Il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha celebrato ieri nel Cortile d’Onore della Corte di Cassazione la S. Messa in occasione del 32° anniversario della morte di Rosario Livatino, alla presenza del Primo Presidente Pietro Curzio, della Presidente Vicaria Margherita Cassano e di autorità del mondo giudiziario, accademico e dell’Avvocatura, su iniziativa del nostro Centro studi. A seguire il testo dell’Omelia pronunciata nell’occasione.
* il titolo e la numerazione sono redazionali *
1. In questi giorni il lezionario ci ci propone l’ascolto del libro di Giobbe, l’uomo che si scontra con il male. Chi non si scontra con la pandemia, piccola o grande che sia: quando mi raggiunge capisco che è una pandemia, anche se è il solo incontro, sempre doloroso, con la tempesta che sommerge la mia vita, quel mondo che sono io. Mondo nel mondo e non isola che si chiude in se stesso!
Tutti ci confrontiamo con il male. Spesso, intontiti dal benessere – che è una gran bene ma senza anima diventa ingannevole, deforma il cuore, non fa accorgere di sé e del prossimo – finiamo per non accorgerci del male, pigramente pensiamo di poterlo evitare, ci stupiamo che venga, siamo sicuri, stoltamente, che c’è una soluzione. La pandemia ha in maniera fisica imposto la sua agenda a noi che pensavamo di decidere il nostro presente e il nostro futuro.
Che cosa resta? Giobbe non se la prende con Dio, pone però la domanda di ogni persona, quella che trova la risposta solo in Gesù: “Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore?”. Perché? Perché il male non è l’ultima parola e l’amore non può essere vinto perché è lui la vittoria. Per noi cristiani l’amore ha un nome e un corpo: Gesù, nome e corpo che ci aiuta a dare nome e corpo a tanti fratelli suoi e nostri e anche da nome e corpo alla nostra povera persona. Ecco la vittoria sul male, che avviene non per qualche magia o potere disumano, ma per quello più umano: l’amore. “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto”, cioè la sua morte in croce, il supplizio più infame previsto, condanna comminata da un tribunale, “prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme”.
2. Ecco la scelta, ferma: andare a Gerusalemme, affrontare il male, non ascoltare il “salva te stesso”. Gesù non ha nemici e non colpisce nessuno con la spada. Davvero questo non ha niente da dire nelle nostre scelte concrete? Che cristiani siamo se pensiamo che la spada e le sue espressioni, dalla lingua alle micidiali armi nucleari diventano strumenti ordinari e causa per morire noi stessi di spada, come ammonisce Gesù? Gesù si trova di fronte ai suoi discepoli che reagiscano al rifiuto proponendo un improbabile, ma eloquente fuoco che li divori; certi nostro commenti digitali ci fanno rassomigliare proprio ai discepoli, sembrano solo verbali ma in realtà seminano divisione, intossicano l’aria, introducono l’omologazione alla violenza, quella che poi arma i cuori e fa uccidere o torturare un innocente, come fecero i tedeschi verso gli italiani, gli italiani vero gli etiopioci o verso gli sloveni, i serbi e croati, e questi verso gli italiani.

Quando capiremo? Quanta violenza causata dall’odio, dall’ignoranza, dalla condanna del prossimo ridotto a nemico, oggetto e che come Gesù non ha più aspetto d’uomo! Gesù rimprovera i suoi discepoli e noi. Perché Gesù non condanna? Per lasciare sempre il recupero, la dignità, il futuro. Lui non se la prende con qualcuno, se la prende con il male, che è l’unica guerra che dobbiamo combattere, dentro e fuori di noi. Guerra che si combatte e si vince solo con l’amore e per amore. La guerra cancella la verità e la giustizia e l’esercizio della giustizia impedisce la crescita della violenza e della guerra. Infatti solo per amore Gesù sale a Gerusalemme. Nessuno – nessuno – si salva da solo, ma ognuno solo combattendo il male con intelligenza, anche furbizia, senza rassegnazione o disillusione, curando le conseguenze, capendo e combattendo le cause.
