A questa domanda il T.A.R Lombardia (MI), con la sentenza Sez.II, n. 2757 del 03/06/2025 – dep. 23/07/2025, ha dato una risposta negativa in maniera abbastanza netta. Il caso in esame riguardava la costruzione di un edificio ad uso residenziale di 5 piani fuori terra, composto da 8 appartamenti e 7 posti auto pertinenziali, da realizzare mediante la presentazione di una S.C.I.A. (Segnalazione Certificata di Inizio Attività), alternativa al permesso di costruire, avente ad oggetto un intervento, qualificato come ristrutturazione edilizia di un immobile esistente, composto di due unità autonome di cui la prima al piano terra, ad uso autorimessa, e la seconda, al primo piano ad uso abitativo.

La sentenza, nel suo percorso argomentativo ha inizialmente fornito la corretta interpretazione dell’articolo 10 del decreto legge n. 76 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 120 del 2020 modificando il terzo e il quarto periodo dell’articolo 3, lett. d), del d.P.R. n.380 del 2001, norma che disciplina gli interventi di ristrutturazione edilizia, prevedendo tra le altre cose, al dichiarato scopo di semplificare le procedure autorizzative, che “nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi, altresì, gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversa sagoma, prospetti, sedile e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche…. Costituiscono, inoltre, ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parte di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”. La citata norma ha specificato, perciò, che rientrano nell’ambito concettuale della ristrutturazione edilizia anche quegli interventi che comportano la realizzazione di un edificio diverso rispetto a quello demolito, per sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche. Tuttavia la sentenza, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi già prima dell’entrata in vigore del D.L. n.76 del 2000( si veda Cons. di Stato, sez. IV, n.4791 del 22/06/2021), ha affermato che nelle ipotesi di demolizione e ricostruzione non sia necessario il rispetto del vincolo della sagoma, ma “..si fuoriesce dall’ambito della ristrutturazione edilizia e si rientra in quello della nuova costruzione quando fra il precedente edificio e quello da realizzare al suo posto non vi sia alcuna continuità, producendo il nuovo intervento un rinnovo del carico urbanistico che non presenta più alcuna correlazione con l’edificato precedente”. Ed ancora ha rilevato che “… l’intervento di ristrutturazione edilizia, pur con ampie concessioni legislative in termini di diversità tra la struttura originaria e quella frutto di ristrutturazione, non possa prescindere dal conservare traccia dell’immobile preesistente…”. La sentenza ha rigettato, quindi, il ricorso della società costruttrice affermando che si potesse escludere “…la sussistenza di elementi di continuità quando, come in caso di specie, un edificio a due piani, in cui uno solo adibito a residenza, viene sostituito da una palazzina di 5 piani fuori terra, oltre il piano interrato composto da 8 appartamenti e, all’evidenza produce un carico urbanistico ampiamente superiore e, perciò molto diverso da quello prodotto dall’edificazione precedente”.

Principi analoghi sono stati espressi di recente anche dalla Cassazione penale (Sez.III, n.26620 del 16/04/2025 – dep. 21/07/2025), intervenuta nell’ambito di un ricorso proposto contro l’ordinanza del Tribunale del riesame di Milano che aveva confermato il sequestro di un cantiere residenziale a Milano oggetto di un procedimento penale iniziato per il reato di lottizzazione abusiva. Il sequestro ha riguardato un lotto di terreno, in ordine al quale, previe operazioni di totale demolizione dell’edificio preesistente (uno stabilimento industriale dismesso) era stata prevista la realizzazione di tre torri residenziali, con numero di piani tra i 9 e i 13 ed altezze dai 27 ai 43 metri. La vicenda esaminata riguardava diversi profili giuridici, fra i quali: la corretta qualificazione dell’intervento edilizio; la necessità del piano attuativo ai sensi dell’articolo 41 quinquies, comma 6, della legge urbanistica fondamentale, la n.1150 del 17/08/1942; il trattamento giuridico degli acquirenti estranei al reato. Il procedimento penale aveva preso avvio, perciò, dalla denuncia relativa ad un intervento edilizio di significativa entità, realizzato in assenza di un piano attuativo, pur in presenza di volumetrie e altezze che superavano i limiti previsti dalla normativa per l’edilizia cosiddetta diretta, quella che prende avvio con la S.C.I.A. Secondo la Suprema Corte la citata norma, perno della legge urbanistica del 1942 tuttora vigente, si applica ogniqualvolta un intervento edilizio presenti una rilevanza significativa sull’equilibrio urbanistico, indipendentemente dallo stato infrastrutturale preesistente. La presenza di opere di urbanizzazione già realizzate, dunque, non basta ad escludere la necessità di un piano attuativo, poiché soltanto quest’ultimo consente di valutare se le infrastrutture esistenti siano idonee a sostenere l’impatto generato dal nuovo insediamento. Il ricorso a strumenti attuativi, infatti, serve a garantire che ogni intervento edilizio venga integrato in un disegno coerente che tenga conto della viabilità, degli standard urbanistici, degli spazi pubblici e delle dotazioni collettive. In questa prospettiva, anche quando esiste un livello elevato di urbanizzazione, la valutazione del carico urbanistico introdotto da un nuovo intervento edilizio impone un aggiornamento della pianificazione, che può essere effettuato soltanto attraverso strumenti approvati dall’autorità pubblica. Pertanto, l’utilizzo della semplice S.C.I.A. è ontologicamente inidoneo per interventi che richiedono un piano attuativo. Pertanto, tali interventi non possono essere derubricati come mera ristrutturazione edilizia, ma devono essere correttamente qualificati come nuova costruzione.

