1. A seguito delle vicende del 6 gennaio, l’iPhone di Donald Trump è stato reso quasi inutile: potrà effettuare chiamate e scattare foto, ma è tutto. L’ex presidente è stato bandito non solo da Twitter e Facebook, dove aveva un totale di 150 milioni di follower, ma anche da YouTube, Shopify, Stripe, l’app di streaming di videogiochi Twitch e, forse più assurdamente, Spotify: se un Trump abbandonato vuole ballare da solo con “Macho Man”, dovrà comprarne una copia fisica. Trump ha vissuto gli ultimi giorni da presidente USA senza alcuna libertà di parola sui social.
In molti hanno rimarcato la natura privata di queste società, non tenute a garantire alcunché a nessuno, specie se un profilo ne violi il codice di condotta. Questa non è una lettura approfondita della vicenda, perché non esiste società privata che non sia tenuta a rispettare leggi fondamentali, come accade nell’intero mondo dei media, tanto più di fronte a piattaforme ormai in regime quasi monopolistico sui social.
Chi approva con entusiasmo l’embargo social di Trump, mosso dalla sola antipatia verso il tycoon, vede il dito e non la luna. A rischio vi sono le libertà fondamentali su cui poggia il capitalismo, vale a dire la circolazione delle idee e l’ingresso sempre possibile sul mercato di nuove realtà.
Sin dall’antichità è apparso chiaro il nesso tra democrazia e libertà da un lato, e informazione, dall’altro. Aristotele aveva evidenziato come la democrazia prosperi unicamente in un contesto sociale basato sulla libertà. Ma l’esercizio di tale libertà – affermava il grande filosofo – richiede strumenti e “conoscenze” speciali, che possono derivare solo dall’“informazione”. Quest’ultima è per Aristotele la pre-condizione della partecipazione democratica alla vita politica, oltre che uno strumento di accesso ai meccanismi di controllo sociale del potere[1].
In secoli più recenti liberali inglesi come John Locke, e illuministi francesi da Diderot in poi, partendo dall’affermazione che un maggiore accesso all’informazione avrebbe generato forme di partecipazione più ampia dei cittadini alla vita pubblica, hanno evidenziato come non sia a tal fine sufficiente il semplice accesso all’informazione, qualsiasi essa sia, bensì che molto dipenda dall’utilità delle notizie, dalla tempestività nella loro acquisizione, dalle modalità e forme di trasmissione, dalla intelligibilità delle stesse.
2. Con lo sviluppo degli ordinamenti democratici contemporanei, e soprattutto grazie alle innovazioni tecnologiche che nelle ultime decadi hanno interessato i mezzi d’informazione e comunicazione, il cittadino si trova oggi in una condizione privilegiata, poiché il più delle volte ha accesso all’informazione in maniera immediata e diretta. Grazie alle nuove tecnologie, in particolare a internet, è ipotizzabile – almeno in parte – la realizzazione dell’ideale aristotelico del libero accesso del cittadino nell’agora come luogo di diffusione e acquisizione delle informazioni necessarie per garantire la piena partecipazione alla vita democratica della polis. Internet ha le sembianze di un’agora dei nostri giorni, attraverso la quale lo stato non solo può, ma ha anche l’obbligo giuridico di fornire le informazioni sulla propria attività, necessarie alla partecipazione dei cittadini ai processi decisionali.
Al rapporto tra web e politica è dedicata gran parte della produzione scientifica di Sara Bentivegna, docente di Comunicazione politica a La Sapienza di Roma: nel recente saggio da lei curato, La politica in 140 caratteri. Twitter e spazio pubblico, ella analizza l’utilizzo politico di questa piattaforma e il suo impatto sui mainstream media (televisione e stampa), costretti a seguire e a riprendere “i cinguettii” dei politici che coi social hanno personalizzato il loro carattere di comunicazione, diventando agenzia stampa di sé stessi. “Ciò che importa è la presa di parola del soggetto, priva di mediazioni esterne ed evocativa di una vicinanza e intimità un tempo impensabili e impedite dal filtro mediale. La pubblicazione di un Tweet diventa in questo modo la traduzione digitale del “metterci la faccia”, ovvero una delle tante interpretazioni del mettersi in gioco in un rapporto “personale” con i cittadini”[2].
