fbpx

Il legislatore e poeta ateniese Solone (VI secolo a.C.), fu considerato già dai suoi contemporanei un esempio di saggezza e di buon governo. Platone lo incluse tra i sette sapienti della Grecia, mentre la storia lo ricorda, più specificamente, per aver dato ad Atene la legge scritta con la quale il saggio arconte stabilì «il limite» all’arbitrio degli aristocratici e «la misura» entro la quale il loro potere si sarebbe di lì in poi esercitato. Nell’elegia Eunomia, Solone non canta le gesta degli eroi, né la virtù del lavoratore, ma la virtù della legge che instaura la giustizia e l’armonia tra gli uomini.

Solone, nato ad Atene intorno al 640 a.C. e annoverato fra i Sette sapienti, fu arconte nel 594. Dopo avere realizzato le sue riforme si recò in Egitto e a Cipro; ritornato ad Atene verso il 580, mise in guardia gli ateniesi contro le aspirazioni di Pisistrato alla tirannide. Visse gli ultimi venti anni lontano dalla vita politica e morì nel 560. Dei suoi 5.000 versi ce ne restano non più di 250, fra i quali alcune elegie come l’ Eunomia e l’Elegia alle Muse

Citata forse per esteso (se si eccettuano piccole lacune dopo i vv. 10, 11 e 25) da Demostene – che nel IV sec. a.C., nell’orazione Sulla corrotta ambasceria (254s.), piegava alle esigenze della propria parte idee e slogans di ascendenza soloniana, tratteggiando Eschine come un inadeguato Solone – questa ampia elegia (la più estesa, dopo i 76 versi dell’Elegia alle Muse, nel superstite corpus di Solone), in cui lo statista rilegge sotto una luce etica e religiosa i concreti, profondi conflitti che laceravano il tessuto sociale ateniese e le proprie proposte per risolverli, prende solitamente il nome di Eunomía[1], “Buongoverno”.

Sorretta da un’incrollabile fede nella protezione degli dèi – segnatamente Zeus e Atena – che impediranno una rovina completa della città (vv. 1-4), diretta contro i cittadini stolti e gli ingiusti capi del popolo, la cui tracotanza ha prodotto una situazione drammatica, pesantissima soprattutto per i poveri (vv. 5-31), l’appassionata proposta di Solone (vv. 32-39), tesa a “lisciare le asperità” (v. 34), costituisce la prima riflessione teorica sulla storia politico-sociale di Atene – e con essa molta parte della copiosa letteratura politica attica successiva dovrà in qualche modo fare i conti – nonché il primo tentativo di applicare una visione del mondo eticamente fondata alla concreta realtà politica in atto.

Una vita senza giustizia? È una vita allo sbando, senza riferimenti chiari e sicuri, sempre confusa. Il giusto diventa, dunque, il principio regolatore del nostro agire, il metro secondo il quale si è parte integrante di una comunità, è connaturato al fatto di essere umani e cittadini: è uno tra i bisogni primari dell’uomo, sin dai tempi più antichi.

Ed è così che il legislatore e poeta greco Solone ci presenta, nell’elegia intitolata Eunomia, il concetto di Giustizia e la sua natura: “sa ad un tempo quello che sta accadendo e quello che è accaduto in precedenza, e col tempo giunge comunque, per far pagare ogni fio”.

Solone sottolinea che Δίκη punisce a causa dell’errata condotta morale ed etica dei cittadini: non è irragionevole, senza freni, ma, al contrario, si rivolge alla misura e alla moderazione, accompagnando l’umana coscienza lontana dal desiderio di ricchezza e sempre tesa alla tranquillità della società in cui ritrova l’identità.

Si tratta della serenità pacifica a cui alludono i principi fondamentali della Costituzione Italiana, i quali risultano essere simbolo della sovranità del popolo, dell’uguaglianza di fronte alla legge, della garanzia di diritti inviolabili. Tutti motivi che costruiscono uno Stato rispondente alla necessità di solidarietà del singolo e della collettività, ben diverso dalla “nave senza nocchiero” dei tempi di Dante e in parte estraneo alle ferite provocate dalle ingiustizie.

Ecco perché il riconoscimento di alcuni diritti imprescindibili (quelli che il domenicano spagnolo Francisco De Vitoria definì diritti naturali) ci permette di essere innanzitutto individui, e, in un secondo momento, cittadini tutelati dalla nostra Repubblica.

Come ci ricordano i versi dell’Eunomia, siamo noi a determinare l’appartenenza alla società, l’esistenza di quest’ultima, ma è compito dello Stato o, se preferiamo, del Buon Governo, quello di garantire l’espressione d dell’uomo nella sua diversità e soprattutto la pari dignità sociale davanti alla Legge.

