Considerazioni eteredosse a proposito della sentenza della Corte di Giustizia della UE in materia di Paesi sicuri, nella prospettiva del possibile più ampio primato, non solo del giudice europeo, ma della fonte giurisprudenziale rispetto alle altre fonti di diritto.
Il 1 agosto scorso la Grand Chambre della CGUE – Corte di Giustizia della Unione Europea si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale delle questioni poste dal Tribunale di Roma di possibile contrasto della normativa nazionale italiana in materia di procedura accelerata di respingimento dei richiedenti asilo in quanto provenienti da Paesi ritenuti sicuri (“una delle conseguenze per l’interessato la cui domanda è respinta in base all’applicazione del concetto di paese di origine sicuro è che, contrariamente a quanto previsto in caso di semplice rigetto, egli può non essere autorizzato a rimanere nel territorio dello Stato membro in cui è stata presentata tale domanda in attesa dell’esito del suo ricorso avverso la decisione di rigetto di detta domanda, come risulta dalle disposizioni dell’articolo 46, paragrafi 5 e 6, della direttiva 2013/32” (in grassetto corsivo le citazioni direttamente dalla sentenza, NdR), in relazione agli artt. 36 e 37 della Direttiva comunitaria 2013/32/UE ed agli artt. 46 e 47 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.
L’antefatto di tale arresto da parte del massimo organo giurisdizionale della UE è già stato fatto oggetto di commento (cfr. https://www.centrostudilivatino.it/migranti-diritti-e-stati/), cui si rimanda espressamente quale presupposto fattuale e logico del presente intervento.
Segnatamente, il giudice del rinvio ha chiesto: I. “se la designazione dei Paesi sicuri mediante un atto di rango legislativo sia conforme alle prescrizioni della direttiva 2013/32”; II. ha lamentato che “la normativa italiana non contiene più alcun riferimento alle schede informative relative ai paesi terzi in questione ai fini dell’inserimento di questi ultimi nell’elenco dei paesi di origine sicuri, né menziona la necessità di citare le fonti dalle quali sono tratte tali informazioni” con la “conseguenza che ai richiedenti protezione internazionale, da un lato, e agli organi giurisdizionali dinanzi ai quali essi hanno presentato ricorsi, dall’altro, verrebbe impedito, rispettivamente, di contestare e di sindacare la provenienza, l’autorevolezza, l’attendibilità, la pertinenza, l’attualità, la completezza e il contenuto delle informazioni che hanno condotto alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro, in violazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva sancito all’articolo 47 della Carta”; III. “In terzo luogo, … se gli Stati membri debbano consentire ai giudici nazionali di utilizzare tutte le informazioni pertinenti a loro disposizione al fine di verificare la fondatezza della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro, indipendentemente dal fatto che l’autorità nazionale che ha proceduto a tale designazione abbia, o meno, rivelato le informazioni sulle quali si è basata”; IV. se, “in quarto luogo, … la possibilità di designare come paese di origine sicuro un paese terzo con l’eccezione di talune categorie di persone … debba essere esclusa sulla base di un ragionamento analogo a quello adottato dalla Corte nella … sentenza del 4 ottobre 2024 C-406/22. Un’esclusione di categorie di persone riguardante, nella maggior parte dei casi, tutto il territorio di un paese terzo sarebbe persino più grave dell’esclusione di parti di territorio, esaminata nella medesima sentenza”.
Dunque, “due cittadini della Repubblica popolare del Bangladesh hanno presentato dinanzi al giudice del rinvio ricorsi avverso decisioni che respingono le loro domande di protezione internazionale in quanto manifestamente infondate, con la motivazione che essi provengono da un paese di origine sicuro. In tali domande, il giudice (del rinvio, NdR) spiega di nutrire dubbi in ordine alla compatibilità con il diritto dell’Unione della designazione di tale paese terzo come paese di origine sicuro, in sostanza, per il motivo che tale designazione deriva da un atto legislativo, che il legislatore italiano non ha divulgato le sue fonti di informazione e ha mantenuto in vigore la facoltà di procedere a detta designazione, sebbene tale paese terzo possa non essere «sicuro» per talune categorie della sua popolazione”.
