Il testo riproduce la relazione, con alcune integrazioni, tenuta dall’autore al Meeting di Rimini il 22 agosto 2023 durante il webinar FINALMENTE UNA PRO-COMMUNITY-TAX?, organizzato dalla Fondazione Meeting per l’Amicizia fra i Popoli in collaborazione con il network Ditelo Sui Tetti.
La necessità di spostare il baricentro della fiscalità dall’individuo alla famiglia deriva, sul piano giuridico, da due ragioni.
La prima è di diritto positivo: lo richiede l’articolo 31 della Costituzione.
Esso afferma che la Repubblica deve agevolare “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”.
La norma richiede di valorizzare specificamente due distinti momenti: l’adempimento dei compiti relativi alla famiglia (classico il caso della filiazione), ma non soltanto: anche e appositamente la formazione della famiglia stessa. Su questo secondo punto il nostro ordinamento non prevede granché. Anzi, in più casi la Corte Costituzionale è dovuta intervenire per censurare disposizioni che trattavano fiscalmente la famiglia in modo irrazionalmente deteriore rispetto ai singoli (179/1976, 219/2017, 209/2022).
Come ha affermato la Corte Costituzionale nell’ultima sentenza, redattore Antonini, “il sistema fiscale italiano si dimostra avaro nel sostegno alle famiglie. E ciò nonostante la generosità con cui la Costituzione italiana ne riconosce il valore, come leva in grado di accompagnare lo sviluppo sociale, economico e civile” (sent. n. 209/2022).
Ci si collega così alla seconda ragione, che è di carattere strutturale: la famiglia si dà carico in modo strutturale di una serie di bisogni fondamentali delle persone, specialmente delle persone fragili (bambini, malati, anziani). Questo è un contributo fondamentale per il bene comune. In mancanza dell’intervento della famiglia, di questi bisogni dovrebbe darsi carico la pubblica amministrazione, con relative spese pubbliche. Per questo, si può dire che la famiglia genera un importante risparmio di spesa pubblica, poiché i compiti che svolge danno vita a veri e propri contributi in natura al bene comune. Per questo, quando si viene a chiedere di contribuire alle pubbliche spese, mediante imposte che abbiano carattere personale, come l’IRPEF, non si può non tener conto di quanto il soggetto abbia già contribuito in natura al bene comune. E questo, per le ragioni che ho detto, può avvenire compiutamente soltanto considerando la dimensione familiare, in altre parole assumendo come unità impositiva la famiglia.
Ciò non significa, si badi bene, agevolare indebitamente la famiglia, ma prevedere per essa un regime speciale, che tenga conto delle sue peculiari specificità nella dinamica della finanza pubblica e del bene comune.
Questa concezione dà vita anche a una grande applicazione del principio di sussidiarietà in materia tributaria. La circostanza che il principio di sussidiarietà orizzontale sia stato espressamente inserito in Costituzione soltanto in tempi recenti non toglie che esso permeasse già fin da principio il nostro disegno costituzionale. Come è stato efficacemente osservato [D’Atena; ma v. anche Baldini, De Siervo, Casavola, Pizzolato, Tosato], esso è fin dall’origine un principio costituzionale supremo non scritto, direttamente discendente dall’art. 2 della Costituzione.
Vari possono essere gli strumenti giuridici mediante i quali si può valorizzare la famiglia come soggetto unitario ai fini tributari: splitting familiare, quoziente familiare, fattore famiglia, no tax area familiare, deduzioni e detrazioni.
Nei miei scritti ho sostenuto che il più lineare è lo splitting alla tedesca, combinato con apposite misure a favore della filiazione. Ma tutte queste misure, in linea di principio, si prestano al fine di disegnare un regime fiscale adeguato alla famiglia, sempre che siano declinate in modo appropriato.
Preme al riguardo sgombrare il campo da un equivoco.