Quel nomos che è buono (eu) rappresenta la legge umana in quanto capace di stabilire un rapporto con la legge naturale o divina, in quanto pur nella sua ‘artificialità’ rispetta un ordine più alto. Se di queste leggi si poteva magnificare la saggezza, se esse potevano essere interpretate come incarnazione della Giustizia, questo poteva accadere perché esse si presentavano come una ragionevole mediazione tra interessi e posizioni contrastanti che avevano agitato e agitavano la città. Nate in mezzo ai contrasti ed alle lotte, tra aristocrazia e demos, tra ricchi e poveri, tra agricoltori e mercanti, ad esse spettava una funzione di mediazione che fu realizzata e quasi incarnata dalla figura di Solone.

Egli pose mano durante il periodo del suo arcontato, la massima carica pubblica dotata di poteri giudiziari ed esecutivi cui fu eletto nel 594 a.C., a riforme tendenti a salvare la città da una possibile guerra civile. I ricchi da un lato e i molti schiavi per debiti dall’altro si opponevano senza tregua, volendo gli uni la distribuzione delle terre, chiedendo gli altri il mantenimento dello status quo. Solone attuò, rivendicando a sé questo merito, la liberazione della terra, imponendo l’abolizione della schiavitù personale e delle ipoteche per debiti. Insomma, migliorò la condizione degli umili impedendo però che i potenti avessero la peggio.

L’eunomia, il buon governo, si presenta qui come una ragionevole mediazione tra ciò che va fatto e ciò che va conservato. Dall’attività di Solone emerge che solo un complesso di leggi valido per tutti poteva realizzare la mediazione fra ricchi e poveri, fra aristocratici e popolo, e poteva quindi dare un senso concreto all’obiettivo, tipico della cultura occidentale e individuato dai Greci per primi, di riconoscere, nella città, solo la supremazia della legge, e non di un uomo.

Questo ruolo della legge ha però al proprio interno una sua fragilità. Lotte politiche e ideologiche lo metteranno continuamente in crisi su almeno tre grandi direttrici: la pluralità e la legittimità delle diverse forme di governo; lo scontro tra pensiero democratico e cultura aristocratico-oligarchica e la contraddizione che alberga nel cuore stesso della legge.

Daniele Onori


[1] Sol. fr. 4 W. Traduzione dal Greco: La nostra città non rovinerà mai per un destino sancito da Zeus e per volontà degli dèi beati immortali: perché una tale magnanima custode e protettrice, figlia di padre tremendo, Pallade Atena, dall’alto vi tiene sopra le mani; ma sono proprio gli stessi cittadini che vogliono, nelle loro manifestazioni di demenza, distruggere una grande città, persuasi da brama di soldi, e l’ingiusto disegno dei capi del popolo, per i quali è già disposto che per questa grande arroganza subiscano molti dolori; perché non sanno proprio contenere la smisurata fame, né ben armonizzare tutto ciò che dà gioia e che è già qui nella serenità del banchetto , e si arricchiscono, invece, persuasi da ingiuste intraprese e non risparmiano le sacre proprietà, né alcun bene pubblico, ma rubano, rapinano con forza, chi in un modo chi in un altro, e non custodiscono i santi fondamenti della Giustizia, la quale, silenziosa, sa ad un tempo quello che sta accadendo e quello che è accaduto in precedenza, e col tempo giunge comunque, per far pagare ogni fio. Questa ferita, che non lascia scampo, ha ormai raggiunto l’intera città, che finisce rapidamente per approdare alla schiavitù miserabile; la quale a propria volta, poi, ridesta le lotte interne e la guerra dormiente, che conduce in rovina l’amabile giovinezza di molti; rapidamente, grazie a chi ci è ostile, la nostra amatissima città si sfalda in congreghe gradite soltanto a chi compie ingiustizie. Sono questi, dunque, i mali che si aggirano per il paese: molti dei poveri emigrano verso una terra straniera, venduti e legati da non più tollerabili catene. Il pubblico male, in tal modo, penetra in casa di ciascuno, né bastano più a trattenerlo le porte del cortile, ma con un balzo scavalca il recinto, per quanto alto, e scopre comunque chi pure si rifugiasse, fuggendo, nel recesso di un talamo. Queste sono le cose che il cuore mi impone di insegnare agli Ateniesi: come il Malgoverno apporti a una città mali in gran numero; il Buongoverno, al contrario, rivela ogni cosa in buon ordine e ben fatta, e frequentemente riesce ad avvincere in ceppi gli ingiusti: liscia le asperità, pone fine alla dismisura, ottunde l’arroganza, secca sul nascere i fiori della tracotanza accecante, raddrizza le sentenze deviate, affievolisce le azioni superbe, pone fine agli effetti delle divisioni civili, pone fine alla rabbia della straziante contesa, e – insomma – in suo potere, tutto, tra gli uomini, è ben fatto e assennato.

Share