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Pubblichiamo il testo della recente sentenza del tribunale di Messina sul cambiamento di esso, ordinato dal giudice senza che vi sia necessità di un intervento chirurgico, e una nota critica a commento di Vincenzina Maio, avvocato del foro di Salerno.

Dopo i Tribunali di Roma, Rovereto e Siena, anche il Tribunale di Messina (sent. 4.11.2014 n. 2242)  tenta di introdurre nel nostro ordinamento giuridico il concetto di identità di genere.

Il caso ha riguardo ad un uomo che chiedeva al tribunale di autorizzare con sentenza  il cambio anagrafico del proprio  sesso, da maschio a femmina,  pur senza essersi sottoposto ad intervento chirurgico di modifica degli organi genitali, bensì solo a terapia ormonale femminilizzante. Esponeva, infatti, di essere affetto da disturbo di identità di genere, sentendosi e percependosi  appartenente al sesso femminile  tanto da non  ritenere  necessario un intervento chirurgico.

Il Tribunale di Messina ha accolto  la domanda proponendo una  interpretazione  della  normativa in tema di rettifica di attribuzione di sesso ( regolata dalla legge 14.04.1982 n. 164 per come sostituita parzialmente dalla disciplina dell’art. 31 D. Lgs. 01.09.2011 n. 150)  che, discostandosi dal dato letterale , consente la rettifica anagrafica del sesso  anche in assenza di un intervento demolitorio‐ricostruttivo degli organi genitali.

Per giungere a detta interpretazione, il Tribunale, per un verso, critica il legislatore del 1982 che, a suo dire, non avrebbe disciplinato tutti gli aspetti del transessualismo “ma solo i profili attinenti alla rettificazione dell’attribuzione di sesso, trascurando tutti gli altri”; per altro verso, critica l’interpretazione maggioritaria del combinato disposto degli artt.  1 e 3  l.  n. 164/82 (secondo cui “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”) e  31 D. Lgs. n. 150/2011 (che al co.4 statuisce: “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico‐chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”).

In buona sostanza, posta la distinzione tra caratteri sessuali primari e secondari, identificandosi, i primi, con gli organi genitali e riproduttivi (ossia con l’aspetto strettamente anatomico della persona umana) ed i secondi con altre caratteristiche fisiche e psichiche (quali conformazione del corpo nei suoi diversi tratti, timbro della voce, atteggiamenti e comportamenti esteriori e percepibili dai terzi), a parere del Tribunale   dalla lettura delle due norme emergerebbe che  l’espressione “l’adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico‐chirurgico va effettuato quando risulta necessario” sia da intendere  come indicazione  della mera “eventualità” dell’intervento chirurgico. E tanto sulla scorta di una pretesa necessità  di accogliere in pieno il concetto di identità di genere quale chiave interpretativa del diritto all’identità personale, dimodoché esso, così plasmato,  rivendichi la permanenza tra i  diritti di cui all’art. 2 della Costituzione quale espressione della “dignità del soggetto”.

Proprio tale  richiamo alla dignità umana si profila problematico e merita qualche riflessione, atteso che  nella prospettiva della sentenza “non sussiste un  concetto fisso ed immutabile di dignità umana, poiché tale concetto sintetizza sul piano giuridico il livello di sensibilità espresso dalla società ed il rispetto dovuto alla persona secondo le esigenze ed i valori avvertiti in un determinato tempo”.

Il punto fondamentale è proprio questo: se la dignità umana è davvero  solo un “criterio interpretativo” che sovviene alla interpretazione evolutiva delle norme, allora essa non è definibile in modo certo, non è ancorata  a dati oggettivi,  ma è soggetta a mutare  come muta la società.  E in tal caso, essa soggiace alle liquide regole dei cambiamenti sociali e, più pericolosamente, agli arbitri e alle derive ideologiche che ne potrebbero conseguire in seno al potere statuale (di cui i migliori esempi sono le dittature totalitarie ben note alla memoria storica) .

In realtà, una tradizione giuridica plurimillenaria dimostra proprio il contrario di quanto asserisce il Tribunale di Messina.

L’essenzialità della dignità umana, che è alla base dei diritti fondamentali della persona, è consistita sempre nel fatto che essa non può  essere né concessa né derogata da alcun potere umano, perché ha il suo fondamento non in un atto di umana volontà ma nella stessa natura dell’uomo.

Già prima della grande tradizione dottrinale e giurisprudenziale romana sul diritto naturale, l’esistenza di una legge non scritta, universale, presente nello spirito umano come espressione di comune e alta dignità morale e giuridica dell’uomo, rappresentava, nel pensiero ad esempio di Eraclito e di Sofocle, l’unico  baluardo contro la tirannide. Sulla stessa scia, Polibio, nella sua Storia di Roma, seguendo i risultati a cui erano pervenuti prima Platone ed Aristotele,  affermava che non può chiamarsi democratico uno stato in cui una qualsiasi massa di cittadini – anche maggioritaria – è padrona di fare ciò che le piace. Cicerone insegnava che “certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere e i suoi divieti trattengono dell’errore (…) È un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi ha la possibilità di abrogarla completamente“.

