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La vita dell’autore ed una sintesi della sua opera principale, un trattato singolare, che unisce ad aspetti tipici del romanzo-saggio, tratti propri del saggio dialogico. Il dialogo è fra l’io narrante (l’autore) e Raphael Itlodeo, un navigante ed avventuriero che racconta di come, viaggiando per anni nel Nuovo Mondo, sia al fine giunto ad Utopia, isola nella quale avrebbe vissuto cinque anni e dove le istituzioni politiche e civili sarebbero superiori a quelle europee per le ragioni esposte sistematicamente nel corpo dell’opera.

1. Thomas More nacque il 7 febbraio 1478 a Londra. Fu il padre che, dopo l’avvio alla carriera scolastica, lo mise al seguito del cardinale e arcivescovo di Canterbury, John Morton, Cancelliere del Regno sotto Enrico VII Tudor, figura che il Nostro avrebbe ammirato profondamente per le sue doti umane ed intellettuali. Anche se non era mai stato attratto dagli studi giuridici, influenzato dal padre e motivato dall’unico desiderio di compiacerlo, studierà brillantemente legge, senza però mai smettere di leggere opere di pensiero, attratto dalla filosofia sia per la riviviscenza che questa disciplina ebbe nell’epoca in cui visse (il Rinascimento e l’Umanesimo), sia per l’amicizia che lo legava ad Erasmo, iniziata nel 1499 e che sarebbe rimasta forte per tutta la sua vita. Nel 1504 fu eletto membro del Parlamento. In questa sede, si oppose fieramente all’approvazione di un piano di imposte messo a punto dal re Enrico VII per finanziare i sui ambiziosi progetti personali e familiari. Alla fine del 1504 sposò Jane Colt, la maggiore delle tre figlie del suo amico John Colt, ma la donna morì nel 1511 all’età di soli ventitré anni, e poco dopo – appena un mese dopo – decise di sposare la vedova Alice Middleton, di sei anni più anziana e da lui descritta come una persona rude, ignorante, sprovveduta e poco attraente. Nel 1509, dopo la morte di Enrico VII, salì al trono Enrico VIII, suo secondogenito. Nel 1523, Enrico VIII e il cardinale Tommaso Wolsey, all’epoca Lord Cancelliere, si accordarono per nominare Tommaso Moro come speaker, cioè presidente della Camera dei Comuni. Dopo i negoziati di Cambrai, il 19 ottobre 1529, Wolsey fu rimosso dal suo incarico di cancelliere e il re nominò Tommaso Moro al suo posto. È presumibile che il Moro fosse già preoccupato per la decisione del re di divorziare dalla moglie Caterina d’Aragona. Tuttavia, potrebbe aver pensato, ingenuamente, di riuscire a far rinsavire Enrico VIII, quanto al suo desiderio di divorzio, e ad ammansire le sue innate tendenze bellicose ed assolutistiche. Purtroppo, il divorzio di Caterina si trasformerà in una serie di venti inarrestabile che porterà al successivo matrimonio di Enrico VIII con Anna Bolena alla fine di gennaio del 1533, al quale Moro non partecipò. Né volle mai partecipare alla sua incoronazione, avvenuta il 1° giugno 1533. Ma già nel 1531 Moro si era dimesso dalla carica di Cancelliere d’Inghilterra, per motivi di coscienza, dopo cioè che Enrico VIII aveva formalmente rotto i rapporti con la Chiesa di Roma attraverso con la proclamazione dell’Atto di Supremazia (a causa del quale sarebbe stato ufficialmente scomunicato nel 1533). Il 12 aprile 1534 fu convocato a comparire per il giorno seguente a Lambeth, davanti ai commissari reali, per prestare giuramento di fedeltà all’Atto di Successione, con il quale erano stati proclamati eredi legittimi i soli figli avuti con Anna Bolena, tra cui Edoardo, futuro re. Come conseguenza del suo rifiuto, venne imprigionato nella Torre di Londra il 17 aprile 1534. Dalla prigione, confessò alla figlia Margaret: “Per quanto mi riguarda, in buona fede, la mia coscienza mi ha mosso a tal punto che pur non rifiutando di prestare giuramento di successione, non potevo accettare il Giuramento che mi veniva offerto senza mettere la mia anima in pericolo di dannazione eterna[1]. Dopo essere stato sottoposto a vari interrogatori, il 1° luglio 1535 si svolse a Westminster il processo contro Moro e, attraverso una falsa testimonianza, fu condannato all’impiccagione per alto tradimento. La condanna fu eseguita il 6 luglio 1535. Così scriveva qualche giorno prima dell’esecuzione: “Siamo tutti imprigionati nella prigione del mondo, condannati e soggetti alla morte; in questa prigione nessuno sfugge alla morte. […] Così, quando la prigione viene amata come se non fosse una prigione, in un modo o nell’altro la morte ci porta fuori da essa[2].