In particolare, si è affermato che “Il Comune, quindi, non può consentire la realizzazione di tale insediamento senza la previa approvazione di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione, anche al fine di soddisfare un’esigenza di raccordo con il preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione. Si è anche rilevato, attraverso l’analisi di fattispecie abusive lottizzatorie, che consistenti interventi edili implicano un’esigenza ineludibile non solo di potenziamento locale delle opere di urbanizzazione ma anche di raccordo con il preesistente assetto abitativo, come tale richiedente una specifica e concreta e razionale riprogrammazione. Cosicché, è la consistenza dell’intervento edificatorio, con il suo impatto sul territorio, a spiegare la necessità di una pianificazione nei termini scelti insindacabilmente dal Legislatore ed esplicitati dall’art. 41 quinquies comma 6 citato…”. La sentenza ha richiamato, inoltre, i principi espressi dalla Corte costituzionale la quale, sul punto, ha sottolineato in più occasioni che il senso del principio di pianificazione sta nella esigenza di “una visione integrata di una determinata porzione di territorio, sufficientemente ampia da poter allocare su di esso tutte le funzioni che per loro natura richiedono di trovarvi posto”, esigenza “funzionale all’ordinato sviluppo del territorio” (da ultimo si veda Corte cost., 4 luglio 2024, n. 119).

È di tutta evidenza che le sentenze del T.A.R. Lombardia e della Corte di Cassazione, depositate a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, si sono espresse sulla stessa linea interpretativa, quella di negare la possibilità di utilizzare la S.C.I.A. per interventi edilizi che, utilizzando l’errata qualificazione giuridica di mera ristrutturazione di precedenti fabbricati, hanno in realtà realizzato nuovi edifici, con un significativo impatto urbanistico, che non presentavano elementi di continuità con le precedenti costruzioni che erano state completamente demolite.

Non va poi dimenticato che la qualificazione come semplice ristrutturazione di interventi edilizi volti a costruire nuovi edifici, nella specie veri e propri grattacieli residenziali al posto di piccoli fabbricati che erano laboratori o autorimesse, ha comportato uno sconto fino al 60% degli oneri di urbanizzazione in favore dei privati costruttori e, al contempo, un possibile danno erariale per il Comune di Milano, su cui indagherà di certo la Corte dei Conti. Difficile calcolare la perdita per la città in mancanza del dato da cui partire: quante nuove costruzioni sono state fatte passare per ristrutturazioni e iniziate con una semplice S.C.I.A., al posto di richiedere il permesso a costruire nell’ambito di piani attuativi del Piano Regolatore Generale?

A prescindere dall’esito dei procedimenti penali, dei ricorsi amministrativi e delle indagini della Corte dei conti, per i quali sussiste la presunzione di innocenza degli indagati e quella di legittimità dell’azione della P.A. fino alla formazione del giudicato annullatorio, non può negarsi che l’inchiesta della Procura di Milano ha disvelato un modo di procedere per la rigenerazione edilizia della città che lascia molte perplessità e su cui la stessa amministrazione comunale sembra voler fare marcia indietro. Il cosiddetto modello Milano porta con sé numerose ombre e la giustificazione di aver fatto comunque dei bei palazzi/grattacieli al posto di bassi fabbricati fatiscenti, non consente di ignorare la probabile inosservanza delle norme urbanistiche, che attribuiscono alla P.A. il controllo armonico dello sviluppo edilizio laddove gli interventi edificatori siano oggettivamente non trascurabili. In altre parole, per costruire un grattacielo non può bastare una S.C.I.A. per ristrutturare un edificio che viene poi abbattuto.

Giuseppe Marra – magistrato

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