Fin dai tempi dell’antichità precristiana, dunque, era chiaro che la democrazia può esistere come tale soltanto se la maggioranza rispetta certe premesse basilari dell’ordinamento sociale, tra cui i principi del diritto o etica naturale e i diritti umani inviolabili che in esso hanno il loro fondamento .

La rielaborazione della grande civiltà greco-romana alla luce dell’esperienza storica del cristianesimo ha rafforzato tali premesse, tramandando, nel tessuto sociale e giuridico, un rispetto profondo per l’oggettività del reale e della natura.

Nella prospettiva giuridica, allora, la dignità umana assurge a valore intangibile che coincide sostanzialmente con l’attributo primo ed irrinunciabile della persona, riassumendo  il principio personalista che informa il nostro ordinamento giuridico: la persona umana merita assoluto rispetto di per sé. Altrimenti detto, la dignità umana, più che apprezzarsi in termini di diritto positivo, assume i connotati di un valore cui è improntato uno dei principi fondativi della Carta Costituzionale, quale è appunto il principio personalista.

Letta in questa luce, l’interpretazione fornita dal Tribunale di un “ diritto all’identità sessuale  riconosciuto non solo a coloro che, sentendo in modo profondo di appartenere all’altro genere, abbiano modificato i loro caratteri sessuali primari, ma anche a coloro che senza modificare i caratteri sessuali primari abbiano costruito una diversa identità di genere e si siano limitati ad adeguare in modo significativo l’aspetto corporeo” appare irrispettosa proprio ed anzitutto di quella  prospettiva personalista che vorrebbe, invece, acclarare.

Infatti, se il diritto all’identità sessuale coincide  con l’identità di genere, intesa come la percezione soggettiva che una persona ha di sé in quanto appartenente al genere maschile o femminile anche se opposto al proprio sesso biologico, allora esso degrada a mero desiderio che pretende di assurgere a  diritto.

Le conseguenze paradossali di un siffatto ragionamento sono state ben messe in evidenza dalla Corte di Appello di Bologna (sent. 22.2.2103) che, in un caso analogo a quello in esame, ha respinto le pretese del ricorrente evidenziando come l’aspirazione ultima di chi reclama il riconoscimento di una identità di genere non è la volontà di essere riconosciuto appartenente al genere femminile o maschile, “ ma una diversa implicita aspirazione al riconoscimento di un terzo genere che non può, allo stato, trovare spazio nel nostro ordinamento neppure se si vuole dilatare al massimo la nozione di persona umana e di diritto all’identità sessuale racchiuso nell’art. 2 Cost.”. E tanto sulla base della corretta considerazione secondo cui dare ingresso ad un preteso “terzo genere” significherebbe legittimare giuridicamente pretese fluide volte anche- perché no! – al ritorno al sesso originario. Poiché, infatti,   la modifica  dei caratteri sessuali secondari non è irreversibile, logica conseguenza dovrebbe essere quella di  consentire allo stesso soggetto un numero non prevedibile di rettifiche anagrafiche del sesso. Giustamente la Corte di Appello di Bologna ( ma anche Tribunale di Vercelli sent. 27.11.2014 e Tribunale di Trento, ord. 19.8.2014) esclude che si possa superare, oltre al limite di natura,  anche il limite giuridico  imposto dagli artt. 1 e 3 l. 164/1982  della modifica dei caratteri sessuali primari e secondari , dimodoché accede ad una interpretazione strettamente letterale che  individua il presupposto della rettificazione dell’atto di nascita nella modificazione dei caratteri sessuali tout court della persona; diversamente opinando, il legislatore  avrebbe avvertito l’esigenza di una maggiore e puntuale specificazione onde evitare l’insorgenza di facili equivoci.

Certo, non può tacersi che la l. 164/1982, prevedendo che si possa cambiare sesso sottoponendosi ad operazione chirurgica, finisce per legittimare giuridicamente una scelta soggettiva, figlia della  medesima impostazione che sottende la teoria del gender.

Tuttavia in provvedimenti come quello del Tribunale di Messina si evidenza un ulteriore arbitrio nell’interpretazione della legge, perché supera anche quella barriera minima che ancòra il legislatore riconosce alla fisicità (la l. 164/1982 usa il termine “sesso” e non genere) .

Se non c’è neanche  più bisogno dell’intervento chirurgico che modifichi la natura,  se  non si è uomini o donne secondo un dato oggettivo, ma in base al sentire soggettivo di decidere cosa si è, allora siamo in presenza di uno scenario caotico in cui il diritto è chiamato solo a dare veste giuridica al capriccio.

Un diritto all’identità di genere svuotato della connotazione sessuale presuppone l’impossibilità di interpretare il sesso come verità essenziale della persona, degradando il medesimo a elemento accidentale e semplice substrato biologico, il che è esattamente la negazione della dignità umana quale valore  determinante per il buono sviluppo della società e la tutela dei diritti dell’uomo.

Si tratta di una posizione antropologica troppo importante per essere lasciata all’esperimento di laboratorio di magistrati che si arrogano il diritto di diventare legislatori.

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