Dell’abbandono delle politiche di allentamento del rigore economico, adottate in Italia da oltre due anni per ragioni di contrasto pandemico, potrebbe essere chiesto conto al prossimo Governo, col pieno recupero del sistema di condizionalità economica, cui è sempre stato ispirato l’aiuto finanziario delle istituzioni monetarie della UE. Ma ciò costituirebbe l’ennesimo vulnus per la democrazia e il rispetto della volontà degli elettori.
1. Il board della BCE–Banca Centrale Europea del 21 luglio scorso ha aumentato di 50 punti base il costo del denaro nell’Eurozona, portando il tasso di interesse nuovamente al segno più (0,75%), in funzione di contrasto all’aumento dell’inflazione; e ha, soprattutto, formalizzato gli strumenti di stabilizzazione monetaria per evitare le speculazioni nei confronti dei Paesi con maggiore instabilità finanziaria, quindi più esposti a patire improvvisi incrementi dello spread, costituito, come è noto, dalla differenza fra il costo delle proprie obbligazioni sovrane e quello, di riferimento base, dei deutsche bund, le emissioni di debito dello Stato tedesco.
In particolare, la BCE ha approvato il TPI–Transmission Protection Instrument, con il quale si prevede la possibilità di acquisti di dimensioni illimitate da parte dell’Istituto di Francoforte di obbligazioni dei Paesi dell’Eurozona che siano in difficoltà finanziarie per l’aumento dello spread, in funzione appunto di stabilizzazione dei mercati finanziari. Tale rinnovato strumento finanziario sostituisce il PEPP–Pandemic European Purchase Program, con il quale, fin dalle prime settimane successive alla diffusione del Covid19, la BCE aveva fornito il proprio apporto finanziario ai Paesi europei attraverso l’acquisto delle obbligazioni di Stato: ciò alla scopo di consentire loro di accedere al debito pubblico necessario a finanziare i sostegni economici per le popolazioni colpite dalle restrizioni alle ordinarie attività economiche per contrasto alla diffusione della pandemia.
2. Due fattori hanno costretto madame Lagarde a dismettere il bazooka dell’aiuto finanziario diretto della BCE: a) l’impossibilità di continuare a immettere liquidità nel sistema finanziario, causa prima della spirale inflazionistica che oggi si vorrebbe invece attribuire agli effetti della aggressione russa all’Ucraina, e ai conseguenti maggiori costi energetici per l’aumento di valore delle materie prime (specie, gas e petrolio), mentre l’incremento del costo della vita si è manifestato già dall’autunno 2021; b) la spinta dei Paesi rigoristi, che hanno sempre denunciato nel PEPP un indebito favor nei confronti dei Paesi a più alto debito pubblico e con scarsa propensione a ridurlo piuttosto che a incrementarlo con politiche di bilancio ispirate a criteri di rigore.
Con la fondata giustificazione di contrastare gli squilibri interni al sistema finanziario dell’euro, il direttivo della Banca Centrale ha col TPI comunque adottato formale impegno a intervenire in aiuto ai Paesi in difficoltà; l’unica ma significativa differenza rispetto al PEPP è la condizione che questi rispettino gli impegni in termini di politiche di bilancio ai fini della sostenibilità del debito pubblico e di effettiva attuazione dei programmi del PNRR–Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Tale condizionalità economica deve far riflettere, specie nella prospettiva, da molti paventata all’esito delle dimissioni da Presidente del Consiglio di Mario Draghi, di ritenerlo – a torto o a ragione – l’unico garante nazionale degli impegni italiani nei confronti di Bruxelles e, più in generale, dei mercati internazionali, sulle difficoltà che il nuovo governo, all’esito delle elezioni del prossimo 25 settembre, potrebbe avere in termini di affidabilità, appunto rispetto ai partner europei, e in particolare alle istituzioni politiche e finanziarie della UE.