Non c’è resurrezione senza croce, non c’è gioia senza sacrificio, perché l’amore affronta il male, lo chiama per nome, non lo evita, anzi ha paura di non evitarlo proprio perché ama. E se io amo qualcuno lo proteggo da chi può minacciare la sua vita. E la croce non è l’ultima parola. Lo è per il mondo. Lo pensa il mondo. Lo pensavano i mafiosi, di ogni tempo e di ogni mafia, vigliacchi, forti solo dell’arma che impugnano, dell’uccidere un indifeso e a tradimento, vigliacchi perché vuoti, mezzi uomini come lo sono i corrotti. L’ultima parola per chi salva se stesso è se stesso e lì finisce. L’io che salva se stesso per opportunismo o convenienza finisce. L’ultima parola è solo l’affermazione di sé e mai l’amore.
3. Il martire non è un coraggioso, ma un innamorato. Ama il prossimo più di se stesso. Ecco la grandezza del beato Rosario Angelo Livatino. Giovane. Angelo nel nome, nell’aspetto e soprattutto nel cuore. Non accomoda, magari in maniera nascosta. Non cerca al propria convenienza. Non l’ha cercata nella vita, lavorando umilmente: che lavoro è quello superbo, contrario di umile, fatto per se stesso? Livatino non cercava alcuna notorietà o protagonismo. Non evitava i problemi e non li lasciava agli altri. Per questo è stato ucciso. Lo ha imparato da Gesù che sceglie di andare a Gerusalemme, di non starsene prudentemente ad aspettare, fare finta di non vedere. Amava Gesù e chi ama Gesù non può amare la corruzione, il clientelismo, il modo mellifluo e obliquo di mettere davanti i propri interessi. La sua fede nel Signore era un motivo in più per esercitare la difficile giustizia umana, perché la giustizia del cielo in realtà aiuta ad essere imparziali sulla terra, onesti, senza tornaconto personale perché insegna ad amare.
Senza enfasi, senza mai apparire, sempre rispettando gli imputati, Livatino univa giustizia con carità verso il prossimo specialmente se più debole. Avrà pensato ‘chi me lo fa fare’ e come spesso avviene, anche nella pubblica amministrazione, ho già fatto molto, gli altri non lo fanno, non dipende da me! Invece dipende sempre anche da ciascuno di noi.
4. “STD, Sub Tutela Dei”, scriveva in molte pagine del suo diario. Sub tutela Dei significa essere liberi da altre tutele, da quelle insidiose, invisibili delle mafie o degli interessi di parte. La sua parte era la giustizia. Sub tutela Dei, che non vedo, che non si fa vedere eppure che se ascolto e rispetto, come Rosario Livatino, permette di essere giudice giusto, di vedere quello che serve, di esercitare il difficile discernimento, che tanta intelligenza e sentimento deve usare. Diceva Livatino che giustizia e carità combaciano, non soltanto nelle sfere ma anche nell’impulso virtuale e perfino nelle idealità. E aggiungeva: «Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili» Siamo credibili quando viviamo quello che diciamo, quando non ostentiamo la fede ma la viviamo nelle scelte concrete. Credibili per la vita e non per le apparenze. E un uomo credibile aiuta a credere.
Giovanni Paolo II, come sappiamo, dopo l’incontro con i suoi genitori che nella sua famosa visita in Sicilia nel 1993 lanciò il suo grido «Convertitevi, verrà un giorno il giudizio di Dio». Sentiamo tanto il bisogno di una giustizia credibile, di istituzioni forti, perché senza queste la nostra casa comune crolla. Ecco la lezione che oggi ci consegna Livatino, sempre con il garbo umile e semplice di persona che pensava la sua vita come un servizio. Se non serve, a cosa serve? Non arrendersi, non mettersi al centro cioè servire e mettere al centro, gratuitamente, fino alla fine, senza guardare in faccia nessuno la giustizia che è per tutti.
Ecco l’onore che vi spetta, a tutti gli operatori della giustizia. E, per certi versi, siamo tutti chiamati ad aiutarla. Giustizia e carità, che diventa ricupero di chi ha sbagliato per offrire così sicurezza a tutti. Credibile perché amante del vero, senza corruzione, senza altro interesse che la giustizia stessa. La giustizia è l’abito interiore per i magistrati, ma “non un vestito da cambiare o un ruolo da conquistare”, bensì “una missione nobile e delicata”. Quella per cui vale la pena vivere. Non c’è pace senza giustizia e questa aiuta la pace e la conserva. Grazie a Livatino, testimone credibile che ci aiuta a credere nella giustizia e a cercarla con tutto noi stessi. Per amore suo che vuol dire di tutti.



