto è già operativo, nelle scuole, fra i media e in altri luoghi pubblici.
Per concludere. Ogni persona di buon senso non può che essere contraria alle discriminazioni. L’importante è individuare dove esistono effettivamente. Se c’è oggi in Italia una realtà realmente discriminata, questa si chiama famiglia. Lo ha ricordato Papa Francesco, in apertura del Concistoro straordinario, preparatorio del Sinodo che avrà fra qualche mese questo tema: “La famiglia oggi è disprezzata, è maltrattata, e quello che ci è chiesto è di riconoscere quanto è bello, vero e buono formare una famiglia, essere famiglia oggi; quanto è indispensabile questo per la vita del mondo, per il futuro dell’umanità”. Vogliamo portare qualche esempio concreto di “disprezzo” e di “maltrattamento”? eccone qualcuno:
– in caso di separazione, gli alimenti corrisposti al coniuge vanno in detrazione nella dichiarazione dei redditi, ma non vi è alcuna detrazione se la medesima cifra è trasferita all’interno della famiglia dall’uno all’altro dei componenti (si pensi al mantenimento di un figlio all’università);
– ogni qual volta si prevede qualche agevolazione fiscale (rottamazioni, imposte di successione, ristrutturazioni edilizie), essa viene riconosciuta senza limite di reddito, ma i sostegni alla maternità o le detrazioni fiscali per i figli a carico sono corrisposti in relazione al reddito;
– un single che guadagna 80.000 euro all’anno subisce un carico fiscale pari a quello di un capofamiglia con più figli; ma una famiglia di otto persone nella quale entrano 80.000 euro all’anno ha in realtà un reddito pro capite di 10.000 euro all’anno, che andrebbe tassato in quanto tale (rientrerebbe nella no tax area): ciò non accade perché gli scaglioni Irpef sono applicati per reddito complessivo e non per reddito pro capite;
– chi svolge attività sindacale gode (giustamente) di permessi e distacchi, chi va a scuola per essere ricevuto con i docenti dei propri figli deve (ingiustamente) chiedere le ferie;
– il medico di base è da sempre oggetto di libera scelta, gli insegnanti per i figli no;
– il professionista che assuma la moglie nel suo studio non può dedurre dalla dichiarazione dei redditi il costo delle retribuzioni e dei contributi: ciò che invece avviene se assume l’amante;
– è prevista l’obiezione di coscienza per la sperimentazione sugli animali, ma non per la sperimentazione sugli embrioni.
…Si potrebbe proseguire nell’elenco. Ma è più che sufficiente per concludere che ciò di cui vi è reale necessità è una legge, o un insieme di leggi, che rilanci la famiglia, che permetta a due persone che desiderano condividere la vita e contribuire all’ordine della generazione di guardare al futuro con maggiore speranza e con minore angoscia di quanto accade ora!