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The Addiction” narra la storia di Kathleen Conklin (Lili Taylor), una studentessa di filosofia in procinto di laurearsi con una tesi in filosofia morale. La storia inizia proprio durante la proiezione di un documentario su un massacro compiuto dall’esercito americano in Vietnam. Il documentario parla dello sdegno dell’opinione pubblica e del processo che condannò il comandante a capo dell’operazione militare. Kathleen protesta contro l’esito della vicenda: «Era tutto il paese a essere colpevole. Come si fa a condannare un solo individuo?».     Una sera, mentre torna a casa, viene aggredita da una vampira di nome Casanova (Annabella Sciorra). In seguito al morso, anche Kathleen inizia a trasformarsi in vampiro. Questo processo è rappresentato in modo originale attraverso l’analogia tra lo sviluppo del vampirismo e quello di una dipendenza. La studentessa si isola sempre di più, riuscendo a trovare sollievo al proprio tormento solo consumando un’altra dose della sostanza da cui dipende – non tanto il sangue delle sue vittime, ma il dolore che provoca loro. In poche parole, il vampirismo viene rappresentato come una dipendenza dal male. Il vampiro non è più inteso come una creatura che vive isolata rispetto alla comunità umana: si trova nelle strade della grande metropoli, dove si nasconde in mezzo alle persone comuni. Non è nemmeno un’entità estranea alla natura umana, ma rappresenta la natura più profonda degli umani che aspetta solo di essere risvegliata. Non un male soprannaturale, ma un male interiore e radicale: la nostra vera natura viene espressa solo nel momento in cui ci soddisfiamo del dolore che provochiamo agli altri.

Una voce fuori campo commenta lo scorrere di diapositive relative al massacro di My Lay. L’aula in cui si proiettano le istantanee appartiene alla New York University. Kathleen Conklin (Lily Taylor), studentessa di filosofia, scambia il proprio parere con l’amica Jean (Edie Falco), sulla lezione appena seguita e sui rapporti tra responsabilità individuale e colpa collettiva. Mentre si dirige verso casa, dopo aver salutato l’amica, Kathleen viene “agganciata” da Casanova (Annabella Sciorra), una donna in abito da sera che la trascina a forza giù per una scala buia e qui, dopo averle intimato di mandarla via, aggredisce la studentessa attonita mordendola sul collo. Kathleen terrorizzata si reca in ospedale per farsi medicare, poi si ritira nel suo appartamento e si abbandona agonizzante sul letto.

Il giorno dopo, durante una lezione, viene colta da malore, nuovamente ricoverata in ospedale le viene diagnosticata una forma di anemia e prescritto un ricovero di qualche giorno per accertamenti. Durante la notte Kathleen fugge dall’ospedale e si abbandona lungo le strade alla ricerca di sangue. La sua prima vittima è un derelitto che giace catatonico sul marciapiede: Kathleen gli preleva con una siringa del sangue dal braccio, per poi, una volta tornata a casa iniettarselo nel suo. Tornata all’università, con atteggiamento seducente invita il proprio relatore (Paul Calderon) per una serata fuori in cui parlare della tesi imminente.

Dopo una serata silenziosa trascorsa in un locale vecchio stile, Kathleen invita l’uomo a casa sua, lo seduce, lo bacia, e infine gli offre una dose di eroina prima di succhiargli il sangue. Nei giorni successivi, Kathleen alterna lezioni all’università, in cui, agli occhi dell’amica Jean, appare sempre più smagrita e cagionevole di salute, con una serie di aggressioni notturne in cui fa vittima del suo contagio una studentessa di antropologia (Kathryn Erbe) incontrata in biblioteca, un ragazzo appartenente ad una gang (Fredro Starr) e infine la stessa amica Jean.

Una sera Kathleen incontra per la strada un uomo che recita Proust in soliloquio: una figura affascinante e inquietante, di nome Peina (Christopher Walken), un vampiro, che nel corso del tempo ha imparato a controllare il suo istinto e che, dopo aver invitato Kathleen nel suo loft, la istruisce con nozioni teoriche e consigli pratici sulla deontologia vampiresca.

Subito dopo la morde sul collo e succhia una grossa quantità del suo sangue. Kathleen, traumatizzata dall’esperienza appena vissuta vive un momento di dolore e desolazione unito ad una forte crisi d’astinenza.