3. Come con grande chiarezza Veronica De Romanis[1] ha ricordato su ‘La Stampa’ del 22 luglio – “La mossa Bce nel solco di SuperMario: senza rigore il “bazooka” non scatta. Il “Whatever it takes” possibile solo grazie al rispetto dei patti fiscali. Ma la politica non lo ha capito” -, è sin dal 2012, appunto dall’impegno allora assunto da Mario Draghi, all’epoca Presidente della BCE, di sostegno all’euro, che l’appoggio delle istituzioni monetarie europee viene espressamente condizionato al rispetto, da parte degli Stati membri che ne siano beneficiari, di politiche di bilancio rigoriste, e soprattutto al controllo che la stessa BCE, unitamente al FMI–Fondo Monetario Internazionale ed alla Commissione europea, la c.d. ‘trojka’, assume delle politiche economiche del singolo Paese, allo scopo di verificarne il rispetto.
Appena dopo l’impegno draghiano del 2012 e in coerenza con esso, la UE aveva adottato lo strumento dell’OMT–Outright Monetary Transaction, con il quale la BCE può comprare in modo illimitato il debito pubblico dello Stato membro in difficoltà finanziarie, ma a condizione che questo accetti di sottoscrivere impegni con il MES–Meccanismo Europeo di Stabilità, che ne condizionano fortemente l’autonomia in punto di politiche di bilancio, di fatto espropriandolo della sua titolarità di politica economica.
In ragione dell’esempio – negativo – della Grecia, cui era già stato imposto un programma draconiano di riforme strutturali che hanno “affamato” il popolo ellenico, lo strumento dell’OMT non ha praticamente mai trovato attuazione, anche in ragione della mancata approvazione nazionale del MES. E tuttavia lo stesso banchiere centrale, in persona di Draghi, aveva ritenuta insufficiente l’approvazione nel novembre 2011 del Six Pack, cioè del pacchetto di sei Regolamenti europei con cui era stato disposto il rafforzamento delle regole sul disavanzo strutturale, cioè depurato dall’effetto del ciclo economico, e sul debito pubblico, con la previsione del taglio obbligatorio di un ventesimo; per questo aveva promosso, contestualmente al “whatever it takes”, il Fiscal Compact, approvato il 1 marzo 2012 dal Consiglio d’Europa e poi adottato dai singoli Stati membri – a eccezione del Regno Unito, e inizialmente della Rep. Ceca, che l’approverà solo nel 2014 -, con cui viene introdotto il principio di pareggio di bilancio da assumere con norma di rango costituzionale negli ordinamenti domestici.
4. La vicenda della caduta del governo Draghi e della fine della legislatura andrebbe, allora, forse letta sotto diversa luce, a fronte dell’abbandono delle politiche, adottate per le ragioni di contrasto pandemico, di allentamento del rigore economico e del conseguente pieno recupero del sistema di condizionalità economica, cui è sempre stato ispirato l’aiuto finanziario delle istituzioni monetarie della UE, ribadito anche in occasione dell’ultimo discorso al Senato dallo stesso Mario Draghi quale Presidente del Consiglio.
Chi immagina di assumere, con il conforto del consenso popolare che è mancato ai governi degli ultimi dieci anni – tutti guidati da premier privi dell’investitura del voto – la guida del governo nazionale a partire dal prossimo autunno, senza fruire quindi dell’ombrello protettivo costituito dalla credibilità internazionale di Mario Draghi, dovrà fare attenzione al rapporto con le istituzioni europee e con i c.d. ‘mercati’ internazionali, alla luce della rinnovata pretesa che questi sicuramente avranno di rispetto di regole e condizioni inevitabilmente lesive, almeno in tesi, delle prerogative nazionali sulle politiche economiche e finanziarie del Paese: un ‘acconto’ sono i moniti da ultimo lanciati dalla agenzia di rating ‘Moody’s’ sui rischi di default dell’Italia.
Il rischio correlato a una falsa partenza è che essa degeneri nell’ennesimo commissariamento della politica a favore dell’ennesimo governo tecnico: la vittima sarebbe non tanto e non solo il governo appena eletto, ma la stessa democrazia, intesa come rappresentatività popolare di chi è chiamato a decidere le sorti della Nazione.
Renato Veneruso
[1] De Romanis insegna Politica Economica europea alla Stanford University di Firenze e alla LUISS di Roma, ed è autrice di testi fondamentali sulla politica economica della Germania