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Parlare oggi di maternità surrogata significa dar già per scontato che possa essere lecita, o solo ipotizzabile, la compravendita di esseri umani, peraltro ormai da tempo prodotti e manipolati in laboratorio nonché lo scarto di essi, quando “difettosi”.

Questa ultima ed ennesima deriva di natura antropologica e giuridica non è altro, in fin dei conti, che il frutto di quell’astrattismo ideologico postmoderno che ha portato alla perdita della “recta ratio”, per dirla alla Cicerone.

La crisi antropologica, culturale e, prima di tutto, spirituale in Europa e, in generale, in Occidente, ha attraversato gli ultimi secoli mediante le spinte propulsive della cultura giuridica illuminista e post-illuminista, passando da un giusnaturalismo di tipo soggettivo ad un giuspositivismo assoluto, con ciò avviando un processo di distacco, sempre più marcato del diritto positivo (ius positum) dal diritto naturale (ius naturale).

Ma è nel secolo scorso che questo processo ha conosciuto delle accelerazioni, dei passaggi violenti quanto strategici che hanno rappresentato un punto di non ritorno, poiché, come insegna Cicerone, senza l’aggancio ad una norma naturale non si può distinguere una legge buona da una cattiva.

Lo scollamento, infatti, da quelle radici di millenaria cultura giuridica ereditata dal diritto romano fondato sul diritto naturale, ha prodotto mostruosità concettuali ed astrazioni metagiuridiche che potremmo definire, propriamente, “antigiuridiche”.

Mentre, infatti, nel diritto romano il concetto di homo e di persona, con la dignità che ne consegue, è valore universale preesistente ad ogni norma positiva e, come tale, viene riconosciuto nella sua concretezza e sacralità al tempo stesso, oggi la persona è stata ridotta ad oggetto fluido e manipolabile.

Nella cultura giuridica romana troviamo, come ci testimonia il titolo V (De Statu hominum) del libro I dei Digesta di Giustiniano, la nozione di homines, i quali sono poi elencati nello status che appartiene loro concretamente, e cioè liberi, servi, cives Romani, ingenui, libertini nonché qui in utero sunt(coloro che si trovano nell’utero e cioè i nascituri).

Prova ne è anche lo stesso istituto (presente in epoca precristiana) del curator ventris (letteralmente curatore del ventre e cioè tutore del concepito che si trova in utero e, quindi, tutore della stessa madre) il quale aveva il compito, come ci riporta Ulpiano, di assicurare alla donna incinta “cibum, potum, vestitum, tectum”  [1]al fine di tutelare, in primo luogo, l’incolumità del nascituro e la dignità della madre rimasta vedova o comunque sola.

E ciò non solo a tutela della familia edei parentes ma, soprattutto, della res pubblica perché, come ci spiegano i giuristi romani, i concepiti sono futuri cittadini da proteggere e far nascere.  “Non dubitiamo che il Pretore debba venire in aiuto anche del concepito, tanto più che la sua causa è più da favorirsi che quella del fanciullo: il concepito infatti è favorito affinché venga alla luce, il fanciullo affinché sia introdotto nella famiglia; questo concepito, infatti, si deve alimentare perché nasce non solo per il genitore, cui si dice appartenere, ma anche per la res pubblica[2] .

Non solo, dunque, i concepiti sono cittadini a tutti gli effetti ma essi sono soggetti di diritto, beneficiari di tutela specifica. Ed è proprio in questo concreto concetto di persona (“in puero homo” e “qui in utero sunt”) che si rivela l’alto grado di civiltà giuridica.

Del resto, una cultura giuridica che si rispetti non consente che la madre sia lasciata sola ma ha cura della donna e del bambino in quanto soggetti di diritto da tutelare e proteggere.

Tale antropologia giuridica riflette una visione concreta ed autentica dell’uomo, che istintivamente riconosciamo come irrinunciabile. E ciò perché, aldilà delle nostre infrastrutture ideologiche moderne e postmoderne sappiamo perfettamente che tutti noi siamo stati nascituri e, come tali, bisognosi e degni di tutela.

Il fondamento di verità contenuto nella nozione di soggetti giuridici e cittadini in riferimento a coloro “qui in utero sunt” è assioma antropologico fondante la civiltà romana dall’epoca precristiana fino ai nostri giorni.

Se paragoniamo, però, questa chiara realtà con le valutazioni postmoderne del concetto di concepito e di nascituro, ci accorgiamo di sconfinare improvvisamente in una dimensione altra, “virtuale”, fittizia, in ultima analisi falsa.

E ciò riflette la stessa concezione di uomo e la sua dignità che domina il diritto moderno.

La graduale sostituzione del diritto naturale con il diritto positivo ha prodotto un’accezione moderna di uomo utile solo in quanto capace di autodeterminarsi, soggetto ontologicamente sempre più astratto e impersonale. Ultimamente, infine, nella follia astrattiva, che vuole essere rispettosa delle differenze cosiddette di genere, si parla di una soggettività non più intesa come antropologicamente oggettiva ma fluida e in divenire.