2. La produzione religiosa e giuridico-politica di Tommaso Moro è davvero vasta. Qui ci soffermeremo a esaminare la sua opera più nota, l’Utopia, pubblicata nel 1516 con il titolo: “De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus, clarissimi disertissimique viri Thomae Mori inclytae civitatis Londinensis civis et Vicecomitis”. A proposito della scelta del nome dato all’isola in cui si vagheggia l’esistenza e l’operare delle strutture politico-sociali che ci apprestiamo a presentare, si legge: «Gli antichi mi chiamarono Utopia per il mio isolamento; adesso sono emula della repubblica di Platone, e forse la supero (infatti ciò che quella a parole ha tratteggiato, io sola lo attuo con le persone, i beni, le ottime leggi), sicché a buon diritto merito di esser chiamata Eutopia»[3]. Già Platone si era avvicinato al significato prescelto da Moro, allorquando scrisse che la città perfetta a cui si riferisce nella Repubblica non esiste in nessun luogo della terra. Nonostante si tratti di un’opera utopica e ucronica, priva cioè di un riferimento spazio-temporale reale, il libro non può considerarsi un’opera di fantasia. È certo, infatti, che Moro fu molto influenzato nella sua scrittura dalle scoperte iberiche del nuovo mondo. Inoltre, conosceva bene l’opera di Amerigo Vespucci e una prova di ciò è offerta dal fatto che il suo personaggio principale, Raphael Itlodeo, è un navigante, un personaggio immaginario, a cui è affidato il compito di spiegare i costumi e le istituzioni del popolo di Utopia. In contrasto con l’aspetto ludico del testo, l’opera è una profonda e consolidata critica sociopolitica dell’Inghilterra e dell’Europa del suo tempo (XVI secolo)[4]. Utopia si divide in due libri: Città reale e Città perfetta. È un trattato singolare, che ha piuttosto l’aspetto, soprattutto nel secondo libro, di un romanzo-saggio, mentre nel primo prevale l’aspetto dialogico. Il dialogo è fra l’io narrante (l’autore) e Raphael Itlodeo (termine che si può far risalire alla parola greca “hitlos”, “frottola” e che significa “chiacchierone”), che racconta al primo di aver viaggiato per anni nel Nuovo Mondo e di essere infine arrivato a Utopia, in cui avrebbe vissuto cinque anni. In questa isola, le istituzioni politiche e civili sarebbero superiori a quelle europee. Nel primo libro si sottolinea, poi, che la vita è il bene principale dell’uomo e dunque si condanna la pena capitale, allora impiegata anche per piccoli reati, come i furti; inoltre ci si pronuncia per l’uguaglianza e contro la proprietà privata. Nel secondo libro, invece, i costumi di Utopia sono descritti tenendo anche presente il modello della Repubblica di Platone.

3. Nell’Utopia, Moro descrive uno stato ideale nel quale, influenzato dall’opera platonica, ha introdotto gli ideali di comunanza dei beni, di uguaglianza tra uomini e donne e del valore supremo della saggezza nel governo. Tuttavia, le differenze con Platone possono essere osservate se si considera che egli estese la comunanza dei beni all’intera società, partendo da una concezione radicalmente diversa della struttura sociale. Mentre la Repubblica platonica, infatti, è basata sull’esistenza di classi distinte e presuppone una organizzazione sociale altamente gerarchizzata, l’Utopia di Moro elimina le classi o le caste sociali così da alterare ab imis la struttura stessa della società. Secondo lui, una volta scomparse le distinzioni tra diversi ceti economici, sarebbero scomparse anche le differenze di status sociale. Se lo Stato deve garantire la salus rei publicae, nella quale ci si occupi dei pubblici affari e dell’interesse comune, come accade in Utopia, allora occorrerà abolire la proprietà privata, il denaro come mezzo di scambio e lo stesso commercio. Tutti i cittadini, indistintamente, per sei ore al giorno si dedicano all’agricoltura e alla produzione dei beni necessari a tutta la comunità; il resto del tempo lo dedicano al riposo, ai rapporti familiari e sociali, soprattutto ad attività culturali e all’educazione dell’intelletto. Moro fu anche un sostenitore della tolleranza e della pace, opponendosi a tutte le persecuzioni e le guerre per motivi di fede, anche se fece un’eccezione irremovibile per coloro che negavano l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima.

