fbpx
  1. Tra le tante riflessioni sollecitate dall’emergenza sanitaria in atto, merita un’attenzione particolare quella rivolta a esaminare il rapporto tra i precetti normativi finalizzati a contenere l’epidemia e la sfera dei diritti fondamentali dei cittadini chiamati a osservarli. Si tratta di una questione che si presta a essere scrutinata in una duplice prospettiva: quella della funzione delle leggi e quella del rapporto tra autorità e libertà.
    Nel pensiero moderno si è sovente attribuito alla legge (e alla politica) un valore salvifico, catartico. Si è creduto che la legge fosse capace, da sola, di modificare i comportamenti aberranti o devianti dell’uomo, correggendone la natura corrotta e realizzando il sogno della Città perfetta (culturalmente ascrivibile sia al pensiero socialista utopista, sia a certe visioni cristiane radicali).
    L’esperienza insegna il contrario: nonostante, ad esempio, si moltiplichino leggi finalizzate a prevenire i femminicidi, le donne continuano a essere uccise come prima. Cosa implica questa banale constatazione? Che non si devono introdurre norme finalizzate a contenere o a proibire condotte lesive? No: la legge conserva, comunque, una sua forza preventiva e repressiva. Significa, piuttosto, che la natura umana è, per certi versi, incorreggibile e che ci si deve astenere dall’attribuire alla legge la funzione, impropria, di purificazione della società.

  1. La legge non elimina il male dal mondo. Alle leggi va, invece, riconosciuta, secondo il sapiente principio di realismo insegnato dalla dottrina cattolica, una più corretta valenza: quella di (tendere a) garantire il bene comune, ma senza alcuna pretesa di perfezione, e, in particolare, uno svolgimento ordinato delle relazioni all’interno di una collettività, funzionale alla tutela della dignità della persona e al più integrale sviluppo dell’essere umano all’interno della società.
    Tale concezione, più liberale, postula la consapevolezza che la natura umana è ferita dal peccato originale o che, se si preferisce, resta naturalmente affetta da una sua innata debolezza, che non può essere certo emendata o sanata dalle leggi umane. Perlomeno, non in via assoluta.
    Quanto alla seconda prospettiva, sovviene il mito di Antigone, magistralmente rappresentato da Sofocle. Antigone si rifiuta di obbedire alla legge che vietava la sepoltura del fratello, dichiarando di preferire di essere fedele “alle leggi non scritte, ma infallibili degli Dei”; alla coscienza che le comandava di rendere pietà al fratello defunto. Si tratta dell’antico conflitto tra legge scritta e legge morale, tra diritto positivo e diritto naturale (ovviamente, là dove confliggono tra di loro).
  1. È un tema che suppone l’esistenza di un nucleo universale e immutabile di precetti insiti nella natura e comuni a tutti gli uomini (Aristotele diceva che “il diritto naturale è quello che ha ovunque lo stesso vigore”). E Cicerone ammoniva che “da questa legge non possiamo essere sciolti ad opera del Senato o del popolo”. Che accade se la legge scritta contrasta con quella naturale?
    Sant’Agostino affermava, al riguardo, che “non è da considerarsi legge una norma non giusta”, mentre San Tommaso d’Aquino riteneva che se la legge positiva è contraria alla legge naturale “non è più legge, ma corruzione della legge” (sed legis corruptio). Secondo questa impostazione, quindi, nel conflitto tra la legge positiva e quella naturale, prevale quest’ultima (in quanto l’unica “giusta”).
    Gli ordinamenti contemporanei si sono fatti carico, a volte, del problema, utilizzando l’istituto dell’obiezione di coscienza, che dovrebbe essere adottato in tutte le situazioni di conflitto insanabile tra un precetto positivo e un opposto ordine morale. La situazione di emergenza che stiamo affrontando potrebbe proporre un numero crescente di fattispecie, del tutto inedite, di contrasto tra comandi dello Stato e imperativi della coscienza o libertà fondamentali.
    Giova, al riguardo, rammentare che la Costituzione repubblicana è fondata, tra gli altri, sul principio personalistico (art. 2 e 3): quel principio per cui la persona preesiste allo Stato e quest’ultimo deve tutelare e promuovere i diritti dell’uomo, e non limitarli o conculcarli. In questa prospettiva di relazione tra l’autorità dello Stato e i diritti della persona, le misure restrittive decretate dal Governo appaiono potenzialmente lesive della sfera incomprimibile delle libertà naturali della persona (per come costituzionalizzate) e confliggenti con le istanze della coscienza individuale.
  1. Torna il dilemma di Antigone. Il cittadino può essere chiamato, ad esempio, a dover scegliere tra il rispetto del precetto governativo che gli impedisce di uscire di casa e l’imperativo morale di carità che gli “ordina” di visitare un congiunto (un genitore, un figlio, un fratello) in fin di vita, per rendergli, di persona, e non per telefono, il suo saluto estremo. È un’antinomia tra due imperativi (uno di una norma positiva; l’altro della coscienza).
    La frizione tra misure (autoritarie) di emergenza e libertà naturali incide la carne viva della persona e dev’essere governata con una consapevolezza profonda di queste implicazioni. Ci si deve, quindi, astenere dal regolare i comportamenti dei cittadini per prevenire la diffusione dell’epidemia? No. Si deve, allora, disobbedire alle norme vigenti? Assolutamente no.
    Le leggi vanno rispettate, come ammoniva Socrate prima di bere il veleno di una condanna iniqua. Ma, per evitare contrasti eccessivi e insanabili tra le regole restrittive e la sfera incomprimibile della libertà dei cittadini, chi decide le prime deve farsi carico di questa preoccupazione: che le norme non vengano percepite dai cittadini come ingiuste, sproporzionate e lesive, oltre ogni ragionevolezza, della loro aspirazione naturale alla libertà.
  1. Finché la compressione dei diritti viene compresa, e, quindi, accettata, come giustificata da esigenze straordinarie e imperative, l’equilibrio tra autorità e libertà resta preservato. Ove, invece, le prescrizioni limitative dovessero (cominciare a) essere vissute dai cittadini come arbitrarie, non solo non produrrebbero l’effetto voluto, ma susciterebbero quello opposto: oltre alla disobbedienza, la sfiducia verso l’autorità. E lo Stato è destinato a sgretolarsi se i cittadini perdono il rispetto per l’equità (e, quindi, per l’esigibilità) delle sue decisioni. Lo Stato è per l’uomo; non l’uomo per lo Stato.

 

Carlo Deodato
Presidente di Sezione del Consiglio di Stato

* in forma più sintetica, l’intervento è stato pubblicato su il Sole 24 Ore del 16/04/2020

 

 

Share