Pubblichiamo il testo integrale della richiesta di archiviazione, a firma dei pubblici ministeri Tiziana Siciliano e Sara Arduino, con cui la Procura della Repubblica di Milano – la richiesta è siglata anche dal Procuratore Francesco Greco – ha chiesto al Giudice per le indagini preliminari l’archiviazione del procedimento penale a carico dell’on. Marco Cappato per la vicenda che ha portato alla morte di Fabiano Antoniani (noto come dj Fabo). A seguire una prima nota di commento del prof. Carmelo Leotta, associato di diritto penale all’Università Europea di Roma, avvocato del Foro di Torino.
I fatti contestati a Marco Cappato
Nella dolorosa vicenda del Dj Fabo, il g.i.p. di Milano, Luigi Gargiulo, non ha accolto de plano la richiesta della Procura di archiviazione del procedimento a carico del leader radicale Marco Cappato e ha fissato udienza al 6 luglio, per decidere dopo aver sentito le parti. A seguito di quell’udienza, il g.i.p. potrebbe disporre ordinanza di archiviazione, ordinare nuove indagini oppure disporre l’imputazione coatta ai p.m.
A Cappato, autodenunciatosi presso i Carabinieri di Milano, si contesta, come è noto, il delitto punito (con la reclusione da 5 a 12 anni) dall’art. 580 c.p. di istigazione e aiuto al suicidio, per aver accompagnato il Dj Fabo in Svizzera, alla struttura dell’associazione Dignitas di Forch, per praticare il suicidio assistito. In particolare la condotta praticata da Cappato è quella di agevolazione, cioè di aiuto, avendo egli guidato l’auto da Milano a Forch e poi presenziato e compiuto alcuni atti durante la “prova del suicidio”, ma non il giorno in cui il Dj Fabo si diede la morte.
Il diritto vigente: l’indisponibilità della vita umana da parte del suo titolare
Nell’ordinamento penale italiano, la vigenza di due norme – quali sono l’art. 580 e l’art. 579 c.p. (quest’ultimo punisce l’omicidio del consenziente con la pena della reclusione da 6 a 15 anni) – è indice del fatto che il bene vita non sia solo inviolabile da parte di terzi, ma anche indisponibile da parte del suo titolare. Infatti, la volontà di quest’ultimo di rinunciarvi o di darsi la morte non esclude la responsabilità di chi lo asseconda, uccidendolo o aiutandolo a uccidersi. Indisponibilità della vita vuol dire, quindi, che se il titolare del bene distrugge il bene stesso non esercita un diritto, anche se – per ovvie ragioni – non viene punito.
La posizione dei P.M. milanesi
La richiesta di archiviazione della Procura di Milano si articola in due parti essenziali: nella prima si ritiene che la condotta di trasporto del malato non integri l’agevolazione al suicidio, poiché nel momento in cui il DJ Fabo è arrivato alla struttura della Dignitas si sarebbe verificata una presa in carico del paziente da parte del personale sanitario, con conseguente interruzione del nesso causale tra la condotta del Cappato e l’evento morte.
Ancorché ciò sarebbe già bastato a motivare la richiesta di archiviazione, i due P.M. milanesi, nella seconda parte della richiesta, affermano che coloro che vivono in condizioni gravissime o irreversibili, auto-percepite come lesive della propria dignità, godono “di un vero e proprio diritto al suicidio”, motivo per cui la condotta del Cappato, anche se tipica, non sarebbe offensiva del bene protetto dall’art. 580 c.p.
Ai due magistrati solo il merito di aver espresso con inequivocabile chiarezza il loro punto di vista, dichiarando che tale diritto deve essere esigibile dal malato non solo in via indiretta con la rinunzia alla terapia, ma anche in via diretta, con l’assunzione di una “terapia finalizzata allo scopo suicidario”. In altre parole: se il malato percepisce le proprie condizioni e la propria sofferenza come non più compatibili con il proprio senso di dignità, l’aiuto al suicidio “diviene una condotta radicalmente inoffensiva del bene giuridico tutelato dall’art. 580 Codice penale”.
Quali sono le implicazioni della premessa giuridica su cui si fonda la richiesta di archiviazione?
L’impostazione alla base della richiesta dei due P.M. – secondo cui non c’è violazione del diritto alla vita se il malato ritiene indegna la propria – presenta, a ben vedere, tre gravi problemi sul piano giuridico.
Il primo: una siffatta impostazione, fondata su di un concetto di dignità auto-percepita dal soggetto, modifica il fondamento di tutela del bene vita: l’ordinamento non protegge più la vita in sé e per sé, ma il bene vita fintantoché il suo titolare lo vuole. Una simile premessa consente l’esistenza di diritti “antropofagi”: il diritto, espressione della volontà individuale, può prevalere sul soggetto, distruggendolo; la volontà può prevalere sull’essere.
Il secondo: la mutata prospettiva di tutela, vale a dire il passaggio dalla tutela della vita, bene oggettivo, alla tutela della volontà di vivere, bene soggettivo e mutevole, pone immediatamente un ulteriore problema: se il titolare del bene non è in grado di dire la sua sulla “sua” vita, servirà qualcuno che si faccia interprete (autentico?) di tale volontà muta. Ciò può anche avvenire, come nel caso Englaro, sulla base di una frase pronunciata dalla persona direttamente interessata oltre 17 anni prima.
Il terzo problema è forse il più grave, e mostra cosa si nasconde sotto il velo del principio altisonante dell’auto-determinazione terapeutica che, se ideologicamente inteso, fa della volontà del paziente l’idolo cui sacrificare vita e salute. Si osservi, infatti, che nella richiesta di archiviazione, non si afferma l’esistenza di un diritto generalizzato di disporre della vita, cioè un diritto al suicidio per tutti; titolari di tale diritto, sono, invece, solo coloro che si trovano “in situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile o indegna dal malato stesso”.
In tal modo, tuttavia, nel momento stesso in cui si riconosce tale diritto al malato, gli si sta dicendo, in barba al principio personalistico invocato nella stessa richiesta: “la tua vita vale meno di quella del sano, perché tu, e solo tu, che sei malato, puoi disporne“.
Il sacrificio di vita, salute ed eguaglianza: ecco il costo del falso mito dell’auto-determinazione del paziente, scissa dal principio di beneficialità della cura e di giustizia.