Del resto, la subcultura globalista imposta da una governance mondiale sempre più presente ed ingerente negli ordinamenti giuridici europei, impone mutamenti di linguaggio attraverso nuovi paradigmi ed ambivalenze linguistiche giuridiche gradualmente propedeutiche ad una spersonalizzazione anche in tema di identità sessuale e di ideologia gender, nella scomposizione dell’io in mille forme in quanto “percepite” e non in quanto oggettivamente e biologicamente date.

Questo processo di propaganda ideologica e di consenso verso una nuova forma concettuale astratta ed adulterata ha trovato, come analizza brillantemente Marguerite A. Peeters, le sue strategiche evoluzioni dagli anni novanta in poi – con le apposite conferenze Onu, in particolare del Cairo e di Pechino – nella prospettiva della governance mondiale di imposizione di un nuovo e strategico linguaggio: “Così il gender è inseparabile dagli altri nuovi paradigmi”(…) ”tutto è collegato; tutto è inestricabilmente dentro tutto. Il nuovo consenso è un sistema semantico ed etico”  [3]

E’ evidente, però, che il punto di svolta che ha portato a queste derive, attraverso una graduale spersonalizzazione e desacralizzazione del concetto di uomo e di persona, sia avvenuto con la forzatura ideologica, di matrice maltusiana, operata attraverso la matrice culturale sottostante alla legge 194 del 1978 in materia di c.d. “interruzione volontaria di gravidanza”, laddove l’operazione di astrazione concettuale e di mistificazione terminologica (già a partire dal termine illusorio  ” interruttivo” di un iter, la gravidanza appunto, che in realtà non avrà più luogo dopo tale interruzione ) produrrà un “aborto” anche della ragione stessa.

Quando, infatti, si è voluto interpretare, dal punto di vista ontologico, il nascituro come una semplice appendice della donna e non più come una persona meritevole in sé di tutela, si è irrimediabilmente caduti in una follia concettuale che contraddice la ragione e la logica, oltre che la dignità e la sacralità dell’essere umano.

E ciò, a voler tacere del contrasto pure con le norme di diritto positivo costituzionali (in tema di tutela della vita) e civili, laddove per il nostro ordinamento il concepito è comunque potenzialmente soggetto titolare di diritti, ad esempio come beneficiario di lasciti testamentari, sebbene perfezioni l’acquisto della capacità giuridica con l’evento della nascita.

Volendo soffermarci su tale titolarità del concepito, anche solo ipotetica in quanto il suo pieno espletamento ed esercizio sarebbero subordinati all’evento della nascita, non possiamo con tutta onestà negare che essa, comunque, si riferisce ad una persona che dovrà nascere e che potrà ereditare.

La mistificazione della realtà invece operata nella legge 194 del 1978 mediante tale salto illogico, ha portato, inevitabilmente, alla destrutturazione del concetto di persona, prima definito come feto, poi embrione, cellula embrionale ed, infine, grumo di materia (come, purtroppo troveremo nella giurisprudenza successiva, applicativa della legge ) e, da questo momento, non ci meraviglieremo più delle conseguenti derive di dissoluzione del diritto e della stessa percezione della realtà.

L’uomo diviene un oggetto manipolabile al punto da costituire “risorsa umana” in ambito giuslavoristico, identità virtuale e ibrida (transumanesimo) e oggetto di consumo acquistabile dal migliore offerente (utero in affitto) e, perché no, anche essere fluido sessualmente, percepito in divenire nelle sue diverse forme.

Illuso di avere diritto illimitato di scelta e di consumo, l’uomo è ridotto esso stesso a bene di consumo, oggetto fallato che può essere scartato.

Nei contratti di maternità surrogata, l’embrione (il nascituro diremmo) viene sì protetto con la clausola che nega la facoltà per la gestante di abortire (senza il consenso degli acquirenti), ma non in quanto essere umano fragile da difendere, bensì quale oggetto da acquistare con garanzia di prodotto finito e di buona qualità, il tutto a scelta e discrezione dei compratori e nemmeno più della donna.

Resta il fatto che alcuni rimangono più soggetti di diritto di altri. Gli indifesi, i fragili diventano sopprimibili secondo il convincimento post maltusiano della necessità di una migliore qualità della vita, dello scarto dei soggetti fallati, del controllo delle nascite in chiave ecologista. Tutto ciò nasce da un punto di frattura e di non ritorno: la illogica reductio ad unum da “homo” a” res”. 

E in una dimensione ormai virtuale e liquida si è entrati in una irrealtà pericolosa, dove il diritto stesso si è dissolto in un irrazionale desiderio, declinato nell’illusorio superamento dei limiti naturali e nelle sue chimere.

Federica Galvan, avvocato


[1] Ulpiano, Digesto 37,9,1,19

[2] Ulpiano, Digesto 37,9,1,15

[3] Marguerite A. Peeters, IL GENDER, Una questione politica e culturale. Ed. SAN PAOLO, pagg. 63,67

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