Quei referendari confusi che non hanno raggiunto il quorum, riforma Bonafede-Cartabia che apre più problemi di quanti ne risolva: tutti i nei che restano da sciogliere per la magistratura italiana.
Di Alfredo Mantovano, da il Timone, rivista mensile, luglio-agosto 2022.
Cracovia, Castello del Wawel. Al suo interno vi è la sala del Re, e il trono sul quale i sovrani polacchi rendevano giustizia: quando fu costruito non vi era la divisione dei poteri, e il Re era anche giudice. Il soffitto dell’aula reca – ancora adesso – dei bassorilievi con tanti volti di persone; proprio in corrispondenza del trono ve ne è uno di una donna, che – solo lei – ha una benda sulla bocca.
Narra la leggenda che un giorno il Re stava concludendo una lunga udienza, e si trovò di fronte un’anziana che gli riferiva di un torto subìto, in modo ripetuto e noioso. Il Re perse la pazienza, visto anche l’orario, decise che per quel giorno bastava, e mandò via la vecchia. È a questo punto che la testa sopra di lui lo ammonì: ‘Iudex, iudica iuste!’ Il Re obbedì all’intimazione: fece richiamare la donna, la ascoltò per tutto il tempo necessario e finalmente le rese giustizia. Prima di andarsene però ordinò che la bocca che aveva osato richiamarlo fosse coperta con una benda: vera o no che sia questa storia, il volto femminile con la benda è visibile ancora adesso.
La storia risale a secoli fa, ma non è eccentrica rispetto alle vicende giudiziarie dei nostri giorni. Insegna che la giustizia è una funzione regale, anzitutto da parte di chi la svolge, e per questo non può essere denegata, o anche solo rinviata (il rinvio è una forma di denegazione). Perché se la neghi ti sarà reclamata perfino dalle pietre.
Referendum falliti
A referendum celebrati, e falliti, e a riforma Bonafede-Cartabia approvata, siamo a questo: davanti a una corporazione di magistrati che non sempre, e non per intero, è fino in fondo consapevole del carico di responsabilità correlato a un ruolo che ancora adesso è regale, e davanti a una fame di giustizia, che aumenta in parallelo con l’incapacità o con la non volontà di darle risposta. Perché, come ricordava il cardinale Biffi, possiamo rassegnarci a tutto, ma non all’ingiustizia; sopportiamo ogni malvagità, ma non la mancanza di giustizia. Perché la giustizia è la nostra patria, anche per chi non è magistrato o avvocato, ed è per questo ci sentiamo così di frequente in esilio. Siamo infine davanti alla difficoltà di individuare i rimedi, al punto da confidare in soluzioni rapide e apparenti, quando il peso delle questioni esige non di fare a prescindere, ma di fare bene.
Il mancato raggiungimento del quorum per i referendum è la conferma che non esistono scorciatoie. Gli obiettivi erano tutti condivisibili: chi può contestare la separazione delle carriere fra P.M. e giudicanti, a 33 anni dal vigore di un codice di procedura penale che ha trasformato il pubblico ministero in una parte, se pure pubblica, certamente non assimilabile al giudice? Chi, di fronte ad aberranti privazioni della libertà personale, può affermare che si tratti di errori fisiologici, e non autentici orrori, che esigono rimedio? E come non condividere gli obiettivi di rendere la vita meno angosciante per i pubblici amministratori, di ridurre il peso correntizio nel CSM, di coinvolgere maggiormente gli avvocati e il personale ausiliario nell’amministrazione della giustizia?
Peccato che questi obiettivi siano stati perseguiti attraverso quesiti confusi e contraddittori, che e se approvati avrebbero avuto esiti non poco problematici. È certo che il loro naufragio sancisce il fallimento sui temi della giustizia di una intera legislatura: partita dalla manipolazione della prescrizione col ministro Bonafede, proseguita con l’introduzione, attraverso la riforma Cartabia, di istituti dagli effetti devastanti, quale l’improcedibilità in appello e in cassazione – una sorta di amnistia permanente anche per reati gravi, lasciata al caso e alla diversa capacità di lavorare delle differenti corti di appello -, e con destinazioni dei fondi Pnrr provvisorie e inutili, come l’ufficio per il processo, alla fine questo Parlamento, e i Governi che ne hanno ricevuto la fiducia, concludono la loro esperienza senza senza aver affrontato direttamente uno solo dei problemi emersi dal c.d. ‘caso Palamara’, e senza aver fornito un minimo contributo nella direzione di una maggiore efficienza del sistema.
I punti irrisolti
Se il bilancio è di cinque anni perduti, il senso di responsabilità imporrebbe alle forze politiche di individuare i veri nodi della questione giustizia in Italia e, al di là delle divisioni, di assumere l’impegno perché la prossima legislatura sia dedicata ad affrontarli e a risolverli. Ciò vuol dire, per restare allo stretto ambito della magistratura:
- una vera e formale separazione delle carriere, che comunque ha bisogno di una modifica costituzionale, per evitare che i P.M. eletti nel C.S.M. continuino a occuparsi della carriera dei giudici, e viceversa;
- l’estrapolazione del giudizio disciplinare dal C.S.M., per affidarlo a un giudice non eletto con criteri correntizi, anzi non eletto per nulla, bensì nominato con criteri oggettivi, come aveva ipotizzato addirittura la Bicamerale D’Alema;
- l’adeguamento quantitativo degli organici dei magistrati e del personale di cancelleria, oggi mediamente pari alla metà degli organici degli altri Paesi UE. È ben strano che i richiami all’Europa qui non valgano, neanche per immaginare soluzioni di emergenza, come per es. favorire il transito in ruoli a tempo indeterminato di almeno una parte di quei 5.000 magistrati onorari, che invece, pur smaltendo non pochi procedimenti penali e civili, lavorano a cottimo e a tempo determinato;
- la revisione del concorso per magistrati, con l’introduzione di modalità garantite di verifica non soltanto della preparazione, bensì pure dell’equilibrio fisio-psichico;
- criteri di efficienza per la nomina dei capi degli uffici.
Volendo andare oltre l’ambito della magistratura, da una legislatura orientata a una reale riforma della giustizia ci si attende uno snellimento delle procedure, sia civile che penale, e una razionalizzazione dei reati dei pubblici amministratori, per superare l’incertezza quotidiana sulle scelte da operare, e al tempo stesso il frequente condizionamento dell’azione amministrativa derivante da paralizzanti iscrizioni nel registro degli indagati, seguite da assoluzioni a distanza di troppi anni, quando il danno è ormai provocato.
Le elezioni per il rinnovo del Parlamento non sono così distanti: dalle forze politiche è lecito esigere, al di là delle divisioni, assumano l’impegno di considerare come prioritari per la prossima legislatura i veri nodi della questione giustizia. Sono le pietre a reclamare riforme incisive. E sarà sempre più difficile mettere loro il bavaglio.