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Intervista di Andrea Mariotto ad Alfredo Mantovano, pubblicata l’8 marzo 2021 sul sito dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân.


Da più di un anno il mondo della magistratura è in subbuglio. Lo scandalo legato al nome di Luca Palamara, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ha portato alla luce un sistema di potere che indirizzava in base all’appartenenza all’una o all’altra corrente, e non tanto in base ai titoli e al merito, le nomine ai ruoli principali nelle Procure italiane.

Il caso di cronaca ci offre lo spunto per un ragionamento più ampio sullo stato della giustizia in Italia e sulla sua “politicizzazione” con Alfredo Mantovano, magistrato e vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino, per il quale ha recentemente curato la pubblicazione del libro “In vece del popolo italiano. Percorsi per affrontare la crisi della magistratura” (ed. Cantagalli, Siena 2020). Il volume raccoglie gli atti del convegno “Magistratura in crisi. Percorsi per ritrovare la giustizia” organizzato dallo stesso Centro studi Livatino a novembre 2019, nel pieno di quello che i media hanno presto rubricato come “caso Palamara”, mentre invece sarebbe più corretto parlare di “caso Csm”, come nota lo stesso Mantovano per evidenziare che il problema è articolato e non legato ad un solo soggetto: “un sistema ideologizzato e spartitorio che condiziona in negativo l’amministrazione della giustizia”.

Mantovano, il volume che lei ha curato si intitola “In vece del popolo italiano”. La giustizia si è sostituita alla politica e non è più capace di parlare “in nome” del popolo italiano?

In base alla nostra Costituzione, il Parlamento, eletto dal popolo, approva le leggi e dà la fiducia al governo. La magistratura applica le leggi decise dal Parlamento. Sempre secondo la Costituzione, la stessa magistratura non interferisce sull’azione del governo se non in ipotesi di comprovate violazioni di legge da parte di suoi singoli esponenti. La vita quotidiana ci proietta un altro film, pur se non si tratta di un fenomeno esclusivamente italiano, che anzi interessa l’intero mondo Occidentale, e in particolare l’Europa, e costituisce l’esito di scelte teorizzate e applicate.

Qualche anno il prof. Sabino Cassese scriveva un interessante volumetto, dal titolo “I tribunali di Babele”, partendo dal presupposto dello sfaldamento della sovranità statale, e del vuoto che essa lascia a beneficio di nuovi soggetti regolatori, in gran parte espressione delle giurisdizioni, nazionali, sovranazionali ed internazionali. «[…] Le corti – egli scriveva – stanno assumendo un ruolo importante nella definizione dei rapporti fra ordinamenti giuridici. Si parla di “judicial dialogue” o “judicial conversation”, di “inter-judicial coordination” e di una “community of judges” […] A questo punto, lentamente (molto lentamente), il diritto prende il posto della politica nell’arena globale. Se prima si era passati dalle spade alle feluche, ora si passa dalle feluche alle toghe” (I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Donzelli, Roma 2009, pp. 3-5).

Com’è emerso anche durante il convegno organizzato dal Centro Studi Livatino “Magistratura in crisi”, negli ultimi anni sempre più spesso i tribunali hanno in più casi modificato l’applicazione delle leggi dello Stato – si pensi, ad esempio, alla legge 40 – sostanzialmente sostituendosi al legislatore. Come si può rispondere a questi “sconfinamenti” della giustizia?

L’Italia sperimenta da anni l’attivismo giudiziario. Fra le vicende più emblematiche va ricordato il caso di Eluana Englaro, per il quale nel 2007 la 1ª sezione civile della Cassazione si è riferita alle soluzioni giurisprudenziali adottate in altri Paesi, avendo ben cura di privilegiare quelle favorevoli all’eutanasia, e giungendo alla enucleazione, quali “principi di diritto”, della equiparazione fra trattamenti sanitari e alimentazione e idratazione e della presunzione del consenso del paziente alla sospensione delle cure, così altamente intese, sulla base di espressioni pronunciate molti anni prima, in condizioni di piena salute.