4. Al centro del suo pensiero c’è l’idea che Dio possa essere onorato in modi diversi e che la pace sia possibile sulla base di una reciproca comprensione e accettazione di questa diversità religiosa[5]. Nell’Utopia coesistono così diversi culti: quello solare e quello lunare, il culto degli eroi leggendari, il culto di un essere supremo creatore e provvidente, il culto cristiano della provvidenza allo stesso tempo. Vi è un punto, tuttavia, sul quale concordano tutti, quale che sia la concezione che ciascuno abbia dell’essere supremo; ritengono infatti che esso «coincida senz’altro con la natura stessa, la sola divinità e maestà da cui venga fatta dipendere per consenso unanime delle genti l’esistenza di tutte le cose»[6]. Coloro che vivono su Utopia sono talmente abituati alla diversità religiosa e alla tolleranza che essa comporta, che si riuniscano in vasti templi dove i sacerdoti praticano l’ecumenismo e non pronunciano altro che parole atte a convertire tutti, con l’obiettivo di essere in grado di condurre una vita morale. Fondamentale per il pensatore è non assoggettare i sudditi alla volontà del tiranno, sottomettendo completamente la loro libertà individuale. Al contrario il buon principe deve aumentare il grado di libertà dei sudditi attraverso l’esercizio del potere. Per quanto riguarda la forma di governo ideale, Moro sembra preferire la repubblica alla monarchia. Tuttavia, se teniamo presente il contesto socio-storico, possiamo dire che finisce per optare per una monarchia limitata dalla legge e da un Parlamento.

5. La forma letteraria utopica delineata da More non rappresenta affatto un mero ideale distaccato dal mondo, ma una vera e propria indicazione per una riforma della società che, a partire dalla critica radicale dell’Inghilterra del tempo, deve fondarsi sull’abolizione della proprietà privata e del principio della «potestà regia» in favore della sovranità popolare. Sebbene le fonti a cui Moro si rifà fossero fortemente platoniche-agostiniane, vi si possono trovare anche sfumature di stoicismo, tomismo e dell’opera di Erasmo[7], per cui si può affermare che le fonti principali possono essere fatte risalire all’antichità greca e latina. Tuttavia, per la prima volta in assoluto, in quest’opera la democrazia in senso umano, nel senso della libertà e della tolleranza pubblicamente garantite e praticate, viene collegata con un’idea ben precisa dell’organizzazione economica collettiva. Eppure, a differenza dei collettivismi dello Stato migliore sognati fino a quel momento, nella collettività di Moro è inscritta la regola della libertà e il cui contenuto consente di configurare un’autentica democrazia umano-materiale[8]. Moro e gli altri utopisti – Campanella, Bacon, Kant ecc. – sono i primi a progettare una società comunista senza proprietà privata, che viene ritenuta possibile già al presente e non in un lontano futuro: la società perfetta si può cioè costruire in ogni momento e in ogni luogo, purché sia adottato il giusto ordinamento costituzionale dello stato. L’abolizione della proprietà privata quale anticipazione del comunismo moderno è al centro anche del saggio di Gaetano Mosca dedicato a More[9], la cui eredità è facilmente riscontrabile in numerosi autori democratici, socialisti e anarchici quali Rousseau, Fourier, Proudhon e Leroux. La caratteristica principale del comunismo moreano, secondo Mosca, consiste nell’essere il primo tentativo moderno – dopo quello classico di Platone – di costruire una concezione comunista razionale senza alcuna base religiosa: l’abolizione della proprietà privata non ha a che fare con la salvezza dell’anima purificata dall’abbandono delle ricchezze mondane, ma con la necessità di eliminare le passioni egoistiche che sono la radice di ogni logica avversa al vivere del consorzio civile[10].