Progressivamente la sua visione esistenziale diventa sempre più torva ed inquieta, così che decide di annegare il suo malessere nel completamento della tesi. Una volta discussa la tesi, invita il Rettore dell’università (Jay Julien), professori e amici alla festa di laurea per festeggiare il titolo appena conseguito. La serata, ben presto si trasforma in un’orgia vampiresca, i cui eccessi, spingono Kathleen sulla soglia di un’overdose di liquido ematico. Ricoverata in ospedale, la donna, distrutta dal dolore e dalla disperazione cerca di suicidarsi attraverso la luce, ma il suo tentativo interrotto dalla comparsa di Casanova, che la richiama suo malgrado, al rispetto delle regole. Kathleen chiede l’ausilio di un sacerdote: vuole confessarsi, fare la Comunione e invocare la morte. Padre Robert Castle (se stesso) la assolve dai suoi peccati e le somministra la particola. L’ultima scena mostra la donna che sotto un cielo pallido e lattiginoso depone un tulipano sulla propria tomba.

The Addiction, riflette sul Male attraverso la filosofia, questa nel film ha una doppia valenza: è “il balsamo di ogni avversità” come dice Kathleen, ma è anche lo strumento per negare e affermare, allo stesso tempo, il libero arbitrio.

Come ricorda Casanova, nel finale del film citando Spraul[1]: “Non siamo peccatori perché pecchiamo, ma pecchiamo perché siamo peccatori. In termini più accessibili, non siamo malvagi per via del male che facciamo, ma facciamo del male perché siamo malvagi”. Quella dell’uomo, quindi, è una dipendenza conclamata dal Male e per metonimia dal peccato; la sua droga è il Male e la dipendenza da esso il suo oblio.

È un bisogno dell’uomo, costante e opprimente, quello di sprofondare nel peccato, che diventa qui natura umana incarnata dal vampiro che prima del sangue succhia la linfa vitale. Il sentimento di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione; l’oggetto di questo sentimento di dipendenza, ciò da cui l’uomo dipende, e si sente dipendente, non è però altro, originariamente che la natura.[2]

Secondo Feuerbach e il modernismo quindi, la dipendenza dell’uomo è legata alla natura. L’uomo vive per mezzo della natura, ma non la rispetta più e quindi distruggendola distrugge se stesso: questo si evince anche dal film di Ferrara.

In The Addiction gli spazi sono cementificati, la natura è ridotta a poche fronde ondeggianti inquadrate dal basso o che stagliano la loro ombra su muri fatiscenti.

L’uomo, quindi, è posseduto dal demone della dipendenza. Il contagio è nell’aria ed è necessario per soddisfare il proprio bisogno e per “ottundere la percezione”. Quello di Abel Ferrara e dello sceneggiatore St. John è un discorso “assoluto” che non ammette replica: i desideri sono le catene che tengono l’uomo inchiodato alla materialità. La necessità di soddisfare la propria “fame” si manifesta sempre e comunque.

Il pasto totemico e orgiastico messo in scena da una Kathleen sull’orlo del suicidio: il dolore legato all’obbligo di succhiare il sangue per sopravvivere (nella morte) è insostenibile, per cui tanto vale abbandonarsi ad un’illusoria ordalia sanguinaria che ha come fine l’overdose “liberatoria”, apparentemente senza rimorso e ostentando, in maniera plateale, la propria laidezza, e quindi la propria natura vampirica (e mortifera).

I vampiri sono impossibilitati a guardarsi allo specchio non perché non vogliono vedere il Male che è in loro, ma perché non esistono se non attraverso l’immaginazione e la fantasia degli altri. Attraverso gli occhi gli uomini percepiscono le immagini e allenano la memoria: memoria del Male, quella dell’Olocausto, della guerra in Serbia, del massacro di My Lay. Un Male gratuito e insensato, giustificato dagli uomini con lo stato di guerra. Un Male per le cui responsabilità pagano i singoli e mai la collettività.

Da qui nasce il dilemma morale che suscita in Kathleen disprezzo per il genere umano: “Come può pagare un solo uomo per i crimini di guerra?”. Non è casuale che il film si apra con il commento di un vero sacerdote alle immagini del massacro di My Lay, perché è il momento in cui la generazione di Ferrara e tutte quelle successive hanno perso la loro innocenza e in cui il sogno di “Peace and Love” si è definitivamente infranto.

All’alba del 16 marzo 1968 gli uomini, affamati e frustrati dell’XIa brigata entrano nel villaggio di My Lay dove violentano, uccidono e massacrano donne e bambini. Il comandante William Calley ordina, dopo il massacro di più di cinquecento persone, di fare a pezzi i loro cadaveri e di bruciare l’intero villaggio.

Le immagini di My Lay fanno il giro del mondo e la guerra del Vietnam svela il suo vero volto crudele e allucinato: che poi è il volto di tutte le guerre, che sono l’espressione massima dell’animalità dell’uomo, dove gli istinti primari si fondono con l’universalità del Male.