Ecco un passaggio del comunicato reso, a seguito delle polemiche scatenatisi per effetto di tale pronunzia, dal Segretario di Magistratura Democratica dell’epoca: “lo non capisco tanto gli interventi che lamentano in questi casi un’assenza della politica, e quindi la necessità della magistratura di farsi supplente. Che cosa vuoi dire? Ma in materie così sensibili e delicate, che poi riguardano la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, voi – come cittadini – vi sentireste più garantiti dall’intervento regolatore della contingente maggioranza politica?” (Comunicato del segretario nazionale di MD sui casi Englaro e Diaz, su http://magistraturademocratica.it). È necessario commentare?

Quali sono le cause storiche ed ideologiche di questo fenomeno di “giurisprudenza creativa”?

L’attivismo giudiziario non è praticato di nascosto, magari chiamandolo in altro modo. È stato oggetto, in questi anni, di una diffusa teorizzazione in dottrina. Gustavo Zagrebelsky, saluta come inevitabile la centralità dell’intervento giurisdizionale. Già Presidente della Corte costituzionale, in uno scritto risalente a quasi 30 anni fa (a riprova di quanto remoto sia il percorso), scrive, fra l’altro: «[…] molte domande nuove poste al diritto dal progresso tecnologico (si pensi alla tecnologia genetica) forse più opportunamente possono trovare una prima risposta in una procedura giudiziaria in cui si mettano a confronto prudentemente i principi coinvolti, piuttosto che in assemblee politiche dove il richiamo ai principi è spesso uno strumento di militanza di parte» (Gustavo Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino 1992, pp. 201-203). È neanche tanto sottesa l’affermazione della “pericolosità” dei consessi rappresentativi, a favore dell’intervento della giurisdizione.

Guardando allo scandalo che sta scuotendo il mondo della giustizia (il cosiddetto caso Palamara), emerge il quadro poco rassicurante di una magistratura più impegnata nella spartizione degli incarichi che nel perseguimento dei suoi obiettivi. Che messaggio può dare, in questo scenario, l’esempio del giudice Rosario Livatino, ucciso in odium fidei e proclamato martire da Papa Francesco poche settimane fa?

Non è la prima volta che accade qualcosa di grave nella magistratura e nessuno reagisce. Al di là degli episodi specifici – per i quali vale pur sempre la presunzione di innocenza – a colpire è il preoccupante abbassamento della tenuta, etica e professionale. Oltre il “caso Palamara”, proprio sull’esempio del tratto etico-professionale di Livatino, vanno affrontati tre numeri la cui consistenza causa disagi, sofferenze e danni incalcolabili: la quantità di denaro che ogni anno l’erario è costretto a versare per indennizzare le ingiuste detenzioni; la quantità di procedimenti penali che si perdono per via della prescrizione; la quantità di magistrati sottoposti a giudizio o condannati. A essi si aggiunge un ulteriore numero-scandalo: la quantità di indagini avviate – e pubblicizzate – su fronti rilevantissimi, che grazie a sequestri, informazioni di garanzia e talora pure arresti, bloccano importanti interventi istituzionali, e poi si concludono nel nulla; ottenendo i risultati di rendere impossibile il ripristino delle opere programmate, di pregiudicare azioni di governo coerenti con mandati elettorali, e anche di espellere dalle istituzioni quei funzionari pubblici che le stavano seguendo. Dalla distruzione dell’Ilva alla diffusione della Xylella, per non parlare degli ostacoli al contrasto dell’immigrazione irregolare, il campionario delle barriere costituite da opzioni giudiziarie ideologizzate e/o partigiane è lungo e doloroso.

Si può dire che il caso di Livatino ripropone il tema del nesso tra il diritto e la morale?

Ricevendo i componenti del Centro studi intestato a Rosario Livatino, il 29 novembre 2019, in occasione del convegno nazionale annuale che si è tenuto nella stessa data, Papa Francesco ha ripreso, fra gli altri il passaggio di una conferenza tenuta dal magistrato di Canicattì: «Decidere è scegliere […]; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto, per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. […] E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione».