Quanto al primo motivo, la CGUE, pur richiamando il rilievo dell’Avvocato Generale “al paragrafo 36 delle sue conclusioni per cui risulta che la nozione di «normativa» deve essere intesa nella sua accezione più ampia, come comprendente atti di natura legislativa, regolamentare o amministrativa”, ed aderendo alla tesi, in ossequio alla discrezionalità concessa agli Stati membri dalla disposizione di cui all’art. 288 III co. TFUE, che “né queste disposizioni né, del resto, altre disposizioni della direttiva 2013/32 determinano la o le autorità degli Stati membri che dovrebbero essere incaricate di designare i paesi di origine sicuri a livello nazionale oppure lo strumento giuridico pertinente a tal fine”, argomenta, senza chiara conseguenzialità logica, che “conformemente all’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, quando un giudice nazionale è investito di un ricorso avverso una decisione concernente una domanda di protezione internazionale, esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da paesi terzi designati come paesi di origine sicuri, conformemente all’articolo 37 della medesima direttiva, tale giudice, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dal suddetto articolo 46, paragrafo 3, deve rilevare, sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati a sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso, una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I a detta direttiva”, di talchè “… la circostanza che uno Stato membro abbia scelto di procedere alla designazione di paesi di origine sicuri mediante un atto legislativo non può essere tale da impedire al giudice nazionale adito, alle condizioni enunciate al punto precedente di questa sentenza, di controllare, anche solo in via incidentale, se la designazione del paese terzo di cui trattasi quale paese di origine sicuro rispetti le condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I alla direttiva 2013/32”.
La conclusione di tale fin qui lineare ragionamento della Corte appare, invero, pressocchè scontata: “gli articoli 36 e 37 nonché l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a che uno Stato membro proceda alla designazione di paesi terzi quali paesi di origine sicuri mediante un atto legislativo, a condizione che tale designazione possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale vertente sul rispetto delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I a detta direttiva, da parte di qualsiasi giudice nazionale investito di un ricorso avverso una decisione concernente una domanda di protezione internazionale, esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da paesi terzi designati come paesi di origine sicuri”, in buona sostanza confermando la correttezza dell’utilizzo di norma nazionale di rango primario ma condizionatamente al suo possibile ordinario sindacato giurisdizionale.
Sul secondo motivo, la Corte, dopo avere riconosciuto che “né l’articolo 37, paragrafo 3, della direttiva 2013/32 (che prevede che la valutazione volta ad accertare che un paese terzo è un paese di origine sicuro si basa su una serie di fonti di informazione, comprese, in particolare le informazioni fornite da altri Stati membri, dalla EUAA, succeduta allo EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti) né altre disposizioni della direttiva 2013/32 stabiliscono espressamente che l’autorità nazionale che procede alla designazione, a livello nazionale, dei paesi di origine sicuri debba rendere accessibili le fonti di informazione sulla base delle quali ha proceduto a tale designazione”, afferma che “la possibilità per il richiedente di superare la presunzione relativa di protezione sufficiente nel paese d’origine, la quale può essere superata dal richiedente che adduca gravi motivi attinenti alla sua situazione personale, conformemente all’articolo 36, paragrafo 1, della direttiva 2013/32, richiede, per essere efficace, che detto richiedente sia messo in condizioni di conoscere le ragioni per le quali si presume che il suo paese di origine sia sicuro. Pertanto, detto richiedente deve disporre, allo scopo, di un accesso alle fonti di informazione in base alle quali il suo paese di origine è stato designato come paese di origine sicuro”.