Non vi sono preclusioni di costituzionalità ad adottare sistemi come lo splitting o il quoziente familiare. La sentenza di cinquant’anni fa (n. 179/1976) che ha fissato l’attuale sistema di imposizione individuale, lo ha fatto perché in precedenza la famiglia era considerata sì come soggetto unitario, ma al fine di tassarla in modo più oneroso rispetto ai singoli. Vi era quindi una discriminazione a danno della famiglia, che la Corte in quella fase ha risolto spostando l’unità impositiva dell’imposta sul reddito dalla famiglia agli individui. Ma la stessa Corte Costituzionale (Corte Cost., n. 358/1995; n. 76/1983) ha a più riprese ribadito che assumere la famiglia come unità impositiva dell’imposta sul reddito, purché non al fine di tassarla più onerosamente dei singoli, è costituzionalmente più che legittimo e, anzi, per certi aspetti doveroso, onde evitare discriminazioni di trattamento fiscale tra famiglie con diversa composizione del reddito al loro interno. La Corte ha quindi ammonito il legislatore a intervenire per spostare il baricentro della fiscalità dall’individuo alla famiglia, anche se non ha potuto sostituirsi al legislatore per introdurre un nuovo regime per via pretoria, non solo per giusto rispetto del principio di separazione dei poteri, ma anche perché come si è detto molteplici possono essere le misure idonee a conseguire il fine in questione e la scelta di una di queste non può competere al legislatore nella sua responsabilità politica.
Preme altresì compiere una precisazione.
Nessuna misura fiscale potrà mai bastare, da sola, a stimolare in modo efficace la natalità. Una politica fiscale a favore della famiglia è condizione necessaria, ma non sufficiente. Sul piano giuridico, serve un mix di strumenti previdenziali e di servizi di welfare che vanno oltre rispetto al perimetro della fiscalità in senso proprio. Servono poi anche misure fiscali di altro genere, rispetto a quelle attinenti alla struttura dell’IRPEF: servono, in particolare, strumenti per agevolare fiscalmente l’organizzazione familiare. Nei miei scritti, ho sostenuto la necessità di introdurre una detrazione pere spese di baby sitter e una superdeduzione per i datori di lavoro che assumono lavoratrici madri di figli piccoli. Poiché uno dei problemi più seri da risolvere, oltre all’aspetto economico, è la possibilità di conciliare in modo appropriato maternità e lavoro femminili e appare pertanto giusto premiare i datori di lavoro che assumono madri di figli piccoli, accollandosi i maggiori oneri organizzativi che la lavoratrice madre richiede per assolvere alla propria funzione familiare, come richiesto dall’art. 37 Cost. Ma non è tutto. Oltre al piano giuridico, serve poi una solida dimensione antropologica e culturale. Occorre tornare a una visione positiva della famiglia e della filiazione, della gioia e della autentica realizzazione che esse danno. Dibattiti come quello di oggi hanno quindi un valore centrale per la nostra società.
Su questa materia, la legge delega n. 111/2023 detta un importante principio generale e un criterio direttivo specifico per l’IRPEF.
Sul piano generale, essa richiede una “riduzione del carico fiscale, soprattutto al fine di sostenere le famiglie, in particolare quelle in cui sia presente una persona con disabilità” (art. 2, c. 1, lett. a).
Ai fini specifici dell’IRPEF, essa richiede (art. 5, c. 1, lett. a, n. 1.1.) di provvedere al riordino delle deduzioni, delle detrazioni, dei crediti d’imposta e delle aliquote, avendo “particolare riguardo in primis alla composizione del nucleo familiare, in particolare di quelli in cui sia presente una persona con disabilità, e ai costi sostenuti per la crescita dei figli”.
La delega lascia, quindi, aperto lo spazio ai decreti attuativi per la scelta di quali siano gli strumenti giuridici da adottare per sostenere fiscalmente le famiglie. Sia il sistema dello splitting, che il quoziente, che la no tax area valgono a soddisfare i principi generali della delega.
Alcune materie, invece, rimangono per natura fuori dal perimetro dei decreti delegati: penso in particolare al tema dell’ISEE, che pur richiede un’urgente revisione. Saranno necessari interventi successivi per auspicabilmente eliminare la scala d’equivalenza su cui si basa, estremamente penalizzante per le famiglie con figli.