Il riconoscimento del martirio di Livatino e la sua prossima beatificazione illuminano sul significato del lavoro del giudice: la figura di Rosario ha permesso di vedere incarnata nella funzione esercitata l’evangelico “non giudicate per non essere giudicati” con la quotidiana amministrazione della giustizia. Quindi l’area del “non giudicare” coincide con l’arbitraria, e non autorizzata, valutazione etica della vita di una persona, non già col raffronto fra gli specifici atti della sua condotta – indicati dall’accusa come illeciti – con le norme di legge. Quell’invito esorta pertanto alla professionalità, all’approfondimento del fatto concreto per il quale la persona è chiamata in un determinato giudizio, alla verifica della sua corrispondenza alla norma: è l’essenza del lavoro del magistrato, chiamato a mettere da parte visioni ideologiche, risentimenti personali, condizionamenti di carriera. È stato l’essenza del lavoro di Livatino.

Guardando al prossimo futuro, quali sono i provvedimenti in discussione che, da giurista, destano in lei maggiore preoccupazione?

Il 28 gennaio la Corte costituzionale ha annunciato due sue pronunce, le cui motivazioni saranno pubblicate “nelle prossime settimane”, riguardanti la maternità surrogata. Il primo giudizio riguarda – così la nota stampa della Consulta – “le questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione sull’impossibilità di riconoscere in Italia (…) un provvedimento giudiziario straniero che attribuisce lo stato di genitori a due uomini italiani uniti civilmente, che abbiano fatto ricorso alla tecnica della maternità surrogata”. Il secondo riguarda il “riconoscimento dello status di figli per i nati mediante tecnica di procreazione medicalmente assistita eterologa, praticata all’estero da due donne”: il Tribunale di Padova, che l’ha sollevata, “ha riscontrato un vuoto di tutela”, perché le due donne hanno sciolto la loro convivenza, e questo rende non praticabile la c.d. stepchild adoption.

In entrambi i casi la Corte ha deciso di non intervenire. Per il primo, “fermo restando il divieto penalmente sanzionato di maternità surrogata, ha ritenuto che l’attuale quadro giuridico non assicuri piena tutela agli interessi del bambino nato con questa tecnica”, e perciò “ha (…) affermato la necessità di un intervento del legislatore”. Per il secondo “ha rivolto un forte monito al legislatore affinché individui urgentemente le forme più idonee di tutela dei minori”.

Nei manuali di diritto costituzionale ancora adesso si insegna che quando una norma di legge viene sottoposta all’esame della Corte costituzionale l’esito è l’inammissibilità, se la questione sollevata non è stata correttamente impostata dal giudice; il rigetto, se la norma impugnata viene valutata conforme alla Costituzione; l’accoglimento, se invece l’eccezione è ritenuta fondata, con conseguente declaratoria di illegittimità; l’interpretativa di rigetto, se la norma è ritenuta legittima a condizione che sia interpretata in modo diverso da come l’ha intesa il giudice che ha rimesso la questione alla Corte.

Per la maternità surrogata la Consulta ripercorre la strada che ha seguito a margine del giudizio per la morte del dj Fabo: con l’ordinanza n. 207/2018, essa prospettò profili di illegittimità dell’articolo del codice penale che punisce l’aiuto al suicidio, e diede 10 mesi al Parlamento perché approvasse una legge che recepisse le proprie indicazioni. Poiché nel tempo assegnato Camera e Senato non fecero nulla, con la sentenza n. 242/2019 la Corte “inventò” un ulteriore comma all’articolo controverso e stabilì una procedura per rendere lecito il suicidio assistito. La differenza rispetto alle sentenze annunciate giovedì scorso è che stavolta la Consulta non fissa un termine. Ma l’avverbio che essa adopera per sollecitare il legislatore a intervenire, “urgentemente”, fa immaginare un déjà vu anche per quel che seguirà.

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