6. Tommaso Moro si presenta poi come radicalmente opposto a Machiavelli o, ancora, al machiavellismo come corrente politica esistente sia prima che dopo Machiavelli stesso. Infatti, è impensabile che Moro potesse conoscere Il Principe, e ciò per ragioni anche solo cronologiche. Habermas cita Moro insieme a Machiavelli facendone i primi rappresentanti di una nuova interpretazione dei fondamenti e delle finalità della civitas, alla luce dei nuovi rapporti sociali che si vengono configurando a partire dall’Umanesimo quattrocentesco[11]. Ma Machiavelli e Moro, nell’interpretazione di Habermas, sembrano idealmente dividersi i compiti in vista della realizzazione del nuovo ordine sociopolitico che sarà compiutamente delineato da Hobbes. Mentre la filosofia politica di Machiavelli, infatti, prescinde dall’organizzazione economica della società per volgere la sua attenzione esclusivamente alla tecnica della conquista e del mantenimento del potere politico, il pensiero di Moro è dedicato proprio all’analisi delle funzioni sociali della nuova amministrazione statale e trascura tutto ciò che è relativo al comportamento politico inteso come potere militare per concentrarsi su una nuova modalità empirica di costruzione dell’ordo societatis, inteso come compito tecnico-giuridico relativo al benessere economico della collettività e alla felicità diffusa. Non solo, ma mettendo a confronto i due grandi pensatori, il primato della morale sull’amoralismo, il primato il primato dell’etica sulla forza, dei doveri etici e delle norme giuridiche sulla volontà irrazionale di puro dominio, la persuasione della ragione in opposizione allo Stato, come opera di pura “arte politica” la giustizia del potere non potrà che fondarsi sul dato di un accordo sociale di tipo propriamente economico, implicante l’abolizione definitiva della proprietà privata, intesa come fondamento per un’organizzazione sociale razionalmente, tecnicamente ed empiricamente adeguata di ciò che è veramente necessario alla vita umana: “Con Moro, il socio-economico vince pertanto sul politico, le cui istituzioni hanno un significato esclusivamente strumentale in vista della riproduzione della vita sociale al riparo da guerra e miseria[12]. Una simile letture, ci restituisce un Moro, se possibile, più moderno dello stesso Machiavelli.

Antonio Casciano


[1] Sardaro, A., La corrispondenza di Tommaso Moro. Analisi e commento critico-storico, EDUSC, Roma, 2004, p. 145.

[2] Cabrillana, C., Introducción a la obra Tomás Moro. Epigramas, Rialp, Madrid, 2012, p. 92. Nostra la traduzione.

[3] More, T., Utopia, a cura di Luigi Firpo, 3ª ed., Napoli, Guida, 1990, p. 65.

[4] Il giudizio di More sull’Europa sotto il profilo morale, sociale e politico è radicale: «Quando considero tutti questi nostri Stati oggi vigenti e ci rimugino sopra, la sola cosa – Iddio mi guardi! – che mi viene in mente è che si tratti d’una conventicola di ricchi, che sotto nome e pretesto di Stato pensano a farsi gli affari loro: così almanaccano ed escogitano tutti i modi e le sottigliezze che consentano, anzitutto, di conservare, senza rischio di perderlo, tutto ciò che si sono accaparrato con mezzi disonesti, poi di assicurarsi col minimo esborso la possibilità di abusare del lavoro e delle fatiche di tutti i poveri. Queste macchinazioni, una volta che i ricchi hanno stabilito di metterle in atto con pubblico decreto (e perciò anche a nome dei poveri), assumono forza di leggi», ivi, pp. 292-293.

[5] Gli abitanti di Utopia «hanno in sommo orrore la guerra, cosa in tutto belluina, ma che nessuna specie di belve pratica con tanta frequenza quanto l’uomo, e contro il costume di quasi tutti i popoli nulla ritengono più inglorioso della gloria che si va cercando in guerra», ivi, p. 252.

[6] Ivi, p. 269.

[7] Cfr. Reale, G., Antiseri, D. Del Humanismo a Kant, in Historia del pensamiento filosófico y cientítico, vol. II, Herder, Barcelona, ed., 2016, p. 125.

[8] Cfr. Bloch, E., Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt a.M., 1959; trad. it. Il principio speranza, introduzione di R. Bodei, 3 voll., Milano 1994, II, pp. 595-596.

[9] Cfr. Mosca, G., L’utopia di Tommaso Moro e il pensiero comunista moderno, in Scritti della Facoltà Giuridica di Roma in onore di Antonio Salandra, Milano, 1928, pp. 259-272.

[10] Cfr. Altini, C., Nusquama, o la fortuna di Thomas More nella filosofia del Novecento, in Ghia, F., Meroi, F. (a cura di), Thomas More e la sua Utopia Studi e prospettive, Olschki, Firenze, 2018, p. 126.  

[11] Cfr. Habermas, J., Theorie und Praxis. Sozialphilosophische Studien, Berlin 1963; trad. it. Prassi politica e teoria critica della società, Il Mulino, Bologna, 1973, pp. 84-101.

[12] Altini, C., Nusquama, cit., p. 130.

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