L’aporia logico-giuridica della motivazione in parte qua è evidente: se si tratta di una presunzione (seppure semplice, che può cioè essere superata ma alla sola condizione che si dimostri che nel caso specifico il Paese non sia sicuro), perché la valenza presuntiva non vale a dare per provato che il Paese indicato per sicuro lo sia e lo sia proprio per l’accertamento compiuto attraverso fonti che, peraltro, sono le medesime indicate dalla Direttiva con la quale si vorrebbe in contrasto la norma nazionale?
Omologamente, venendo al terzo punto di rinvio, perché i giudici nazionali, investiti del compito di delibare la dichiarata manifesta infondatezza della domanda di asilo, possono superare la portata probatoria della presunzione, poichè “l’efficacia della tutela giurisdizionale esige che tanto il richiedente interessato quanto il giudice adito possano non soltanto essere edotti dei motivi di un tale diniego, ma anche avere accesso alle fonti di informazione sulla base delle quali il paese terzo di cui trattasi è stato designato paese di origine sicuro”?
In realtà, la CGUE si spinge addirittura oltre, non solo negando la valenza della presunzione ma assegnando al singolo giudice, con modalità sostanzialmente equipollente al legislatore, la facoltà di superarla egli stesso, del tutto autonomamente e con l’ausilio di fonti informative sue proprie, laddove arriva a sostenere che “l’efficacia del controllo giurisdizionale in ordine al rispetto delle condizioni sostanziali, enunciate all’allegato I alla direttiva 2013/32, presuppone che il giudice adito possa avere accesso alle fonti di informazione sulla base delle quali l’autorità nazionale competente ha proceduto alla designazione del paese terzo di cui trattasi come paese di origine sicuro. Tale esigenza di efficacia implica altresì che detto giudice possa verificare se tale designazione rispetti le condizioni sostanziali enunciate all’allegato I a detta direttiva, tenendo conto di altre informazioni da esso stesso eventualmente raccolte, siano esse provenienti da fonti pubbliche o da fonti di cui ha chiesto la produzione a una delle parti della controversia dinanzi ad esso pendente, a condizione che, da un lato, si sia accertato dell’affidabilità di tali informazioni e che, dall’altro, conformemente al principio del contraddittorio, tali parti abbiano la possibilità di presentare le loro osservazioni in ordine a tali informazioni … seppur a condizione, da un lato, di accertarsi dell’affidabilità di tali informazioni e, dall’altro, di garantire alle parti in causa il rispetto del principio del contraddittorio”.
Circa, infine, il quarto punto di rinvio, la CGUE, pur dopo avere riconosciuto che né nell’art. 37 della Direttiva né nell’Allegato I della stessa i criteri enunciati “non forniscono alcuna indicazione secondo cui gli Stati membri avrebbero la possibilità di designare un paese terzo come paese di origine sicuro pur quando, per talune categorie di persone all’interno della popolazione di tale paese, i criteri sostanziali previsti da tale allegato I non siano soddisfatti”, ciononostante “interpretare l’articolo 37 della direttiva 2013/32 nel senso che esso consenta di designare un paese terzo come paese di origine sicuro anche se, per talune categorie di persone, tale paese non soddisfa le condizioni sostanziali previste all’allegato I a detta direttiva, avrebbe l’effetto di estendere l’ambito di applicazione del regime speciale di esame. Poiché tale interpretazione non trova alcun supporto nel tenore letterale dell’articolo 37 né, più in generale, nella suddetta direttiva, riconoscere una facoltà del genere trascurerebbe il carattere restrittivo dell’interpretazione di cui le disposizioni derogatorie devono essere oggetto”, volutamente trascurando la circostanza che, anche con valenza di interpretazione autentica, la nuova Direttiva Immigrazione (su cui infra), seppure non entrata in vigore, espressamente invece lo preveda.