Ecco perché il dilemma morale che si pone Kathleen all’inizio di The Addiction su responsabilità individuale e collettiva risulta fallimentare: perché nello “stato di guerra” le cose non possono essere lette con i canoni ordinari e il punto di vista è ontologicamente alterato come dimostrano le testimonianze fredde e impersonali dei veterani.

La guerra è solo uno degli “strumenti” per propagare il Male. Il contagio avviene dovunque, nelle strade malfamate delle notti di New York, come nelle aule dell’università, nel chiuso di una stanza come in mezzo alla folla che si reca al lavoro. Le immagini rallentate che mostrano la quotidianità di New York danno l’idea di un mondo “controllato” dal Male.

Il controllo, esercitato attraverso il potere spinge l’uomo nel baratro della dipendenza. Progresso e automatismo sono un cancro le cui metastasi hanno intaccato tutto il sistema. Non si può fuggire, non ci si può fermare neanche per attraversare la strada, perché il Male è in agguato e pronto a espandere la sua epidemia (così avviene l’aggressione di Kathleen).

Ma lo strumento attraverso cui si gioca la battaglia tra il Bene e il Male è quanto di più umano e terreno possediamo: il corpo. Questo è contemporaneamente oggetto di desiderio e viatico salvifico. Sul corpo si esercitano i morsi del contagio del Male, ma se il nutrimento non è il sangue ma il Corpo di Cristo, ecco che il corpo sopravvive e il Male (il vampiro che è nell’uomo) muore.

È per questo che il vampiro inquieta e affascina St. John: perché una specie di Cristo rovesciato che ruba il sangue anziché donarlo, perché usa gli stessi strumenti della redenzione ma li perverte.

Ecco quindi che il corpo diventa strumento per uscire dalle tenebre e (ri)trovare la luce. Quella luce evangelica che l’uomo sembra aver dimenticato rinchiuso nel suo dolore, e nelle crisi di astinenza che lo inducono a peccare e ad auto-divorarsi. È un rito antropofago che si ripete ciclicamente e senza soluzione di continuità. Il circolo peccato-bisogno-peccato è un cappio che stringe la gola dell’uomo, perché rappresenta la rincorsa eterna alla felicità.

Trovare la luce e quindi redimersi è l’unico modo per poter andare a deporre una rosa sulla propria tomba: “Se sia un peccatore non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”. [3]

Fino a quando non trova ostacoli sulla sua strada Kathleen continua a propagare il Male: si ferma solo quando tra lei e il contagio si frappone una forza superiore, quella della Fede incarnata dal missionario.

A quel punto, davanti al “no” un po’ imbarazzato ma deciso del giovane prete che le porge un santino con la scritta Pray the way of the Cross, Kathleen viene destabilizzata e le sue certezze cadono in frantumi.

La sua reazione è violentissima e disperata e trova la sua nemesi nell’orgia lorda e disgustosa della festa di laurea.

Il fatto che si imbatta nel missionario e non sia in grado di adescarlo costituisce il punto di svolta – non tanto che entri in contatto con qualcuno e sia convertita. Il fatto stesso è che entri in contatto con qualcuno, una vittima potenziale, che la sovrasta, dimostrandole che esiste un qualche tipo di forza che può resistere al Male.

La purezza e la semplicità del rifiuto del giovane prete incrinano l’impianto distruttivo di cui lei è strumento e aprono il varco ad un’altra possibilità in alternativa alla dipendenza: quella di farsi dono al servizio del Bene.

È come se nascesse in lei la necessità di disintossicarsi, che possiede la stessa forza induttiva, ma inversamente proporzionale, di quella della dipendenza. La redenzione porta inciso nella carne il marchio della sofferenza, ma attraverso la comunione in Cristo; annulla il dolore e dona la pace. Una pace luminosa e sicura, che dà la forza per recarsi sulla propria tomba a depositare un fiore. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie.

Chiunque infatti fa il Male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio. Una sicurezza che dà la consapevolezza di sapere che oltre al Male c’è un Bene più forte e più grande in grado di vincere il peccato e di scacciare le tenebre.

Daniele Onori


[1] RC Sproul(1939-2017) fu il fondatore e presidente della Ligonier Ministries (dal 1971), un ministero internazionale cristiano in Orlando (Florida, Stati Uniti). Fu co-pastore della Saint Andrew’s Chapel a Sanford, cancelliere del Reformation Bible College ed editore esecutivo della rivista mensile Tabletalk. I suoi insegnamenti si possono ascoltare sul programma Radio Renewing Your Mind with Dr. R.C. Sproul. Sproul produsse più di 300 serie di lezioni e scrisse innumerevoli libri diffusi in tutto il mondo.

[2] Ludwig Feuerbach, Essenza della religione, Laterza, Roma, 2003, p.39

[3] Gv. 9-25

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