Sulla legge delega, mi preme infine sottolineare anche un altro aspetto. Il nostro sistema tributario non deve affrontare soltanto il problema degli evasori, cioè di coloro i quali non vogliono pagare le giuste imposte. Deve affrontare anche il problema di una massa di contribuenti che vuol pagare le imposte dovute, ma non sa come fare, perché si trova di fronte a un livello di incertezza normativa insuperabile. E’ agevole comprendere come una situazione del genere, oltre a tartassare la vita dei contribuenti, allontana potenziali investitori stranieri. Ecco, uno dei meriti più grandi di questa delega è di affrontare finalmente in modo compiuto questo problema strutturale, mettendo a disposizione dei contribuenti strumenti ulteriori, più agili e più efficaci rispetto a quelli attualmente utilizzabili.
Da ultimo, una considerazione di sistema, per guardare ancora più lontano.
Occorrerà adoperarsi, a livello europeo, per rivedere il sistema di valorizzazione del ruolo della famiglia nell’ambito della finanza pubblica.
Attualmente, il sistema di contabilità pubblica considera come una spesa pubblica (o comunque come una riduzione di entrate) l’effetto dell’introduzione di norme che riducano il carico fiscale sulla famiglia. Ma non considera come una pubblica entrata (o comunque come una riduzione di spesa) il risparmio di spesa pubblica che il ruolo della famiglia consente di conseguire. Accudire un anziano a casa, magari grazie a un caregiver, richiede all’amministrazione pubblica uno sforzo organizzativo e finanziario drasticamente inferiore rispetto al suo ricovero in un istituto. Lo stesso vale, in senso più ampio, per tutte quelle formazioni sociali che contribuiscono al bene comune, secondo il principio di sussidiarietà. Si considera come una spesa fiscale, addirittura secondo una certa giurisprudenza come un possibile aiuto di Stato, l’esenzione IMU per le scuole paritarie, ma non si considera il risparmio di spesa pubblica che la gestione del servizio da parte dei privati garantisce.
Tutto ciò non appare equo.
Occorre passare, dunque, da una contabilità puramente finanziaria, come quella attuale, a una contabilità sociale, in grado di valutare il benessere effettivo di un Paese, considerando anche i contribuiti in natura che le formazioni sociali, a cominciare dalla famiglia, apportano alla comunità.
Sotto altro profilo, il sostegno economico alla natalità non dovrebbe essere considerato alla stregua di semplice spesa corrente, quanto piuttosto di spesa per investimento e si dovrebbe favorire una revisione dei trattati europei che faccia ricadere questa tipologia di investimenti al di fuori dei vincoli del fiscal compact. Sostenere la natalità è un investimento per il futuro, non soltanto in senso ideale, ma anche tecnico-economico. Infatti, come ribadito dalla relazione del Prof. Blangiardo, l’attuale trend demografico renderà insostenibile il welfare state in futuro: se diminuiscono i giovani in età lavorativa, diminuisce il gettito dei tributi e diminuisce la disponibilità finanziaria per il sostegno alla popolazione più bisognosa dell’intervento pubblico, tra cui gli anziani.
Le conclusioni del consiglio europeo degli scorsi 29 e 30 giugno invitano la Commissione a presentare un pacchetto di strumenti per far fronte alle sfide demografiche e in particolare al loro impatto sul vantaggio competitivo dell’Unione. E’ l’occasione giusta per considerare la fiscalità a sostegno della famiglia come un investimento al di fuori dei vincoli del fiscal compact.
Si tratta, come dicevo, di prospettive che vanno indubbiamente oltre rispetto al perimetro della legge delega. Ma si tratta, a mio avviso, di ulteriori passi successivi che andranno sostenuti, a livello sovranazionale ed europeo ancor prima che interno, per rendere il sistema fiscale sempre più conforme al principio di sussidiarietà e sempre più a supporto della famiglia, della natalità e del bene della persona.
Francesco Farri