Tale invero prolissa motivazione, che appare piuttosto meramente tautologica dei princìpi di diritto affermati dalle norme europee asseritamente violate, senza che vi sia una più precisa ed analitica esplicazione delle ragioni di tale affermata violazione, pare, dunque, affermare senza ombra di dubbio la legittimazione del giudice nazionale italiano a sindacare anche nel merito, andando quindi oltre il mero controllo di legalità di rispetto della norma, sostanziale e procedurale, la scelta del legislatore italiano di qualificazione del Paese come sicuro e, quindi, in quanto tale, presupponente la infondatezza della domanda d’asilo (in assenza ed a prescindere da specifiche ragioni che il singolo richiedente abbia posto a fondamento della propria istanza), addirittura attraverso il ricorso a fonti informative ulteriori e diverse da quelle assunte dal Parlamento (ovvero dal Governo che abbia promosso la decretazione d’urgenza poi confluita nella conversione del decreto legge in legge), potenzialmente anche private.
Silvia Albano, presidente di MD – Magistratura Democratica, la storica corrente ‘progressista’ tra le associazioni dei magistrati, peraltro lo stesso giudice del rinvio alla CGUE essendo applicata alla sezione Immigrazione del Tribunale di Roma, competente per le opposizioni ai provvedimenti di diniego delle richieste d’asilo con procedura d’urgenza, ha commentato la sentenza della CGUE con -niente affatto celato- sprezzante sarcasmo: “Le norme dell’Unione europea prevalgono sulle norme nazionali. Non è una novità. Si studia sin dai primi anni di università. Siamo in uno Stato costituzionale di diritto e i governi devono rispettare le fonti sovraordinate”.
Tale apparentemente inoppugnabile affermazione ammette, invece, di essere revocata in dubbio, nei termini di significativa limitazione della sua portata, per almeno due profili.
Il primo dice relazione al principio di attribuzione (che, insieme a quello di sussidiarietà, costituisce pilastro dei Trattati), in virtù del quale il primato unionale riguarda solo le materie appunto attribuite in via esclusiva agli organi della UE ed -a tutto voler concedere- a quelle cd. ‘concorrenti’, cioè affidate congiuntamente alla titolarità di questi ma anche ai singoli Paesi membri, che restano invece del tutto attributari di legittimazione esclusiva per le materie residue assegnate loro, su cui esercitano piena sovranità nazionale.
Ne era consapevole lo stesso Presidente che ha sottoscritto la sentenza in commento, Koen Lenaerts, quando, richiamando il precedente della sentenza Poncharevo, con la quale la Corte europea aveva obbligato la Bulgaria, di cui era cittadina una delle due madri che erano state riconosciute a Gibilterra genitori della bambina nata da GPA (Gestazione Per Altri), a “rilasciare al minore una carta d’identità o un passaporto e di riconoscere il legame di parentela attestato in Spagna”, aveva precisato che ciò era solo “al fine di consentirgli di circolare e soggiornare liberamente nell’Unione con i suoi genitori” (principio di libera circolazione dei cittadini, che è materia di attribuzione unionale), senza che ciò contrasti “con l’identità nazionale e con l’ordine pubblico della Bulgaria”, poiché questa “non ha alcun obbligo di prevedere, nel diritto nazionale, la genitorialità di persone dello stesso sesso. Né è tenuta a riconoscere per diversi fini diversi dall’esercizio dei diritti derivanti dal diritto dell’Unione, il legame di filiazione tra il minore e le persone menzionate come genitori nel certificato di nascita spagnolo. La Corte si è quindi limitata a garantire l’effettività del diritto dei cittadini dell’Unione alla libera circolazione” (cfr. https://www.centrostudilivatino.it/lo-ha-detto-bruxelles-ma-non-e-vero/).
Dunque, è legittimo sostenere che non esiste nessun diritto europeo superiore a quello nazionale in materia di immigrazione, in spregio all’ordine pubblico interno e, più in generale, dei poteri di controllo di rispetto dei princìpi costituzionali nazionali dei singoli Stati membri.