3. Quel che è certo è che i social network e la loro censura privata rappresentano oggi una delle più potenti armi a supporto del discorso politicamente corretto, contro la diffusione di qualunque idea alternativa a quelle che quel discorso ammette. Le evoluzioni della rete Internet hanno portato i più attenti autori ad abbandonare l’approccio ottimista, che sottolineava le “possibility of democratic culture”[3] della rete, per approdare a un pensiero più scettico e sicuramente più consapevole dei rischi per le democrazie correlati al controllo privato della Rete e dei suoi strumenti[4]. Se, infatti, la rete nasceva come strumento perfetto per garantire un vasto pluralismo esterno, che portò la dottrina a concentrarsi sulla necessità di tutelare un accesso alla stessa senza preoccuparsi di quello che al suo interno avveniva, oggi l’acquisizione di un larghissimo spazio di mercato da parte di poche internet platform ha messo in crisi l’assunto alla base delle considerazioni libertarie di molti autori.
Dalla nascita del web 2.0. la prospettiva appare quindi rovesciata, poiché è passata dalla necessità di garantire il cyberspazio a quella di garantire i diritti degli internauti: “sono i cittadini della realtà che non possono non chiedere ai propri governi di intervenire per impedire che le entità universalizzanti giochino un ruolo potenzialmente letale per lo spazio democratico”[5]. Oggi appare necessario pensare e formulare regole da imporre a internet: ciò non significa attentare alle libertà democratiche, ma al contrario difendere le stesse rispetto a new governor non statali e poco trasparenti, quali appaiono le internet platform.
4. Se la censura – per quanto discutibile all’ombra delle acquisite garanzie delle democrazie liberali occidentali – è sempre stata una prerogativa del potere pubblico, non si può fare a meno di chiedersi che cosa possa accadere qualora essa venisse istituzionalizzata come nuovo potere dei gestori delle piattaforme telematiche e dei social network.
Bisognerebbe tornare a interrogarsi sui temi classici del pensiero politico, e soprattutto giuridico, e chiedersi ancora una volta, specialmente in questo passaggio della censura da potere pubblico a facoltà privata, “chi controlla i controllori?”. Chi garantisce, cioè, che la censura esercitata da Facebook e dagli altri social network sia corretta nei modi e giusta nel merito? Tale controllo sarà demandato allo stesso Facebook e agli stessi social network in modo autoreferenziale? Ma l’esercizio autoreferenziale del potere e del controllo sul potere medesimo non è proprio l’esatto opposto dello Stato di diritto e della democrazia? I social network, per quanto stipulino contratti di diritto privato con gli utenti, peraltro svolgendo un servizio che è del tutto simile a quello pubblico di informazione, possono sottrarsi alle comuni regole pubbliche, ai principi del dibattito democratico e ai diritti costituzionalmente garantiti (libertà di parola, di pensiero, di coscienza ecc)?
La privatizzazione della censura appare, allora irragionevole proprio sul piano dei principi costituzionali: non solo la censura è costituzionalmente inconcepibile se non in casi limitatissimi, negli schemi del diritto costituzionale d’Occidente, e oggetto di una riserva di legge e di una riserva di giurisdizione, ma immaginare che la si possa affidare a organizzazioni private secondo modelli che ricordano lo scandirsi orizzontale del principio di sussidiarietà appare impossibile[6].
Il diritto negativo dei social media si compone di regole di relazione che coesistono apparentemente col diritto posto, ma di fatto operano due diritti e due ordinamenti, secondo la ricostruzione di Santi Romano, l’uno in tendenziale negazione dell’altro. Si può aggiungere che, se è vero che al confronto il diritto positivo appare “fragile”, è forse giunto il momento di riaffermare i principi delle costituzioni nazionali anche in opposizione alla pulsione globalizzante di cui le internet platform si fanno portatrici, spesso a scapito dei diritti democratici[7].
Daniele Onori e Aldo Rocco Vitale
[1] Aristotele, La Politica, in C.A. VIANO (a cura di), Politica e Costituzione di Atene di Aristotele, U.T.E.T., Torino, 1992, pp. 273-274.
[2] Bentivegna S., (a cura di) La politica in 140 caratteri. Twitter e spazio pubblico, 2014, Roma, FrancoAngeli,
[3] J.M. Balkin, Digital Speech and Democratic Culture: A Theory of Freedom of Expression for the Information Society, in “New York University Law Review”, vol. 79, 2004, n. 1, pp. 45-46.
[4] J.M. Balkin, Old-School/New-School Speech Regulation, in “Harvard Law Review”, vol. 127, 2014, n. 8, pp. 2300-2301.
[5] G.L. Conti, La governance dell’Internet: dalla Costituzione della Rete alla Costituzione nella Rete, cit., p. 118.
[6] G.L. Conti, Manifestazione del pensiero attraverso la rete e trasformazione della libertà di espressione: c’è ancora da ballare per strada?, cit
[7] P. Costanzo, Il fattore tecnologico e le sue conseguenze, Relazione al XXVII Convegno Annuale dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti (Salerno, 22-24 novembre 2012), “Costituzionalismo e globalizzazione”, www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2012