A parte alcune esegesi riduttive, la nota battuta con la quale Cremete risponde a Menedemo agli inizi del primo atto del Heautontimorumenos di Terenzio: “Homo sum: humani nihil a me alienum puto “(v. 77), viene concordemente considerata il primo esplicito manifesto di un ideale di humanitas in ambiente romano. Un ideale che, partendo da radici elleniche (la philanthropìa), in particolare quella insegnata da Epicuro), attraverso Roma transiterà nel mondo cristiano e poi nel corso dei secoli in larga parte delle civiltà europee ed extraeuropee.
1. L’orizzonte culturale contemporaneo muove dalla ferma convinzione che i diritti umani siano il prodotto della cultura e della filosofia della modernità: lo dimostrerebbe l’assenza di tale locuzione nel gergo antico. Pur se è inconfutabile che l’espressione “diritti umani” o “dell’uomo” non compaia nel vocabolario premoderno, ciò non vuol dire che l’idea di diritti umani sia assente in epoca classica e antica: lo attesta il fatto che i diritti umani, tanto come principio quanto nei contenuti, siano ravvisabili alla luce del linguaggio evocativo che essi possiedono, e che inerisce l’uomo e quella grammatica scritta nel suo cuore
Nell’Heautontimorùmenos – la commedia di Terenzio (I secolo a.C.) dal titolo greco che significa “punitore di se stesso” – Menedmo si è autocondannato a lavorare duramente la terra. L’opprime il rimorso di aver ostacolato il figlio Clìnia nel suo amore per una fanciulla, spingendolo così ad arruolarsi in terra straniera. Il vicino di casa Cremète cerca di consolarlo e motiva la propria disponibilità ad ascoltare le pene dell’uomo, che quasi non conosce, per solidarietà semplicemente umana: homo sum: humani nihil a me alienum puto[1].
2. Terenzio, Heautontimorùmenos 53-60; 75-79
Ch. Quamquam haec inter nos nuper notitia admodumst
(inde adeo quo agrum in proxumo hic mercatuses)
nec rei fere sane amplius quicquam fuit,
tamen vel virtus tua me vel vicinitas,
quod ego in propinqua parte amicitiae puto,
facit ut te audacter moneam et familiariter
quod mihi videre praeter aetatem tuam
facere et praeter quam res te adhortatur tua
[…]
Me. Chreme, tantumne ab re tuast oti tibi
aliena ut cures ea quae nil ad te attinent?
Ch. Homo sum: humani nil a me alienum puto.
Vel me monere hoc vel percontari puta:
rectumst, ego ut faciam; non est, te ut deterream.[2]
3. La persona nell’ambito del diritto romano non coincideva all’inizio con esigenze di carattere etico né veniva concepita nella sua natura ontologica: il concetto di essa era che tale in ragione della natura delle cose, dalla quale si rinveniva il criterio di misura dell’attribuzione dei beni[3]. Non va dimenticato lo stretto legame tra l’ordine morale e l’ordine giuridico nella concezione classica latina, con il primo, in un certo senso, prevalente sul secondo. Si comprende, a tal proposito, l’attestazione nella letteratura didattica riportata nelle Institutiones di Gaio della prima parte delle tre partizioni in cui si suddivide il diritto privato, cioè “personae res actiones”[4].
La persona, giuridicamente parlando, altro non era che la res del diritto, non in senso stretto il subjectum[5]. Infatti, il concetto di persona nell’ambito giuridico si muoveva lungo la direttrice dello status entro il quale le personae erano qualificate, vale a dire in base ai tre valori fondamentali della libertas, della civitas e della familia. Pertanto la struttura giuridica della persona, mentre da un lato permetteva l’astrattezza “filosofica” del concetto, dall’altro faceva leva su quella più strettamente giuridica qualificata dallo status sociale, dalla quale scaturivano diritti e doveri.
Ciò non impedì agli interpreti del diritto romano di giungere alla comprensione e alla valenza morale degli uomini cui il diritto doveva riferirsi: in tal senso, dunque, può essere compreso l’adagio di Ermogeniano, secondo cui “hominum causa est omne ius constitutuum” (Digesto 1, 5, 2)[6], o quanto attesta ancora prima Gaio, secondo cui “omne ius quo utimur vel ad personas pertinet” (Digesto 1, 5, 1)[7].
4. Data la struttura politica della Roma del II a.C., Terenzio non mette in discussione né l’organizzazione sociale, e neppure il mos maiorum. Sarebbe passato per un sovversivo, e comunque questo non era né nelle sue intenzioni, né nella sua impostazione ideologica. Egli ritiene di poter avvalorare il principio che, quantunque forti siano le differenze sociali ed economiche, anche nella realtà quotidiana, come sulla scena, è realizzabile una communitas senza odi e senza violenze.