Ma v’è di più ed è esattamente il punto di maggiore interesse della sentenza in oggetto, poiché è ciò che va oltre la specifica questione dei Paesi sicuri, peraltro destinata a perdere del tutto di interesse a far data dal 12 giugno 2026 (se non prima, come richiesto dalla stessa Commissione UE), quando entrerà in vigore il nuovo Regolamento europeo 2024/1348, che all’art. 61 stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE, rubricato «Concetto di paese di origine sicuro», al paragrafo 2 così disponendo: «La designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro a livello sia dell’Unione [europea] che nazionale può essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili».
E’ questo il secondo profilo di possibile contestazione della lezione di Diritto Europeo sul primato tout court del diritto europeo su quello nazionale: è fonte sovraordinata anche la sentenza dei giudici europei?
la Corte del Lussemburgo vincola quanto all’interpretazione da dare al diritto unionale, ma non può considerarsi propriamente una fonte del diritto interno, se non indirettamente, nella misura in cui ‘integra’ la norma sovranazionale con detta sua interpretazione.
La CGUE, che è quindi interprete del diritto europeo che si impone direttamente anche ai casi nazionali, che il magistrato del singolo Stato membro può e deve applicare senza neppure attenderne la ricezione da parte del legislatore nazionale, può essere essa stessa produttrice del principio di diritto? La giurisprudenza è fonte di diritto, anzi è il giudice fonte di ultima istanza nella misura in cui può superare -come nel caso di specie- la qualificazione fatta dal legislatore (non dal Governo), con norma quindi di rango primario (precisamente, nel caso in esame, l’articolo 2-bis, comma 1, del decreto legislativo n. 25/2008, come modificato dal decreto legge n. 158/2024 -come riconosciuto dalla stessa CGUE al punto 25-), di quali sono i Paesi sicuri, che egli può negare sulla scorta di sue informazioni e valutazioni prevalenti su quelle che hanno condotto il Parlamento a ritenerli tali?
La questione che si pone è, dunque, quella ben più ampia del riconoscimento in capo alla magistratura giudicante, nell’esercizio del suo compito di ius dicere, del potere di fare diritto, di creare la norma nell’atto di interpretare la fattispecie concreta, assumendo una posizione di fatto sovraordinata rispetto al legislatore e minando la parità stessa dei poteri, più ancora che la loro distinzione.
Il Presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura – CSM, Sergio Mattarella, non sembra essere d’accordo: “Si deve avere ben chiara la distinzione della doverosa interpretazione e applicazione delle norme rispetto alla pretesa di poterle creare per soddisfare esigenze che non possono trovare riscontro nell’ambito della funzione giurisdizionale” (discorso alla cerimonia di inaugurazione della nuova sede della Scuola Superiore della Magistratura a Castelcapuano)
Se, invece, secondo una logica in realtà affermata anche in ambito nazionale, le Corti europee si parlano fra loro affermando il proprio potere di sindacare l’operato dei Parlamenti che fanno la legge attraverso il cd. controllo di legalità, a maggior ragione la CGUE potrà, quindi, pretendere di interpretare creativamente il rapporto fra diritto europeo ed i diritti dei singoli Stati membri con la medesima imposizione primaziale.
Quanto poco, in una simile prospettiva, rimanga di rispetto dello Stato di diritto (ma sarebbe meglio dire del Rule of Law) e come sarebbe impossibile colmare il deficit democratico di affidare la legge a soggetti politicamente irresponsabili (perché sottratti al controllo popolare attraverso il voto elettorale dei propri rappresentanti), è facile da dedurre.
La connotazione eversiva dell’ordine UE, come sancito dai Trattati e dai loro princìpi fondatori, potenzialmente connessa e dipendente da tali considerazioni -se fondate-, impone forse una riflessione che va ben oltre la pur rilevante specifica materia dell’immigrazione.
Renato Veneruso