Né poteva permettersi di essere un sovversivo, essendo strettamente legato a una certa parte dell’aristocrazia romana, quella che faceva capo agli Scipioni, e che si caratterizzava per una politica di tolleranza, di accoglienza e di apertura culturale soprattutto nei confronti dei Greci, pur nel rispetto dei valori fondanti della res publica; al contrario del “partito” che aveva come proprio leader Catone il Vecchio e rappresentava la ricchezza agraria e mercantile, una fazione quindi impegnata a salvaguardare il primato italico, i suoi antichi principi etici e civili, e a difenderli dal contagio, considerato pernicioso, dei graeculi.
Il messaggio terenziano nasceva dal clima culturale e innovativo del circolo degli Scipioni, e in qualche modo dallo stesso veniva politicamente garantito, al punto che per questo motivo e altri meno rilevanti – la giovane età dell’autore, l’alta qualità letteraria già della prima fabula, e le sue origini né romane né greche – nel corso dei secoli si è dibattuto a lungo su chi fosse il vero autore delle sue commedie. Ma, lasciando da parte la vexata quaestio sulla paternità delle commedie attribuite a Terenzio, è utile ripercorrere l’itinerario della ricezione del messaggio terenziano nei secoli successivi.
5. In moltissimi autori romani ricorre il termine humanitas accanto all’orgoglio patrio della sua ideazione, soprattutto in Plinio il Vecchio, ma non sempre il suo senso corrisponde a quello inteso da Terenzio e dai maestri greci cui egli si ispirò (Senofonte, Epicuro tramite Menandro, e il coetaneo Panezio). Nell’epoca romana classica si deve a Cicerone lo sviluppo del concetto di humanitas. Le sue riflessioni ne rappresenteranno una delle più belle sintesi, tanto da attirarsi fama e onore in secoli successivi negli ambienti cristiani: il vescovo di Milano sant’Ambrogio si ispirò al grande oratore nella stesura del De Legibus. Per l’Arpinate l’humanitas è un principio morale oggettivo da cui scaturisce il dovere di ogni uomo verso il prossimo, mosso oltre l’utile personale (De Officiis 3, 89).
Questa concezione di fondo non ebbe solo il merito di enfatizzare lo stretto legame tra l’atteggiamento dell’humanitas e quello di pietas, ma soprattutto quello di individuare nell’humanitas la “vimque omnem humanitatis” (De Oratore 1,53), ovvero “tutta l’essenza della natura umana”: quindi l’humanitas, nella concezione ciceroniana, oltre a essere pragmatica, portava con sé, seppur velatamente, anche una visione, per così dire, ontologica. Nonostante le molte ombre che il pensiero della società antica portava con sé, emerge, alla luce di questi pochi ma significativi esempi, la convinzione che il principio della humanitas non fu una categoria avulsa al pensiero dell’antichità classica. Tale principio venne sempre più prendendo corpo come valore omnicomprensivo e universale, capace di riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo, al punto da indurre a migliorare la condizione delle categorie sociali più deboli, nonostante la peculiarità della visione del mondo che la stessa società pre-cristiana portava con sé.
Il messaggio umanistico partito da Terenzio attraversò i secoli successivi, arricchendosi di nuovi interessanti apporti in tutti i campi del sapere. Restò un punto fermo della civilizzazione umana, pur spesso incrociandosi con eventi e dottrine che tentarono di capovolgerne il valore e la pratica.
Daniele Onori
[1] Uomo sono: nulla di ciò che è umano mi è estraneo, io dico.
[2] Cr. È vero che noi ci conosciamo da poco, cioè da quando hai comprato un fondo qui presso, e che tra noi non c’è mai stato dell’altro, però tu sei un galantuomo e noi siamo vicini, e per me la vicinanza è prossima all’amicizia. Tutto questo m’induce a darti francamente e familiarmente dei consigli. Perché, vedi, mi pare proprio che tu lavori troppo per la tua età per quel che richiede il tuo stato […].
Me. O Cremete, i tuoi affari ti lasciano bel tempo, eh? e così puoi impicciarti negli affari altrui e in ciò che non ti riguarda.
Cr. Uomo sono. Nulla di ciò che è umano mi è estraneo, io dico. Fa’ conto che io ti dia un consiglio ovvero che ti ponga una domanda. Sei nel giusto? Seguirò il tuo esempio. Non lo sei? Lascia che ti metta in guardia.
[3] Cfr. Francesco VIOLA, “Lo statuto giuridico della persona in prospettiva storica”, in Giuseppe PANSINI (a cura di), Studi e memoria di I. Mancini, Napoli, Esi, 1991, p. 621-641 (ivi, p. 626)
[4] Cfr. Francesco Paolo CASAVOLA, I diritti umani, Padova, Cedam, 1997, p. 3
[5] Il diritto romano non riconosceva ad alcuno la prerogativa di soggetto di diritto, se non al pater familias, essendo la società romana un ordinamento basato sulle famiglie e non sui singoli individui.
[6] “Tutto il diritto è in funzione degli uomini”.
[7] “Tutto il diritto di cui facciamo uso riguarda le persone”